Osservazioni sulle conseguenze in sede giudiziaria della legge 30 giugno 2009 n. 85

AutoreClaudio Tranquillo
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1. Acquisizione del materiale biologico ed estrazione del profilo del DNA

Al fine di valutare la portata della legge 30 giugno 2009, n. 85 nel prisma dell’attività giudiziaria, occorre verificare come il novum legislativo si rapporti con l’elaborazione dottrinale e giurisprudenziale fin qui maturata in tema di c.d. prova del DNA.1 A tale scopo, anziché procedere secondo l’ordine dell’articolato, si ritiene opportuno adottare un metodo espositivo che tenga conto dell’effettiva dimensione applicativa che nel corso di un procedimento penale può assumere la suddetta prova.

Nell’ottica indicata, la prima circostanza in cui viene in rilievo un problema inerente al tema in esame si pone con riguardo all’individuazione e alla raccolta di reperti biologici utili a estrapolare tracce di DNA, rinvenuti per es. sulla scena del delitto ovvero su cose comunque pertinenti al reato (secondo la definizione di reperto biologico di cui all’art. 6 lett. c) della legge in esame: «materiale biologico acquisito sulla scena di un delitto o comunque su cose pertinenti al reato»). Occorre pertanto esaminare anzitutto come si possa legittimamente acquisire al procedimento quella peculiare fonte materiale di prova data da un reperto biologico.

Sotto tale profilo, l’orientamento giurisprudenziale prevalente sul punto è nel senso che il materiale biologico già distaccatosi dal corpo umano (per es. capelli rinvenibili su una spazzola, sangue su indumenti, capelli nel passamontagna) ovvero rinvenibile su cose od oggetti volontariamente dimessi (per es. su mozziconi di sigarette) sia liberamente sequestrabile, posto che non si tratta di un atto qualificabile come invasivo o costrittivo ai sensi dell’art. 13 Cost. e dunque tale da richiedere specifiche garanzie difensive 2; si osserva ulteriormente che nella nozione di cose pertinenti al reato rientrano non solo quelle aventi intrinseca e specifica strumentalità rispetto al reato per il quale si procede, ma anche quelle necessarie all’accertamento dei fatti.3 Così si può sequestrare e utilizzare per una comparazione il sangue derivante da un prelievo ematico posto in essere nell’ambito di un protocollo medico, come per es. nel caso di attività di pronto soccorso dopo un incidente stradale.4

Sul punto la nuova legge sembra avallare l’orientamento in questione. Come già evidenziato, l’art. 6 lett. d) definisce il reperto biologico come il «materiale biologico acquisito sulla scena di un delitto o comunque su cose pertinenti al reato»; ora, al di là del richiamo espresso al concetto di cose pertinenti al reato, il punto che occorre mettere in rilievo consiste nel fatto che il legislatore distingue il concetto di reperto biologico da quello di campione biologico di cui all’art. 6 lett. c) («quantità di sostanza biologica prelevata sulla persona sottoposta a tipizzazione del profilo del DNA»): ciò anche al fine di prevedere apposite e tassative modalità di prelievo dei campioni biologici (descritte dall’art. 224 bis c.p.p.), stante il loro carattere invasivo. Ma allora, nel silenzio della legge in ordine alle modalità di acquisizione dei reperti biologici, non vi è motivo perché non operino gli ordinari strumenti procedurali di acquisizione di fonti materiali di prova, quale un sequestro probatorio di cosa pertinente al reato ex art. 253 c.p.p..

La nuova legge neppure innova in ordine al diverso problema relativo alla natura dell’attività di prelievo del materiale biologico dall’oggetto sul quale risulti accidentalmente riposto. Sul punto, non ricorre un accertamento tecnico bensì un semplice rilievo, sottratto come tale al-l’applicazione degli artt. 359 e 360 c.p.p..5

Chiarite le modalità di acquisizione del materiale biologico, occorre ora esaminare la fase, logicamente successiva, relativa proprio all’estrazione del profilo del DNA.6 Nel caso in cui la stessa comporti l’esaurimento del materiale biologico a disposizione, la tipizzazione deve necessariamente essere svolta con le forme dell’accertamento tecnico irripetibile, quanto meno nel caso in cui vi sia già un indagato 7; nel caso opposto invece, ossia nel caso di procedimento contro ignoti, nulla osta ad un accertamento ai sensi degli artt. 348 comma 4 o 359 c.p.p.,8 come pure nel caso in cui il materiale biologico sia presente in quantità tali da consentirne la ripetizione in sede dibattimentale.

2. Normativa ISo e standard probatori

Un primo punto critico della normativa in esame è dato dall’art. 11 (rubricato «metodologia di analisi di reperti e campioni biologici ai fini della tipizzazione del profilo da inserire nella banca dati nazionale del DNA»). La disposizione, sia pure con riferimento alla fase, logicamente successiva al prelievo, dell’analisi e della tipizzazione del

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profilo del DNA, impone l’osservanza dei parametri riconosciuti a livello internazionale e indicati dallo European network of forensic science institutes, e soprattutto stabilisce che nessun profilo del DNA possa essere inserito nella banca dati nazionale se non tipizzato in un laboratorio certificato a norma ISO/IEC (art. 11 comma 2).

