Brevi considerazioni sul rapporto tra I parametri indiziari indicati dell’art. 73, Comma 1 bis lett. A) del T.U. sugli stupefacenti e i principi dell’accertamento giudiziale penale

AutoreLorenzo Cordì
Pagine291-297

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@1. La fattispecie legale contenuta nell’art. 73 comma 1 bis lett. a) del T.U. sugli stupefacenti e la normativizzazione dei criteri indiziari

– Le modifiche apportate dal D.L. 272/2005 (convertito in legge 49/2006) al T.U. sugli stupefacenti rivestono peculiare interesse anche se osservate dalla prospettiva del diritto processuale. Uno degli aspetti di maggior rilievo sembra risiedere nel nuovo comma 1 bis lett. a) dell’art. 73 introdotto dall’art. 4 bis, comma 1, lett. b) della legge di riforma. Come noto, tale disposizione punisce con le pene di cui al comma 1 chiunque, senza l’autorizzazione prevista dall’art. 17 del T.U., importa, esporta, acquista, riceve a qualsiasi titolo o comunque illecitamente detiene sostanze stupefacenti o psicotrope che appaiano destinate ad uso non esclusivamente personale. L’operazione normativa sottrae così dal dettato originario del comma 1 dell’art. 73 le condotte non considerate ex se come qualificate oggettivamente dalla destinazione a terzi. In tali ipotesi spetta al giudice verificare se le condotte poste in essere siano, in ragione delle modalità oggettive e soggettive delle stesse, destinate ad uso non esclusivamente personale.

Al fine di agevolare un simile giudizio il legislatore ha cura di precisare taluni parametri indiziari dai quali l’organo giudiziario potrà ricavare la destinazione della sostanza ad uso non personale. Le condotte potrebbero apparire destinate a terzi in ragione della quantità; in particolare se superiore ai limiti massimi indicati con decreto interministeriale ovvero per le modalità di presentazione, avuto riguardo al peso lordo complessivo o al confezionamento frazionato, ovvero per altre circostanze dell’azione. Si tratta di parametri già evidenziati dalla giurisprudenza formatasi in seguito al referendum abrogativo del 1993. La quantità della sostanza stupefacente è parsa, già in passato, alla Suprema Corte indice decisivo da cui poter desumere la non destinazione ad uso personale1. Elemento spesso rapportato a condizioni personali del soggetto agente, come lo stato di tossicodipendenza o la situazione reddituale2. Possibili sintomi della finalità illecita paiono inoltre la detenzione di diverse specie di sostanze3, le modalità di presentazione delle stesse4 (elemento ora contemplato anch’esso dal dettato dell’art. 73, comma 1 bis lett. a) del T.U. sugli stupefacenti), la disponibilità di strumenti di pesatura e confezionamento5, l’occultamento delle sostanze se unito alla presenza del detentore in luoghi normalmente frequentati da soggetti tossicodipendenti6.

L’esposizione seppur cursoria dei criteri elaborati dalla giurisprudenza conferma come i parametri ora indicati dall’art. 73 comma 1 bis lett. a) del T.U. sugli stupefacenti siano sostanzialmente mutuati dall’esperienza giurisprudenziale. Il legislatore compie quindi una mera operazione di normativizzazione dei criteri «con un processo di Verrechtlichung funzionale ad una maggior certezza del diritto»7. Questa riguarda, tuttavia, sono taluni dei parametri indiziari evidenziati nella prassi. Non sembra però che in relazione ai rimanenti possa ricavarsi, dal disposto legale, un’implicita deminutio della loro valenza probatoria. Tale assunto sembra smentito dalla funzione che, come si vedrà in seguito, simili criteri svolgono all’interno dell’accertamento giudiziale penale. Non pare corretto, pertanto, né postularne un numerus clausus, né assegnare un valore probatorio diverso da quello sin qui dalla giurisprudenza attribuito.

Né si rivela esatta la distinzione tra la natura del criterio quantitativo rispetto agli altri parametri indiziari indicati dalla disposizione in esame. Secondo una parte della dottrina il criterio quantitativo costituirebbe una condizione obiettiva di punibilità intrinseca «(come tale imputabile quanto meno a titolo di colpa) che attribuisce quindi rilevanza penale anziché amministrativa alle ipotesi di detenzione il cui fine non esclusivamente personale sia dimostrato dal superamento della soglia quantitativa massima di principio attivo, previsto dal decreto interministeriale»8. Simile ricostruzione solleva questioni di legittimità costituzionale della normativa che non sfuggono al suo proponente. Al di là della possibile lesione del principio della riserva assoluta di legge conseguente alla rimessione ad un atto governativo della determinazione di un elemento costitutivo della fattispecie, si evidenzia come in tal modo il legislatore «accentu[i] l’approccio proibizionista nella disciplina del consumo degli stupefacenti, restaurando il regime sanzionatorio a strategia differenziata, precedente al referendum del 1993 [...]». Inoltre, secondo tale dottrina «l’aver il legislatore del 2006 introdotto un criterio quantitativo massimo fondato sul rigido parametro assoluto del principio attivo contenutoPage 292 nella sostanza in termini di dose media singola (relativa cioè alla singola assunzione), in assenza di criteri temporali (come la dose media giornaliera), o il tetto massimo riferibile al quantitativo massimo settimanale di occorrenza per ciascuna forma di tossicodipendenza e/o di correttivi idonei a tenere conto del grado di,dipendenza e tolleranza alla sostanza del soggetto è suscettibile di determinare un’irragionevole parificazione di condotte caratterizzate da differente disvalore ed un’eccessiva estensione della sfera delle condotte penalmente rilevanti, a fronte della progressiva riduzione delle ipotesi di detenzione (in quanto a fini personali) sanzionate solo a livello amministrativo»9.

