Peculato ed erogazione di somme pubbliche al nero nel contesto di un contratto con privato simulato nel prezzo

AutoreMario De Bellis
Pagine786-790

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@1. I termini della questione

- Con la sentenza che si annota (Cass., sez. VI, 17 aprile 2007, Scotti), la Cassazione esamina il caso di una amministrazione pubblica (il SISDE) che acquista un immobile da un privato ed eroga in nero al venditore una somma eccedente il prezzo dichiarato in contratto.

Si tratta di una fattispecie tipica del diritto privato, corrispondente alla prassi dei contraenti di dichiarare come prezzo di vendita un prezzo inferiore a quello effettivo, allo scopo di pagare meno imposte.

Sarebbe difficile traslare la situazione alla pubblica amministrazione, se non si avesse a che fare con un organo del tutto particolare, quale è il SISDE, che ha a disposizione fondi riservati, i quali non sono oggetto di rendicontazione e fatturazione.

Il Pubblico Ministero aveva originariamente qualificato la condotta in esame come peculato1. Il Giudice dell'Udienza Preliminare aveva invece ritenuto che si fosse in presenza di una condotta di mera distrazione del denaro pubblico, non più punibile a seguito della nuova formulazione dell'art. 314 c.p. conseguente alla riforma del 1990 e che pertanto il fatto fosse diversamente qualificabile come abuso d'ufficio2, reato peraltro prescritto.

La suprema Corte ritiene invece che la condotta sia qualificabile come appropriazione, e dunque punibile ex art. 314 c.p., anche nel testo attuale.

Meritano approfondimento:

- la questione esplicitamente oggetto della pronuncia in esame, ovvero la configurabilità del peculato in relazione a condotte di appropriazione o di distrazione;

- la configurabilità del peculato a profitto di terzi;

- la configurabilità del peculato in relazione al compimento di atti giuridici;

- la configurabilità del peculato nell'ambito dell'attività negoziale della pubblica amministrazione.

@2. Peculato per appropriazione o distrazione

- Di peculato per distrazione si parlava sotto la vigenza del testo dell'art. 314 c.p. introdotto nel 1930 (e dunque anteriormente alla riforma del 1990), in quanto la condotta tipica descritta da tale norma era quella dell'appropriarsi di denaro o cosa mobile appartenenti alla pubblica amministrazione o del distrarre tali beni a profitto proprio o altrui.

La giurisprudenza aveva dato all'epoca un'interpretazione molto rigorosa del dettato normativo ed aveva conseguentemente ritenuto la sussistenza del reato in ogni caso in cui si fosse dato al denaro o alla cosa mobile appartenente all'amministrazione una destinazione diversa da quella stabilita, anche se si fosse trattato comunque di uno scopo pubblico.

Si era così ritenuto che sussistesse il peculato in ogni caso di destinazione della cosa al di fuori dei fini istituzionali dell'ente3, e dunque, che commettesse peculato il pubblico ufficiale che impiegava somme per cui era prevista una destinazione specifica di bilancio (realizzazione di una data opera pubblica) alla realizzazione di altre opere pubbliche, pur sempre di interesse dello stesso ente4. Si era altresì ravvisato il reato nell'impiego di somme di spettanza di ente statale a vantaggio di una regione5.

Peraltro, già anteriormente alla riforma legislativa del 1990, un più recente filone giurisprudenziale aveva iniziato ad escludere il peculato per distrazione nel caso in cui le somme sottratte dalla loro specifica destinazione fossero comunque destinate a scopi pubblici6

In dottrina, alcuni autori7 escludevano la sussistenza del peculato nel caso in cui le risorse della pubblica amministrazione fossero distratte dalla loro destinazione, ma comunque utilizzate per finalitàPage 787 pubbliche. L'opinione prevalente678 riteneva all'opposto che il reato di peculato fosse configurabile in ogni caso di distrazione del denaro pubblico, anche quando lo stesso, una volta sottratto alla sua destinazione istituzionale, venisse comunque utilizzato per altra finalità parimenti pubblicistica.

La riforma legislativa del 1990 intendeva porre chiarezza su tale situazione, come risulta anche dalla relazione del relativo disegno di legge9, limitando il peculato ai soli casi di appropriazione e riconducendo le ipotesi distrattive all'abuso d'ufficio, sempre che sussistessero tutti gli elementi costitutivi di questa fattispecie.

In dottrina tuttavia, anche dopo della riforma del 1990, sono state espresse ancora difformi opinioni sul significato dei termini "appropriazione" e "distrazione" e sulla riconducibilità delle relative condotte alle fattispecie di cui agli artt. 314 o 323 c.p.

Secondo autorevole e prevalente dottrina10, è conforme allo spirito della riforma ricondurre ogni ipotesi di distrazione, tanto a profitto proprio, quanto a profitto altrui, alla fattispecie dell'abuso d'ufficio, limitando l'ambito operativo del peculato a condotte di mera appropriazione.

Secondo altro autore11, la distrazione si deve intendere come species del genus appropriazione (ricomprendendo fatti di appropriazione che non siano qualificabili come ritenzione, alienazione o consumazione) e come tale è riconducibile alla sfera di applicazione dell'art. 314 c.p.

Secondo un ulteriore orientamento12, costituisce distrazione, riconducibile all'abuso di ufficio, la condotta del soggetto pubblico che destini il denaro o la cosa pubblica in suo possesso verso finalità diverse da quelle istituzionali, ma sempre ponendosi «dalla parte della p.a.», agendo cioè come suo organo: costituisce invece una distrazione-appropriazione, inquadrabile nell'art. 314 c.p., una destinazione del denaro o cosa pubblica che tale rapporto con la pubblica amministrazione radicalmente abbandoni.

La giurisprudenza di legittimità successivamente al 1990 si è invece pacificamente assestata nel senso che le ipotesi di distrazione non sono più riconducibili al reato di peculato, ma semmai al reato di abuso d'ufficio13.

È quest'ultimo, a parere dello scrivente, l'orientamento da condividere: la ratio della riformulazione nel 1990 del testo degli artt. 314 e 323 c.p. deve orientare proprio in questo senso.

Quanto al caso in esame, può ritenersi corretta l'affermazione contenuta nella sentenza in esame, secondo la quale l'erogazione di somme pubbliche in modo occulto e a puro vantaggio di un privato non può qualificarsi come mera distrazione: manca infatti il perseguimento di qualsivoglia finalità pubblica ed il pubblico amministratore che eroga la somma ne dispone uti dominus.

@3. Il peculato commesso a profitto di terzi

- Il testo dell'art. 314 c.p., antecedente alla riforma del 1990, prevedeva che il peculato potesse essere commesso sia a profitto proprio sia a profitto altrui. Tale dizione scompare invece nel testo introdotto nel 1990.

Autorevole dottrina14 ne ha dedotto che le condotte appropriative,realizzate a profitto altrui, non siano più idonee ad integrare la fattispecie del peculato. Si è...

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