Questioni in tema di mandato omicidiario ineseguito

AutoreEnrico Cottu
Pagine54-57
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Rivista penale 6/2018
MERITO
6/2018 Rivista penale
MERITO
QUESTIONI IN TEMA
DI MANDATO OMICIDIARIO
INESEGUITO
di Enrico Cottu
SOMMARIO
1. La controversa rilevanza penale del mandato omicidiario
“inadempiuto”: tentativo o quasi reato?. 2. Il mandato inese-
guito come fattispecie di pericolosità (tra accordo sterile e
istigazione non accolta). 3. L’irripetibilità ob turpem causam
del prezzo versato al mandatario.
1. La controversa rilevanza penale del mandato omici-
diario “inadempiuto”: tentativo o quasi reato?
La pronuncia annotata sollecita una rif‌lessione su talu-
ni prof‌ili peculiari del mandato omicidiario inattuato (id
est, non portato a nefasto compimento), quale entità di
evidente disvalore etico ed interesse criminologico ma, al
contempo, di non agevole disciplina.
La problematicità della f‌igura in questione emerge, in
primo luogo, dalla sua collocazione al bivio tra gli istituti
del tentativo e dell’accordo non punibile.
Come è noto, il codice vigente, sancendo la ordinaria
irrilevanza, ai f‌ini di una affermazione di responsabilità,
dell’accordo f‌inalizzato a commettere un reato, poi effetti-
vamente non commesso (come dell’istigazione non accol-
ta) imprime una indiscutibile connotazione oggettivistica
al sistema. In tal senso, si ravvisa nella previsione dell’art.
115, del tutto persuasivamente, il riscontro positivo del
principio plasticamente compendiato nel brocardo cogita-
tionis poenam nemo patitur (1).
Al contempo, non vi è dubbio che la commissione di
un reato, oltrepassante il mero accordo, includa non solo
i delitti consumati ma altresì l’area del tentativo: assume
pertanto un rilievo centrale, ai f‌ini di una corretta classif‌i-
cazione della fattispecie concreta, la tematica del minimo
di attività necessaria e suff‌iciente per la affermazione di
una penale responsabilità a titolo di delitto tentato (2).
Fermo, infatti, almeno in via di principio, il divieto di
punire la sola volontà delittuosa, rimane per contro proble-
matico quale sia la forma e il grado di estrinsecazione ma-
teriale che tale volontà deve positivamente assumere per
rientrare nell’ambito applicativo dell’art. 56 c.p., posto che
tale ultima disposizione enuncia i requisiti della condotta
incriminata a titolo di tentativo (idoneità e non equivoci-
tà) senza tuttavia recarne una esplicita def‌inizione.
Com’è noto, con riferimento a tale littera legis sono
emerse interpretazioni variamente articolate, con riferi-
mento, in primo luogo, alla nozione e al criterio di verif‌ica
di “idoneità” della condotta.
In estrema sintesi, può qui ricordarsi come un autorevo-
le, ma complessivamente minoritario orientamento sosten-
ga doversi valutare la potenzialità degli atti di giungere a
consumazione secondo un giudizio controfattuale condotto
ex ante a base totale, al f‌ine di preservare l’osservanza del
principio di offensività (3); laddove l’indirizzo prevalente,
concordando sulla necessità di f‌issare il momento valuta-
tivo della cosiddetta prognosi postuma al momento della
condotta ritiene al contempo che l’idoneità degli atti debba
essere vagliata alla stregua di una base conoscitiva parzia-
le, sia pure necessariamente temperata da un apprezza-
mento in concreto delle circostanze del caso (4).
Alla luce di tale parametro, di corrente applicazione
giurisprudenziale, persino il conferimento del mandato
accettato con riserva mentale potrebbe, a rigore e di per
sé considerato, essere qualif‌icato come atto idoneo, costi-
tuendo l’apposizione della riserva un fattore ostativo non
conosciuto e non conoscibile dal mandante (5).
Al tempo stesso, del resto, tale ipotesi non sembra po-
ter essere attratta nell’ambito applicativo del reato im-
possibile per inidoneità dell’azione, ex art. 49 c.p., anche
laddove si voglia attribuire a tale istituto un signif‌icato
autonomo e più ampio del difetto di idoneità degli atti ri-
chiesta dall’art. 56 (6).
