Le pene, principali ed accessorie

AutoreMaria Grazia Maglio/Fernando Giannelli
Pagine281-296

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@1. Il nomen juris della pena quale criterio discretivo per le classi dei reati (delitti o contravvenzioni).

Si è, sempre, molto discusso per individuare un affidabile criterio dommatico, atto a differenziare la classe dei reati costituita dai delitti rispetto a quella costituita dalle contravvenzioni.

Il nostro codice non contempla la categoria dei crimini, di cui parlano, ancora, ad esempio, il codice penale svizzero, quello francese e quello belga (MARINUCCI, DOLCINI), né quella dei misfatti, di cui parlava il codice penale per il Regno delle Due Sicilie del 1819.

Già l'art. 1 del codice Zanardelli, al comma secondo, distingueva i reati in delitti e contravvenzioni.

Il codice di diritto canonico (cann. 1311 ss.) conosce solo i delitti; il codice austriaco (par. 17) opera la distinzione dei reati in Verbrechen (delitti o crimini) e Vergehen (trasgressioni) (analogamente, par. 12 Deutsches Strafgesetzbuchs) (MARINUCCI, DOLCINI).

Si tende ad un sistema monistico, prevedente la sola categoria del crime, nel codice portoghese (MARINUCCI, DOLCINI).

Sotto il vigore del codice cessato, l'ALIMENA (B.) negava la autonomia scientifica della classe dei crimini, ma pur si deve notare che, nell'ambito delle pene prevedute da quel codice, si distingueva tra dleitti per cui andava comminata la pena della reclusione (art. 13) e quelli per cui andava comminata la pena della detenzione (art. 15). E, nella relazione Villa, si disse che la pena della detenzione era adeguata «ai reati di sangue scusati, ai reati politici, ai reati colposi e ad altri reati meno gravi» (rispetto ai delitti «comuni»).

V'era, quindi, una autonomia «pratica» di una classe di delitti più gravi, assimilabile, in definitiva, agli antichi «crimini».

Ora, a prescindere dalle trascorse nomenclature (storicamente, le odierne contravvenzioni si trovano sovente designate con la locuzione di «trasgressioni di polizia»), è da notare che già nel diritto romano si conoscevano dei fatti meno gravi, non assurgenti alle caratteristiche del crimen (il delictum era illecito d'indole privatistica), e, pertanto, affidati alla polizia, che provvedeva alla coercitio ed alla castigatio (ALIMENA B.).

In un apposito libro, nel diritto intermedio, gli Statuti (Gatti) permisero di raccogliere le «trasgressioni di polizia».

Nell'ambito dei reati, il BECCARIA distinse tra fatti che distruggono la sicurezza della società o offendono la sicurezza del privato (delitti), e fatti che sono soltanto azioni contrarie a ciò che ciascuno è, dalla legge, obbligato di fare o di non fare in vista del pubblico bene (contravvenzioni); il CARMIGNANI affermava che, nei delitti, v'è distruzione di un diritto inerente alla natura dell'uomo o alla natura della società; il FEUERBACH affermò esser delitto la violazione di un diritto esistente anche prima del formale riconoscimento della legge, mentre si commette contravvenzione qualora si compia un'azione che sarebbe lecita se lo Stato espressamente non la vietasse; ancora, secondo il BINDING, la contravvenzione consisteva nella messa in pericolo di un bene tutelato, e non nella distruzione del diritto.

Facendo grazia al lettore di altre (benvero, pur autorevoli ed interessanti) tesorie, si vuole solo ricordare che il FERRI assegnò alle contravvenzioni l'appellativo, poco galante, di «delitti nani».

Per la verità, molte delle suindicate tesi risentono di un tal quale giusnaturalismo, ed, in particolare, della distinzione tra jus publicum e jus gentium (ULPIANO, GIUSTINIANO), intendendosi per quest'ultimo quello connaturato alla specie umana, e, quindi, in pratica, esistente sin dalla notte dei tempi, anche presso le civiltà meno progredite; o, se si vuole, si può dire che le tematiche «riprese» nella disputa vorrebbero ricondurre i delitti al novero dei mala in se, e le contravvenzioni a quello dei mala quia prohibita, o mala quia vetita (SENECA).

Ma l'ottica del diritto positivo, e, più precisamente, del sistema penale, permette di affermare che tali categorizzazioni cedono, tutte, di fronte alla considerazione del principio di legalità e di quello, sua fonte, della certezza del diritto.

Più in particolare, poi, non si può negare che esistano dei reati di pericolo (es.: incendio, strage) catalogati fra i delitti.

Né, ancora, potrebbe accedersi ad un criterio quantitativo, quale proposto dal FERRI: non può sfuggire, infatti, che, mentre per alcune contravvenzioni, sono previste le pene congiunte dell'arresto e dell'ammenda, anche in misura abbastanza elevata, per alcuni delitti sono prevedute delle blande multe.

Ora, è vero che, ai fini, ad esempio, della determinazione della violazione più grave nell'ambito della continuazione tra reati, il delitto punito con la pena della multa è, per legge, più grave della contravvenzione punita con la pena, congiunta, dell'arresto e dell'ammenda, e che il termine di prescrizione per il primo reato è più lungo che per il secondo, ma non si può negare la maggior efficacia deterrente della pena comminata per il secondo reato, quale controspinta immediata (ROMAGNOSI), motivo crimino-repellente (FERRACUTI, WOLFGANG, DI TULLIO).

