Delle relazioni pericolose intercorrenti tra il P.M. Ed il collaboratore di giustizia

AutoreMarcello Tuzzolino
Pagine129-136

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@1. Premessa.

Non vi è alcun dubbio che quando si parla di collaboratori di giustizia immediatamente il pensiero di tutti va a quelle forme di collaborazione connesse al reato di associazione di tipo mafioso, previsto dall'art. 416 bis c.p., nonché ai diversi reati abitualmente posti in essere da tale sodale; per questa ragione, unita al fatto che oggettivamente tale figura, nei termini e nelle perversioni di cui si dirà appresso, ricorre quasi esclusivamente con riguardo ai reati caratterizzati dalla suddetta matrice, nella presente trattazione faremo riferimento solo a tale tipo di collaborazione - restringendo, in particolare, sul piano soggettivo il campo della presente indagine a quelle persone che fuoriescono dalle fila dell'associazione mafiosa, fenomeno quest'ultimo che nel sentire comune è stato ormai da tempo ribattezzato con l'espressione "pentitismo" 1 - ed agli innumerevoli problemi ad essa connessi, causa di sempre maggiore disagio e preoccupazione all'interno di quella vasta comunità cui è negato l'uso di sirena e lampeggiante, moderna egida ovvero passe-partout per ogni dove.

Tornando all'oggetto della presente trattazione occorre dire che le relazioni pericolose cui si fa riferimento nel titolo traggono sostanzialmente origine da una reciprocità di necessità, riconducibile senz'altro ad entrambi i protagonisti della vicenda in esame: necessità di riguadagnare la libertà o quantomeno condizioni di vita accettabili per il primo, necessità di portare sul banco degli imputati pericolosissimi criminali per il secondo, ma di tutto ciò parleremo più diffusamente in seguito: tuttavia, deve dirsi subito, a scanso di equivoci, che se talvolta è possibile fare di necessità virtù, questo non è certamente valido nel nostro caso, per il quale pare più calzante altro detto secondo cui le strade che portano all'inferno sono lastricate di buone intenzioni.

Senza tante circonlocuzioni, diremo apertamente che le anomalie in parola consistono in una corrotta assunzione della prova orale in special modo quando proviene dal collaboratore di giustizia e tendono sostanzialmente a verificarsi nel corso degli interrogatori in genere, per poi essere normalmente bissate durante l'esame dibattimentale.

In linea di massima, va anche precisato che le perversioni in oggetto traggono abitualmente origine da domande involontariamente ovvero intenzionalmente suggestive, formulate dal P.M., ed accompagnate sovente nel secondo caso dall'uso distorto della custodia cautelare 2, vero sostrato propedeutico all'incisività delle domande suggestive.

@2. Contingenze varie ed antecedenti logici alla base della collaborazione.

Il collaboratore di giustizia può in linea teorica definirsi come quel soggetto che rende dichiarazioni attraverso le quali fornisce agli organi di giustizia informazioni relative ad un crimine da lui compiuto oppure del quale ha conoscenza pur non avendovi partecipato.

Sulla scorta di quanto si è potuto osservare con riferimento a migliaia di collaborazioni, verificatesi in oltre un decennio, può, sicuramente, già da ora, affermarsi una prima fondamentale regola: il collaboratore di giustizia è un soggetto che presta la sua opera in favore dello Stato solo ed esclusivamente per ragioni di convenienza frammista a necessità; tutti i criminali, che hanno deciso di intraprendere il cammino della collaborazione con lo Stato, lo hanno sempre fatto in momenti particolarmente disgraziati della propria carriera; alcuni avevano dovuto assistere, impotenti, allo sterminio dei propri familiari da parte dei vincitori della guerra di mafia; altri, invece, si erano spinti troppo in là all'interno dell'organizzazione criminale, scavalcandone imprudentemente le gerarchie, divenendo, per tale motivo, particolarmente invisi, quanto basta per vedersi appioppare una immediata condanna a morte; altri, ancora, provati dal duro regime introdotto dall'art. 41 bis L. 26 luglio 1975, n. 354 (Ordinamento Penitenziario), ovvero, arrestati, ne temevano l'inevitabile applicazione.

In definitiva, il minimo comune multiplo di tante commoventi storie di collaboratori di giustizia è rappresentato dall'essersi tali soggetti trovati in grosse difficoltà, di varia natura, all'interno dell'organizzazione mafiosa, a causa delle quali temevano addirittura per la propria vita, ovvero in stato di detenzione, con esigue speranze di poter riacquistare a breve la libertà; va evidenziato, infatti, come l'apprendista collaboratore di giustizia diventi tale, salvo rarissime eccezioni, quando è in vinculis; a tal proposito, si può affermare senza tema di smentita come non vi sia stato, né mai vi sarà, un mafioso che libero, saldamente in sella ai suoi traffici e ben inserito all'interno dell'organizzazione mafiosa abbia deciso di collaborare con lo Stato.

