La morte del reo e il fallimento dell’ente: il parallelo che non c’è

AutoreEnrico Corucci
Pagine516-522

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@1. Il caso di specie: l’equiparazione del fallimento alla causa di estinzione del reato costituita dalla morte del reo

La questione decisa dalla Suprema Corte nel caso di specie costituisce risposta ad un preciso quesito che non trova espressa disciplina nel D.L.vo 8 giugno 2001, n. 231: quid iuris ove l’ente tratto a giudizio per responsabilità amministrativa da reato sia fallito ovvero medio tempore fallisca?

Il tema non è di poco momento, giacché non è infrequente che, al momento dell’esercizio dell’azione penale per un reato fonte di responsabilità amministrativa ex artt. 24 ss. D.L.vo 8 giugno 2001, n. 231, ovvero successivamente fino al giudicato, sia sopravvenuto ovvero sopravvenga il fallimento dell’ente (oppure questo sia assoggettato ad altra procedura concorsuale) cui sia stato contestato l’illecito amministrativo dipendente da detto reato1. Anzi è la medesima contestazione dell’illecito amministrativo che può condurre al dissesto, segnatamente a fronte dell’applicazione di misure cautelari particolarmente incisive, soprattutto di natura interdittiva, ed ancora il fallimento può conseguire ad una istanza dello stesso pubblico ministero procedente nelle ipotesi di cui all’art. 7 l. fall.

Nella fattispecie, in particolare, all’amministratore unico e liquidatore di una società per azioni era contestato, tra gli altri, il reato di false comunicazioni sociali nonché a detta società, ormai fallita, era contestato l’illecito di cui agli artt. 5, 21 e 25 ter lett. a) D.L.vo 8 giugno 2001, n. 231 per avere il suo amministratore, nello svolgimento di una medesima attività, commesso i menzionati fatti di falso in bilancio nell’interesse e a vantaggio della società stessa.

All’esito dell’udienza preliminare il giudice pronunciava sentenza di non luogo a procedere con cui assolveva la società in ragione dell’avvenuta dichiarazione del suo fallimento2, essenzialmente adombrando una discontinuità soggettiva tra la società originaria nel cui interesse era stato commesso il reato e la società fallita.

Codesta pronuncia si colloca in un quadro ove chiare appaiono le insidie sottese alla soluzione opposta giacché, a mente dell’art. 27, primo comma, D.L.vo 8 giugno 2001, n. 231 secondo cui “dell’obbligazione per il pagamento della sanzione pecuniaria risponde soltanto l’ente con il suo patrimonio o con il fondo comune”, ove la dichiarazione di fallimento risultasse ininfluente nei confronti della responsabilità amministrativa codesta sanzione (in ordine alla quale neppure è previsto l’istituto della sospensione condizionale) graverebbe sul patrimonio fallimentare e dunque costituirebbe pregiudizio per il ceto creditorio; parimenti dannosa, peraltro, risulta la sanzione della confisca.

Inoltre il soggetto destinatario della sanzione è diverso, ormai, da quello nell’ambito del quale fu commesso il reato presupposto, sicché le esigenze retributive e di prevenzione speciale appaiono recessive rispetto a quelle diPage 517 tutela dei terzi, potremo dire di “buona fede”, ai quali sono senz’altro assimilabili i creditori.

La pendenza del procedimento penale, poi, ben può incidere sui termini di durata della procedura concorsuale per la chiusura della quale, a rigore, dovrebbe attendersi la conclusione del primo con la conseguente statuizione in tema di responsabiltà amministrativa dell’ente, sì da poter far fronte al pagamento del debiti concorsuali tra cui quello costituito, appunto, dalla irrogata sanzione pecuniaria. In questo modo, tuttavia, sembra profilarsi un paradosso, posto che il prolungamento oltre misura della procedura concorsuale in attesa del giudicato penale, al fine di permettere eventualmente allo Stato di irrogare la sanzione pecuniaria e quindi esigerne il pagamento, può contestualmente dar luogo ad istanze risarcitorie ai sensi della l. 24 marzo 2001, n. 89 (c.d. “legge Pinto”), le quali potrebbero vanificare il beneficio tratto dall’applicazione di detta sanzione, addirittura potendo superarla, in termini opposti, nel quantum3.

Il giudice dunque, evidentemente consapevole delle menzionate difficoltà, ha ritenuto di percorrere la via interpretativa “anestetizzante”, non nuova in realtà nella giurisprudenza di merito4, secondo cui il fallimento dell’ente sarebbe sostanzialmente analogo alla morte del reo sicché, così come questa estingue il reato ai sensi dell’art. 150 c.p., quello estinguerebbe l’illecito amministrativo derivante da reato.

Non è chi non veda tuttavia come, in ragione della più ampia disciplina della responsabilità amministrativa degli enti e degli effetti del fallimento, trattasi di tesi insostenibile.

@2. Le argomentazioni contrarie alla equiparazione

In argomento si osserva, in primo luogo, che l’unica causa estintiva prevista con riferimento alla responsabilità degli enti risulta la prescrizione della sanzione (art. 22 D.L.vo 8 giugno 2001, n. 231).