Invero, anche in ragione delle conseguenze in termini di legittimità costituzionale evocate, si ritiene preferibile la tesi per la quale la soglia quantitativa integra un mero criterio di carattere probatorio10. Depone verso questa soluzione, del resto, la stessa espressione «in particolare» con la quale il legislatore pare voler segnalare la peculiare valenza che simile elemento potrebbe avere al fine di provare la destinazione a terzi della sostanza stupefacente. Si tratta quindi di un «elemento indiziario positivamente “spendibile” dall’accusa per ritenere dimostrata la destinazione ad uso non esclusivamente personale»11. Da tale ricostruzione derivano due corollari di sicura rilevanza. In primis, possono integrare la fattispecie incriminatrice anche condotte relative a quantitativi di sostanze stupefacenti inferiori alla soglia se la destinazione ad uso non personale si ritiene evinta anche da ulteriori criteri, normativizzati o non. Viceversa, il superamento della soglia non è, come si dirà più ampiamente di seguito, elemento sufficiente a ritenere provata la destinazione a terzi, laddove in tal senso non possano deporre anche ulteriori elementi da apprezzare nella vicenda concreta. La soglia quantitativa ha in quanto (ed al pari di ogni) criterio probatorio un valore squisitamente relativo, non valutabile aprioristicamente ma solo in ragione del ruolo da questo rivestito nell’ambito di uno specifica vicenda processuale.

@2. Parametri indiziari e presunzione di non colpevolezza

– L’asserita natura processuale dei parametri indiziari contenuti nell’art. 73, comma 1 bis lett. a) del T.U. sugli stupefacenti impone di incentrare l’indagine sul rapporto tra simili criteri ed i principi del procedimento probatorio penale. Come noto, l’inserzione da parte del legislatore di regole in tema di valutazione della prova è operazione che spesso solleva perplessità di varia natura. Secondo un’autorevole dottrina la materia costituirebbe persino un giardino proibito per il legislatore12, il quale meglio farebbe ad astenersi dal dettare regole. Si tratta di un giudizio di opportunità che sembra trovar conferma dalla lettura della copiosa giurisprudenza formatasi in tema di riscontri alle dichiarazioni rese da coimputati in procedimenti connessi o da altri soggetti per cui trova applicazione la regola di cui all’art. 192, comma 3 c.p.p.13. In tali ipotesi, il sinuoso argomentare del giudice di legittimità finisce spesso e paradossalmente per fungere da viatico alla metamorfosi dei riscontri in res merae potestatis del giudice, entità diafane dissimulate in proposizioni talora tautologiche. Le esegesi giurisprudenziali rendono così la regola variamente adoperabile dall’estensore della sentenza, che nelle formule stipate nei massimari trova tasselli apparentemente razionali per edificare un’«autoapologia a tesi obbligata»14. Si approda così ad un effetto opposto a quello che il legislatore avrebbe inteso conseguire, imponendo «vagli particolarmente cauti, estesi ad ogni circostanza, perché questi narranti non vanno creduti sulla parola»15. Se inteso, come sembra corretto, come un vincolo metodologico, il criterio probatorio diverrebbe un costrutto legale se non dannoso comunque inutile, risolvendosi in un richiamo a mera vocazione pedagogica16.

Ben maggiore è comunque il rischio a cui si espone il sistema laddove simili regole siano intese come edificanti un vincolo valutativo per l’organo giudicante. Le regole di valutazione lasciano così intravedere «pseudo calcoli del genere praticato temporibus illis»17. L’alea è quello di una virata, seppur talora sapientemente dissimulata, verso logiche presuntive incompatibili con i principi del procedimento probatorio. Il discorso si sposta così da un piano di opportunità dell’intervento legislativo in materia ad una ben più rilevante valutazione di legittimità. Si tratta di un aspetto che richiede un vaglio particolarmente attento ed esente da considerazioni apodittiche. Come noto, difatti, le regole di valutazione probatoria non possono dirsi ex se contrarie al dettato costituzionale che, del resto, non dà immediata rilevanza al principio del libero convincimento del giudice18. Né sembra potersi ipotizzare un contrasto tra simili regole e la regola di cui all’art. 101, comma 2 Cost., che secondo l’interpretazione offerta dall’organo di legittimità costituzionale va intesa come norma legittimante l’assoggettamento...

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