Qualcosa di strutturale, nella distinzione, è bene dirlo subito, c'è: in materia di contravvenzioni non attecchisce l'istituto scriminante di cui all'art. 50 c.p. (consenso dell'avente diritto) (RIZ), trattandosi, sempre, di diritti indisponibili.

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All'art. 12 L. 15 febbraio 1996, n. 66, che introduce l'art. 734 bis c.p., si parla di «consenso in negativo».

Ma non si tratta della scriminante di cui all'art. 50 c.p., che non può essere menzionata nel corpo della norma (VILLATA, MANNA).

E ciò porta anche ad un'altra conseguenza, espressamente recepita dal diritto positivo: le contravvenzioni sono reati, sempre, perseguibili d'ufficio, secondo quanto stabilisce l'art. 11 delle disposizioni di coordinamento e transitorie per il codice penale (R.D. 28 maggio 1931, n. 601) (MANZINI).

Ma basta appena osservare che esistono certamente delitti non suscettibili di applicazione dell'art. 50 c.p., e che, del pari, certamente esistono delitti perseguibili d'ufficio (ché, anzi, la regola della procedibilità in materia penale è l'officialità, secondo quanto dispone l'art. 50 c.p.p., e già disponeva l'art. 1 del codice di rito penale previgente), per concludere che la differenziazione tra delitti e contravvenzioni non potrà giammai riposare su pretese differenze strutturali, sibbene, solo, sugli enunciati di diritto positivo. E questa è, oggi, la tesi dominante (per tutti vedasi ANTOLISEI).

L'art. 39 c.p., che ha recepito siffatte conclusioni, recita: «I reati si distinguono in delitti e contravvenzioni, secondo la diversa specie delle pene per essi rispettivamente stabilite da questo codice» (ma vedasi, comunque, l'art. 16 c.p., quanto ad eventuali deroghe contenute in leggi particolari (MARINUCCI, DOLCINI).

L'art. 5 R.D. 28 maggio 1931, n. 601, stabilisce, fra l'altro: «I reati si considerano delitti o contravvenzioni secondo la diversa specie delle pene per essi rispettivamente stabilite, sempre che la pena sia fra quelle indicate nell'articolo 17 del codice penale».

La distinzione tra delitti e contravvenzioni si applica anche nell'ambito delle disposizioni penalmente sanzionate del codice della navigazione, e in materia di reati finanziari, come nell'ambito delle disposizioni penali dettate in materia di fallimento e liquidazione coatta amministrativa dal R.D. 16 marzo 1942, n. 267; si applicava anche nell'ambito dei reati societari preveduti dagli artt. 2621, 2642 del codice civile, ma, ormai, tutte le contravvenzioni ivi prevedute sono state decriminalizzate (art. 114 L. 689/81; D.L.vo 29 dicembre 1992, n. 516, attuativo della direttiva 666/89 della C.E.E.).

La distinzione in esame è sconosciuta alla codificazione penale militare, di pace e di guerra, non, però, alla legislazione militare in genere (es.: art. 150 D.P.R. 14 febbraio 1964, n. 237 e succ. mod.). L'art. 22 c.p.m.p. si limita ad elencare le pene per i delitti militari, ma non esclude dal diritto penale militare la categoria contravvenzionale (VENDITTI) (vedasi, anche, a contrario, l'art. 37, terzo comma, c.p.m.p. - VEUTRO -).

È appena il caso di dire che non può giovare alla distinzione tra delitti e contravvenzioni, sulla base di un criterio quantitativo che si volesse assumere come vincolante, la presunzione juris et de jure di maggior gravità dei delitti rispetto alle contravvenzioni, adottata dal legislatore all'art. 16, terzo comma, c.p.p., in tema di competenza per territorio determinata dalla connessione, ché, anzi, proprio la necessità di tale presunzione è testimone dell'impossibilità di rinvenire un criterio di discrimine decisivo tra le due classi di reati, che si basi su fattori quantitativi.

Né può, ancora, giovare l'osservazione della disciplina dettata in materia di prescrizione (artt. 157 ss. c.p.), ove è sempre previsto un termine più breve per le contravvenzioni. Si tratta solo di una presa d'atto legislativa di una tendenziale - ma solo tendenziale - maggior gravità dei delitti.

@2. La pena della morte.

L'art. 2, primo comma, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali non vieta in modo assoluto la pena della morte.

L'art. 27, quarto comma, della Costituzione dichiara applicabile la pena della morte solo nei casi previsti dalle leggi militari di guerra.

Sebbene certamente non manchino moti dottrinari in tal senso, non si è proceduto a declaratoria di illegittimità costituzionale delle disposizioni degli artt. 3 R.D. 8 luglio 1938, n. 1415, 5 c.p.m.g. e 217 R.D. 18 giugno 1931, n. 773, mediante le quali si applica la legge penale militare di guerra anche in assenza dello stato di guerra.

Il codice Zanardelli non prevedeva la pena della morte; sì, invece, i codici penali militari previgenti.

La legge 25 novembre 126, n. 2008, sia pure limitatamente ad alcune gravissime ipotesi criminose, reintrodusse nel nostro ordinamento la pena della morte...

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