Nella stessa prospettiva, d’altra parte, deve valutarsi la questione delle vicende modificative dell’ente (artt. 28 ss. D.L.vo 8 giugno 2001, n. 231), posto che il legislatore non prende in considerazione tra queste l’assoggettamento a procedure concorsuali5, dimostrando così di ritenere ininfluente il loro sopravvento.

Ma vi è di più, perché la morte del reo neppure funge da causa estintiva della responsabilità degli enti laddove essa si identifichi nel decesso dell’autore del “reato presupposto”: il riferimento è all’art. 8, lett. b) D.L.vo 8 giugno 2001, n. 231 ove si dà rilevanza alla sola amnistia.

È poi altrettanto chiaro, ove si ricordino gli effetti del fallimento, che in alcun modo esso può intendersi momento conclusivo della vita dell’ente determinando al contrario, quale primo noto effetto patrimoniale, il c.d. “spossessamento” del fallito secondo cui, a fronte della sostituzione del soggetto cui è affidata l’amministrazione del patrimonio di questi, egli non perde la proprietà dei suoi beni bensì, appunto, la disponibilità dei medesimi in vista della loro alienazione forzata, con l’ulteriore conseguenza che gli eventuali atti di disposizione che egli compia sono comunque validi ma inopponibili alla procedura (cfr. artt. 42 e 44 l. fall.).

Il fallimento, del resto, neppure costituisce motivo automatico di scioglimento di tutti i contratti in corso di esecuzione già stipulati dal fallito, in quanto la legge prevede che alcuni di essi proseguano giacché ritenuti vantaggiosi per i creditori mentre di altri non ne prefissa la sorte ma consente al curatore, previa autorizzazione del comitato dei creditori, di scegliere se dar continuità al rapporto, medio tempore sospeso, sempre ove ciò sia ritenuto maggiormente proficuo per gli interessi della procedura (cfr. artt. 72 ss. l. fall.).

È altresì noto che l’art. 104 l. fall. ammette la possibilità del proseguimento, seppur provvisorio, dell’attività d’impresa del fallito; tale esercizio provvisorio può essere disposto dal tribunale direttamente con la sentenza dichiarativa di fallimento, se l’interruzione può cagionare grave danno e purché non ne derivi pregiudizio per i creditori, ovvero successivamente dal giudice delegato su proposta del curatore nonché previo parere favorevole del comitato dei creditori.

Infine preme anche ricordare che l’art. 2484 c.c., a seguito della riforma delle società di capitali e cooperative di cui al D.L.vo 17 gennaio 2003, n. 6, non menziona più la dichiarazione di fallimento tra le cause di scioglimento delle società di capitali6.

Nel fallimento, dunque, l’impresa continua ad esistere e non si verifica alcuna estinzione dell’ente, alla quale, al contrario, si perverrà soltanto dopo la chiusura della procedura concorsuale con la cancellazione della società dal registro delle imprese, sicché l’equiparazione, sia pur mutatis mutandis, del fallimento alla causa di estinzione del reato costituita dalla morte del reo è priva di fondamento7.

Un ulteriore argomento contrario a tale assimilazione si individua del resto nello stesso tessuto normativo del D.L.vo 8 giugno 2001, n. 231 e segnatamente nell’art. 27, secondo comma che così dispone: “I crediti dello Stato derivanti dagli illeciti amministrativi dell’ente relativi a reati hanno privilegio secondo le disposizioni del codice di procedura penale sui crediti dipendenti da reato. A tale fine la sanzione pecuniaria si intende equiparata alla pena pecuniaria”. Tale disposizione, invero, appare inconciliabile con il supposto effetto estintivo della sentenza dichiarativa di fallimento, giacché l’aver espressamente previsto un privilegio che assista il credito dello Stato per il pagamento della sanzione pecuniaria da illecito dipendente da reato nei confronti dell’ente implica che il legislatore abbia ammesso la possibilità di un concorso di crediti e la possibilità di farli valere in una procedura esecutiva concorsuale, come tale non ostativa alla responsabilità dell’ente8.

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In dottrina d’altra parte non si registra alcuna opinione discorde9 ed anzi la presunta efficacia estintiva della sentenza dichiarativa di fallimento è anche implicitamente esclusa allorché si discute degli effetti di quest’ultima verso gli obbligati al pagamento della sanzione amministrativa pecuniaria, posto che ove codesta efficacia estintiva avesse cittadinanza neppure si porrebbe la questione.

L’art. 27, primo comma D.L.vo 8 giugno 2001, n. 231, invero, dispone che il debito pecuniario al pagamento della sanzione amministrativa grava esclusivamente sul patrimonio (o sul fondo comune) dell’ente, sicché i suoi eventuali soci illimitatamente responsabili non ne risponderanno col proprio patrimonio personale. Ove sopraggiunga il fallimento della società, esso si estenderà al socio illimitatamente responsabile ex art. 147 l. fall. ma ciò nondimeno costui continuerà a non rispondere del debito costituito dalla sanzione amministrativa pecuniaria, il quale quindi non graverà sul suo stato passivo, distinto da quello sociale ex art. 148, secondo comma l. fall10.

L’ulteriore sviluppo di ciò comporta che...

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