Ben più impegnativa, tuttavia, la verif‌ica della stessa
alla prova del requisito della univocità, al quale del resto
si ritiene soprattutto aff‌idata la funzione selettiva delle
condotte punibili a titolo di tentativo. A tal riguardo, deve
ricordarsi come la nozione di atti “diretti in modo non
equivoco a commettere un delitto” risulti al centro di un
mai sopito dibattito interpretativo.
Riassumendo in maniera schematica i due corni del
dilemma ermeneutico (rispetto ai quali non mancano, pe-
raltro, soluzioni compromissorie e ulteriori articolazioni
interne) può ricordarsi come, secondo una prima lettura
(cosiddetta teoria soggettiva), tale requisito sarebbe sod-
disfatto dalla preordinazione del proprio agire, da parte del
reo, al compimento del programma delinquenziale conce-
pito; secondo altra, più restrittivamente (tesi oggettiva), si
imporrebbe invece il raggiungimento di un f‌inalismo imma-
nente agli atti stessi, tali da essere obiettivamente tendenti
alla consumazione dello specif‌ico fatto delittuoso (7).
La portata di tale alternativa si rivela anzitutto ri-
spetto alla riconducibilità al tentativo non solo degli atti
esecutivi, ma altresì di quelli def‌initi come meramente
preparatori, senz’altro consentita dalla prima tesi e, per
contro, assai problematica per la seconda, per la diff‌icoltà
di attribuire una direzione univoca alla commissione di
un reato ad atti (per def‌inizione) antecedenti a un inizio
di esecuzione della condotta delittuosa, se non alla luce
della intenzione che li guida (8).
Tale vexata quaestio continua a dividere dottrina e giu-
risprudenza. Osservando il “diritto vivente” odierno, può
peraltro darsi atto di come, nonostante pronunce anche
recenti in senso opposto, la giurisprudenza della Suprema
Corte appaia tuttora orientata, in misura preponderante,
verso la possibilità di riconoscere gli estremi del tentativo
anche in assenza di qualsiasi “inizio di esecuzione” della
condotta tipica o della diretta causazione dell’evento (9).
Anche la pronuncia in commento si allinea almeno im-
plicitamente con il dominante indirizzo nomof‌ilattico, non
senza conseguenze ai f‌ini della decisione del caso di specie.
A ben vedere, infatti, sposare l’opposta tesi (esigendo la
sussistenza di specif‌ici atti esecutivi di condotta omicida)
avrebbe palesemente dovuto condurre il giudicante a un di-
verso itinerario motivazionale: con esito pur sempre in sen-
so assolutorio, ma de plano, data la superf‌luità di ulteriori
indagini sulla consistenza residua delle condotte contestate
e, prima ancora, sull’effettività dell’accordo raggiunto (10).
Una volta respinta l’assoluta preclusione rispetto agli
atti non esecutivi, peraltro, l’ipotesi descritta in imputa-
zione non sarebbe comunque risultata di agevole inqua-
dramento nel tentativo; se non altro alla luce di quelle
precisazioni ermeneutiche (autorevolmente patrocinate
e con ampio seguito nella giurisprudenza di legittimità)
volte a restringere il fuoco del tentativo agli atti def‌initi
come “pretipici” ovvero a quelli comunque prossimi alla
consumazione (11).
Invero, in tale ambito, la questione della (possibile)
rilevanza del mandato ineseguito deve necessariamente
essere valutata alla luce dei principi, informanti il codice
vigente, della atipicità del contributo concorsuale e del
pari trattamento dei concorrenti (12).
Va preliminarmente ricordato che la f‌igura del “man-
dato a delinquere”, in uno col generale superamento del
cosiddetto modello differenziato, non risulta prevista nel
nostro ordinamento; il concetto può quindi essere impie-
gato sul piano descrittivo e criminologico, ma, in assenza
di riferimenti positivi, non pare possibile riconnettervi al-
cuna autonomia dogmatica e disciplinatoria (13).
