Nuovi profili interpretativi dell’art. 80, Comma 2, D.P.R. 309/90

AutoreLuca Ferrini

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1. La sentenza Primavera ed il ripudio del mercato

Più di dieci anni sono trascorsi dalla storica sentenza della Corte di Cassazione a Sezioni Unite n. 17 del 2000 (ric. Primavera) ed il granito della sua interpretazione dell’art. 80, comma 2, del D.P.R. 309/90 (cd. aggravante dell’ingente quantità) comincia a mostrare le prime crepe.

Negli ultimi tempi, infatti, sezioni singole hanno intrapreso un cammino di placida ribellione a quella sorta di “divinità irascibile” (F.M. Iacoviello) in cui può, talvolta, trasformarsi il plenum della Suprema Corte.

La sentenza “Primavera”, ripudiando - almeno concettualmente - il criterio esegetico cd. mercantilistico o di saturazione del mercato, dominante negli anni ‘90,1 individuava tre parametri per l’esistenza dell’aggravante dell’ingente quantità:

  1. oggettiva eccezionalità del quantitativo (dato ponderale);

  2. grave pericolo per la salute pubblica;

  3. possibilità di soddisfare un rilevante numero di tossicofili.

Tale pronuncia, nel dichiarato intento di scardinare la precedente impostazione, guidava un decennio di giurisprudenza ossequiosa, sulla carta, dei suoi dettami, ma, in realtà, feconda di disparate soluzioni concrete.2

Il delicato equilibrio ricercato dalla Suprema Corte nella sentenza “Primavera” fu quello, principalmente, di non macchiare il candore della legittimità con la volgarità del fatto (scadendo esageratamente nel “particolare”), e, nel contempo, di fornire al giudice di merito una serie di criteri di giudizio per scongiurarne l’arbitrio (e, con ciò, l’inevitabile diversità di trattamento nei confronti del reo in situazioni analoghe).

La sentenza n. 17 del 2000, il cui insegnamento si inseriva indiscutibilmente in un contesto normativo differente [la novella del 20063 ha ridisegnato il delitto di cui all’art. 73, D.P.R. n. 309/90; delitto sul quale si innesta l’aggravante dell’ingente quantità], muoveva da considerazioni ancor oggi di consistente rilievo [e già, in qualche modo, lumeggiate da una parte della giurisprudenza di poco precedente4].

2. L’impenetrabile concetto

Sul piano logico-argomentativo, infatti, la celebre pronuncia sottolineava la labilità, l’immaginarietà e l’impenetrabilità del concetto di “mercato” della droga. Sul piano, poi, propriamente fenomenologico (inesorabilmente collegato a quello dell’oggettività giuridica) descriveva la realtà preoccupante ed ingravescente del consumo di sostanze proibite (e dannose per la salute), “agevolata” -scrivevano, sul punto, le Sezioni Unite - “dall’elevazione del livello dell’offerta e dal calo del prezzo di scambio, collegato alla quantità disponibile per la cessione”.

In altre parole, nonostante la denunziata indefinibilità concettuale, la constatazione della Suprema Corte altro non manifestava che l’applicazione di una basilare regola mercantile: se l’offerta cresce, il prezzo cala. Chiamasi inflazione.

In realtà, per oltre due lustri, le interpretazioni succedutesi alla sentenza-guida del 2000, in qualche modo, le attribuivano insegnamenti aggiuntivi che essa non aveva inteso dare. Quello delle Sezioni Unite non fu, infatti, il ripudio di un criterio ermeneutico per inesistenza dell’oggetto (cioè di un mercato della droga potenzialmente saturabile); fu semplicemente la constatazione di un’impossibilità ricostruttiva della realtà del fenomeno.

“I dati statistici” - affermava, a tal proposito, la sentenza Primavera - “sono privi di rappresentatività” perché “l’indagine raggiunge solo una parte (forse minima) del fenomeno, per molti versi impenetrabile”. Conclusivamente, e questa risultava l’obiezione più convincente all’utilizzo del paradigma del mercato saturabile, la Corte giungeva all’affermazione secondo cui “il riferimento al concetto di mercato introduce un elemento non richiesto e spurio”, pericoloso sul piano della tenuta argomentativa della decisione giudiziale in ragione di un “impossibile accertamento con gli ordinari strumenti di indagine dei quali il giudice può processualmente disporre”.