In tutto ciò, sia chiaro, non riteniamo vi sia nulla di abominevole in sé e per sé, sappiamo bene come l'argomento collaboratori di giustizia debba essere affrontato con un minimo di laicità, si tratta di un "patteggiamento" cui lo Stato soggiace in vista di risultati complessivamente più importanti; del resto, ormai nessuno crede più che il "pentito" sia realmente tale; peraltro, non è neppure uno dei requisiti richiesti dalla legge sui collaboratori di giustizia ai fini della concessione dei benefici nella stessa previsti; soltanto l'organo inquisitorio, nel corso dell'attività di interrogatorio, invariabilmente, continua a chiedere al diretto interessato per quali nobili motivi si sia determinato a collaborare; il ventaglio delle risposte è ormai divenuto, visto che altrettanto invariabilmente il P.M. glielo richiede poi nel corso del successivo esame dibattimentale, un vero e proprio "tormentone" processuale: la stanchezza per una vita fatta di illegalità; il desiderio di allontanare i propri figli da una vita che avrebbe potuto offrire loro solamente prospettive criminali; il proposito di contribuire, con la propria collaborazione, alla realizzazione di un mondo migliore; sono queste le risposte che ricorrono costantemente; nulla da ridire, sicuramente, sulla nobiltà di tali causali, se non evidenziare come, ovviamente, stanchezza, desideri e propositi insorgano solamente quando i soggetti in parola siano stati assicurati alla giustizia, con ottime prospettive di clausura per i restanti anni di vita.

E di tutto ciò se ne dovrà pur tenere conto; perché sia chiaro che se da un lato non ha alcuna rilevanza che un soggetto si determini a collaborare con lo Stato esclusivamente sulla base di un calcolo, perché così vuole la legge, laPage 130 medesima cosa non può dirsi in relazione al fatto che lo stesso - dimostrando, peraltro, di ben conoscere l'importanza di fornire di sé una immagine positiva 3 - senta l'esigenza di mentire all'autorità giudiziaria, già, a partire dalla indicazione delle cause determinative della sua collaborazione, pur di non dire pubblicamente che la sua scelta è il frutto di un legittimo calcolo, sebbene da ciò non possa derivargliene alcuno svantaggio ai fini della concessione dei benefici premiali.

Anche se al riguardo, posto che si tratta di convenienze processuali nascenti da brulli indirizzi giurisprudenziali, presumibilmente sconosciuti ai collaboratori di giustizia, sembrerebbe assai più verosimile ipotizzare una regìa occulta, o meglio una iniziale orchestrazione, poi perpetuatasi negli anni, quale vera e propria clausola di stile.

Vi sarebbe poi da portare all'attenzione di chi legge, per i rilessi che innegabilmente può avere sulla tematica in oggetto, come, da un po' di anni a questa parte, il momento a partire dal quale hanno inizio le collaborazioni sia andato via via anticipandosi. In passato, la collaborazione era il frutto di una lunga ed estenuante attività da parte degli organi inquirenti, subordinata, peraltro, alla necessità di guadagnare prima la fiducia del collaboratore, che sovente era disposto a rilasciare proprie dichiarazioni soltanto a quei pochi integerrimi funzionari dello Stato, sul cui capo gravava da tempo una condanna a morte da parte dell'associazione mafiosa, garanzia quest'ultima della loro affidabilità. Oggi, nell'epoca della velocità, il collaboratore si pente nei minuti immediatamente successivi al suo arresto, sovente in auto, al più tardi, in caserma 4.

Del resto, qualunque sia l'effettiva causale di tale fenomeno, è impensabile che colui il quale si dichiari disponibile a collaborare, già a partire dai momenti immediatamente successivi al proprio arresto, possa avere preso tale decisione nelle concitate fasi in cui lo stesso ha avuto luogo; è sicuramente più verosimile ipotizzare che il soggetto de quo si fosse precedentemente prospettata l'eventualità del proprio arresto ed avesse deciso, allora per il futuro, il da farsi e il da dirsi 5.

@3. Finalità inespresse e scopi dichiarati della collaborazione.

Esauriti questi brevi cenni, riguardanti le condizioni di base della collaborazione con lo Stato, nonché le modalità temporali della stessa e quant'altro, occorre fare un passo avanti e cercare di individuare qual è il fine ultimo che il collaboratore si propone di raggiungere con la sua collaborazione; sicuramente, è possibile affermare che tutti i collaboratori di giustizia, in vista dei numerosi processi da affrontare, sperano con la loro condotta delatoria di godere dei benefici previsti dalla legge in ordine alla determinazione della sanzione, in una parola, ottenere sconti di pena sulle condanne a venire; ma, non soltanto quello, anzi, a tal proposito, va detto a "lettere di scatola" come la vera "cuccagna" per il collaboratore sia rappresentata dai benefici di legge inerenti alla espiazione della condanna, in una battuta: è chiaro che essere condannati a soli dieci anni di reclusione per un omicidio è bello, epperò essere reclusi per dieci anni in una struttura penitenziaria bello non è.

In sintesi non vi è dubbio che l'intera normativa premiale in tema di determinazione della pena verrebbe a perdere buona parte...

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