La responsabilità del mandante va, quindi, inquadrata
non diversamente dalle altre manifestazioni di concorso mo-
rale, alla stregua dei parametri generali propri della cosid-
detta causalità psichica (14). Rimane un punto fermo, nei
termini di una limpida massima di legittimità, che “Colui che
determina o istiga al reato risponde del reato di cui è con-
causa eff‌iciente, ma non per l’istigazione o il mandato” (15).
Quanto osservato porta a respingere come fuorviante,
de iure condito, ogni tentazione di focalizzare impropria-
mente una verif‌ica di prognosi postuma, ai f‌ini del tentati-
vo, sull’operato monosoggettivo del mandante: non sarebbe
pertanto corretto, quindi, sostenere integri gli estremi del
tentativo asserire l’assoldamento di un sicario micidiale
che per ragioni non conoscibili dal mandante (ma non al
sicario stesso) non realizzi poi l’incarico delittuoso (16).
Opinare diversamente, ad ogni modo, porterebbe a un
esito in contrasto (o quantomeno in elusione) con il det-
tato dell’art. 115.
Ciò, anzitutto nella misura in cui si ritenga – in accor-
do con autorevole dottrina – che tale norma costituisca
anzitutto e in via generale un limite esterno alla rilevanza
del tentativo (17).
Analogo esito si impone accedendo alla ricostruzione che
esalta il ruolo sistematico dell’art. 115 nella disciplina del
concorso di persone, desumendone un canone che preclu-
de, nel nostro ordinamento, la conf‌igurabilità (e a fortiori
la punibilità) del tentativo di partecipazione nel reato (18).
La responsabilità del mandante dovrà, invece, essere
vagliata secondo il parametro ortodosso della partecipa-
zione nel delitto tentato e, quindi, potrà porsi solo logica-
mente dopo che nell’opera del “mandatario” siano già au-
tonomamente ravvisabili gli estremi oggettivi e soggettivi
del tentativo del delitto commissionato (19).
La giurisprudenza, del resto, non smentisce queste con-
clusioni (ma ne fornisce, anzi, una sia pur indiretta con-
ferma) laddove qualif‌ica come commesso in Italia, ex art.
6, comma 2, c.p. un omicidio ivi realizzato solo col “con-
ferimento di un mandato ad uccidere, accettato dal man-
datario, direttamente o per interposta persona, in quanto
costituente il momento iniziale della condotta produttiva
dell’evento dannoso” (20), alla luce del consolidato orien-
tamento per cui reati la cui condotta sia avvenuta solo in
parte nel territorio dello Stato sono sottoposti alla legge
italiana “ancorché si tratti di frammento di condotta privo
dei requisiti di idoneità e inequivocità richiesti per il ten-
tativo” (Cass. pen., sez. IV, 15 novembre 2012, n. 44837).
2. Il mandato ineseguito come fattispecie di pericolosi-
tà (tra accordo sterile e istigazione non accolta)
Analizzati i limiti di diritto positivo che ne condizio-
nano l’assunzione come base di responsabilità penale, ap-
pare opportuno soffermarsi sul mandato omicidiario inat-
tuato come peculiare fattispecie di pericolosità e (quindi)
possibile presupposto del processo di sicurezza.
Una volta appurato che il mandato, in relazione al suo
oggetto, è rimasto al di qua del tentativo, lo stesso è co-
munque gravido di conseguenze. Residua, infatti, una si-
cura rilevanza del detto mandato, in quanto “quasi reato”,
ai f‌ini della possibile applicazione della libertà vigilata, in
forza del già citato art. 115 (21).
La corrente def‌inizione di “quasi reato” è indicativa
della peculiare rilevanza che le condotte ivi previste pur
sempre rivestono per il sistema penale, “a signif‌icare che
si è in presenza di un’azione che, pur non avendo carattere
di reato, si manifesta in modo talmente prossimo al reato
da permettere di riconoscere in essa un indizio sicuro di
pericolosità sociale” (22).
Va, tuttavia, ricordato che il procedimento di applica-
zione della misura di sicurezza si struttura in via generale
secondo una scansione bifasica, articolandosi anzitutto
nella verif‌ica della ricorrenza di un presupposto oggetti-
vo (reato, o appunto, quasi reato) e successivamente nel
vaglio – alla luce e in funzione del presupposto materiale-
della pericolosità del soggetto (23).

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