Volessimo utilizzare termini mutuati dall’ambito filosofico, per sintetizzare la posizione espressa dalle Sezioni Unite, l’obiezione mossa al criterio discretivo del mercato

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non era di natura ontologica, bensì euristica: il mercato della droga esiste, eccome; ma possiede dimensioni così ampie e caratteristiche così peculiari (omertà, per esempio) da consentire unicamente all’interprete - perlomeno attraverso gli strumenti processuali a disposizione del giu- dice penale - l’enunciazione di nozioni “sottratte ad ogni riscontro fattuale”.5

3. “Del ritornar ti vanti / e procedere il chiami”

Apparentemente6, quindi, con la pronuncia a Sezioni Unite, si sarebbe dovuti tornare ad una primigenia interpretazione nominalistica,7 addirittura risalente alle applicazioni della previgente normativa (legge n. 685/75), che prevedeva identica circostanza aggravante nel caso di cessione illecita di stupefacenti per “quantità ingenti”.8

L’aggettivo adoperato dal legislatore nelle due edizioni era, evidentemente, il medesimo (ancorché declinato al plurale nella vecchia dizione) e l’intensità denotativa risultava, nel tempo, abbastanza condivisa dalla giurisprudenza di legittimità,9 secondo cui, per quantità ingente deve ritenersi una quantità “molto elevata nella scala dei valori quantitativi, anche se non raggiunge il valore massimo [… pur] con accento di eccezionalità”.10

L’approccio nominalistico, dopo la sentenza Primavera avrebbe, quindi, ripreso il sopravvento - pur constatandosi, nella giurisprudenza delle sezioni singole, una sorta di resistenza carsica della teoria del mercato11 - sulla valutazione sostanzialistica, considerata inaccettabilmente discrezionale. E, pertanto, inaffidabile.

Tuttavia, rileggendo il principio di diritto enucleato dai quindici giudici della sentenza n. 17 del 2000, non parrebbe, poi, così incondizionato l’abbandono - pur testualmente proclamato - di un concetto di ingente quantità connesso anche alla realtà territoriale di riferimento dello spaccio posto all’attenzione del giudice.

La Cassazione, nel ripudiare l’approccio mercantilistico (costruito, lamenta la Corte, su dati evanescenti come “domanda”, “offerta”, “valori di mercato” et similia) indicava, infatti, una via sociologica al problema: l’aggravante - sostenevano i Supremi Giudici - sarà integrata ogniqualvolta il dato ponderale risulterà tale da “creare condizioni di agevolazione del consumo nei riguardi di un rilevante numero di tossicofili, secondo l’apprezzamento del giudice del merito che, vivendo la realtà sociale del comprensorio territoriale nel quale opera, è da ritenersi in grado di apprezzare specificamente la ricorrenza di tali circostanze”.12

Da una parte, quindi, il giudice “in trincea” - secondo le Sezioni Unite - non avrebbe gli strumenti processuali per accertare un verosimile profilo mercantilistico, in quanto i dati statistici reperibili fuori dall’alveo giudiziario sarebbero affetti da insuperabile inaffidabilità scientifica; dall’altra, invece, il medesimo giudice che “vive” la realtà sociale del comprensorio in cui opera, troverebbe in se stesso maggiore affidabilità scientifica nell’apprezzamento “della creazione di condizioni di agevolazione del consumo”13 di sostanze stupefacenti.

Orbene, viene da chiedersi come si possa, per un verso, comprensibilmente censurare il riferimento a dati statistici raccolti ad altri scopi e fuori del processo, incolpando le pronunce facenti riferimento a tali elaborazioni di essersi affidate aleatoriamente “all’abilità dialettica di chi fornisce la motivazione”14 e, poi, per altro verso, proporre - in sostituzione dell’abiurato criterio ermeneutico - il ricorso tout court all’apprezzamento personale dell’interprete, sia pure formato da “un’esperienza fondata sul dato reale presente nella comunità nella quale vive”,15 quasi si potesse sostenere un’immedesimazione del giudice con la realtà sociale in cui lavora.

Non si comprende davvero come potrebbe un dato esperienziale del singolo (giudice) sostituire il dato statistico “esterno” al processo, pretendendo - per giunta - che tale nuovo strumento conferisca maggiore affidabilità scientifica alla decisione e contribuisca a minimizzare gli eccessi della discrezionalità del giudizio.

4. Le buone intenzioni nascoste

Queste perplessità, negli operatori del diritto, e soprattutto in quelli costantemente all’opera sul territorio...

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