La finalità della normativa è evidentemente quella di garantire uno standard qualitativo elevato relativamente ai dati inseriti nell’archivio della banca; si consideri infatti che ad opera della polizia giudiziaria o della stessa autorità giudiziaria 9 tali dati saranno comparati con l’eventuale profilo del DNA estratto nel corso di un procedimento penale dai reperti o dai campioni biologici, con tutte le conseguenze del caso nell’ipotesi di riscontro positivo.

La disposizione richiede quindi che l’estrazione del profilo del DNA provenga da un laboratorio certificato secondo i parametri ISO/IEC 17025:2005, poiché diversamente detti profili non potranno essere inseriti nella Banca dati nazionale.

Ora, si deve rilevare che il riferimento alla normativa ISO/IEC appare alquanto sibillino; non essendo meglio specificato, non appare infatti immediatamente individuabile quale tra le diverse normative emanate dall’International Organization for Standardization e dall’International Electro-technical Commission integri la normativa di riferimento. Inoltre il concetto di certificazione è proprio delle norme relative alla serie ISO UNI EN 9000, che è tuttavia un parametro poco specifico, essendo un sistema di gestione della qualità di un’organizzazione aziendale; proprio invece dei laboratori di analisi è il diverso concetto di accreditamento,10 e al riguardo a venire in rilievo è la normativa ISO/IEC 17025:2005, che stabilisce i requisiti generali per la competenza dei laboratori a effettuare prove e/o tarature, compreso il campionamento.11

Dovendosi convenire sul fatto che il riferimento è alla normativa ISO da ultimo citata,12 l’art. 11 comunque deve essere visto con favore, considerato che l’elevatissima capacità probatoria del DNA può in concreto essere pregiudicata da inadeguati trattamenti, con esiti probatori del tutto erronei.13 La disposizione in esame, da questo punto di vista, presenta tuttavia non pochi aspetti critici.

Anzitutto, pare poco ragionevole pretendere l’osservanza di determinati standard qualitativi in sede di tipizzazione e non prevedere alcunché in ordine alla precedente fase (che non pare suscettibile di esservi ricompresa da un punto di vista letterale) della raccolta e conservazione dei reperti, considerato invece che è proprio in tale fase che si appuntano gli aspetti di maggiore criticità della prova in esame.14

In concreto, si pensi ai rischi di potenziale inquinamento derivanti sia dall’inutile sovraffollamento della scena del crimine sia dalla prassi, nei casi più eclatanti, di esporre corpi del reato (per es. armi oggetto di sequestro) in sede di conferenza stampa da parte degli organi investigativi; al caso in cui il passaggio tra il prelievo del materiale biologico dalla scena del crimine ai laboratori per le analisi non avvenga in via diretta; e ancora: alle discrasie in ordine al numero dei reperti sequestrati sulla scena del crimine e numero di reperti consegnati all’organo incaricato delle relative analisi.

Specifica attenzione avrebbe quindi dovuto essere posta ai presupposti fattuali dell’analisi in senso stretto del materiale raccolto. Occorrerà verificare il rispetto delle procedure soprattutto in sede di raccolta, classificazione, conservazione, trasporto e deposito del materiale necessario per l’estrazione del profilo genetico e il suo corretto inserimento nella banca dati; tali aspetti dovranno inoltre trovare preciso riscontro anche da un punto di vista documentale, posto che in difetto, pur non venendo in rilievo un’espressa sanzione di inutilizzabilità, potranno appuntarsi critiche volte a privare di efficacia sostanziale l’esito probatorio della suddetta tipizzazione. In particolare, sarà necessario verificare e dare atto in sede di verbale di sequestro dei reperti che la scena del crimine, nei limiti del possibile, è rimasta isolata, ovvero individuare le potenziali fonti di inquinamento; la raccolta dovrà peraltro essere preceduta da una generale e accurata ispezione preventiva al fine di pianificare le operazioni di repertamento (ricerca, classificazione, raccolta e confezionamento di reperti e tracce, fino all’invio degli stessi), anche tramite documentazione foto-visiva, e ciò almeno fino alla fase del deposito in laboratorio.15

In sintesi, un legislatore preoccupato di garantire la qualità della prova del DNA avrebbe dovuto prestare maggiore attenzione anche alla c.d. catena di custodia del reperto o del campione biologico.

L’impressione di una certa incoerenza del legislatore sembra del resto trovare conferma in un secondo punto critico dell’art. 11, questa volta inerente proprio all’intrinseca qualità degli standard sulla cui base sono estratti i profili del DNA destinati a implementare la banca dati nazionale.

Si deve infatti considerare che la banca dati ai fini delle indagini può essere alimentata, sotto il profilo dell’inserimento dei...

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