Il trattamento medico senza consenso al vaglio delle Sezioni unite: passi avanti e persistenti ambiguità

AutoreCaterina Brignone
Pagine1130-1139

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@1. Il caso, le questioni problematiche e la decisione delle Sezioni Unite

– La vicenda oggetto di giudizio è un caso paradigmatico di over-treatment, perché l’addebito mosso al chirurgo consisteva nell’aver eseguito sulla paziente anestetizzata un intervento più invasivo di quello previamente consentito, segnatamente una salpingectomia con asportazione della tuba sinistra in luogo della mera laparoscopia operativa. Il fatto era stato contestato dal pubblico ministero in termini di lesioni personali dolose e riqualificato dal giudice di primo grado come violenza privata, sul presupposto che ogni trattamento senza specifico consenso integri una lesione del diritto di autodeterminarsi sulla salute e che l’omessa informazione di un evento rilevante altamente prevedibile sia da ascrivere a scelta consapevole e volontaria e non a mera colpa. La corte d’appello, senza prendere posizione sulla tesi difensiva secondo cui è lecito ogni intervento medico che non vada contro un espresso dissenso, aveva dichiarato la prescrizione del reato ritenuto dal primo giudice. Le diverse ricostruzioni giuridiche prospettate rispettivamente dal pubblico ministero, dalla difesa dell’imputato e dai giudici del merito rispecchiavano i diversi orientamenti espressi dalla giurisprudenza di legittimità.

In particolare, l’indirizzo in base al quale l’over-treatment configura lesioni personali volontarie, anche se tecnicamente riuscito, e omicidio preterintenzionale, nel caso di morte quale conseguenza non voluta, è stato espresso per la prima volta nel celebre casoPage 1131 Massimo dei primi anni ’90. La Cassazione aveva ritenuto che qualsiasi alterazione anatomica o funzionale dell’organismo, anche transitoria o necessaria, prodotta dall’intervento chirurgico integrasse una malattia rilevante ai sensi degli artt. 582 ss.c.p.; che tale evento, in assenza di consenso dell’ammalato, fosse, oltre che tipico, anche antigiuridico; che il dolo del reato si identificasse nella coscienza e volontà di effettuare la resezione chirurgica non consentita, a prescindere dal fine perseguito dall’agente; che la morte non voluta andasse addebitata a titolo di responsabilità oggettiva1.

Seppur sporadicamente e incidentalmente, la giurisprudenza di legittimità ha sostenuto anche la tesi della configurabilità dei reati contro la libertà morale, sul rilievo che la mancata acquisizione del consenso realizzasse una violazione della libertà di autodeterminazione del paziente2.

La soluzione più ricorrente negli ultimi anni è stata, però, quella di escludere la responsabilità penale del professionista per trattamento non autorizzato. In alcuni casi, è stata ravvisata, con riguardo ai delitti contro l’integrità fisica, l’incompatibilità tra finalità di cura e dolo di lesioni e, con riguardo alle fattispecie contro la libertà morale, l’assenza dei requisiti strutturali della violenza o minaccia3; in altri, si è fatta applicazione della scriminante dello stato di necessità anche con riferimento agli interventi contra voluntatem aegroti4; in altri ancora, è stata affermata la liceità dell’over treatment per la finalità di cura che lo anima e la possibilità di ravvisare violenza privata nei soli casi di violazione dell’esplicito dissenso5.

Le Sezioni Unite, chiamate a dirimere il contrasto di giurisprudenza, hanno colto l’occasione per un’ampia e articolata pronuncia, che parte dal fondamento di legittimità dell’attività medica e dalla collocazione sistematica del consenso per arrivare poi a valutare la tipicità de iure condito del trattamento arbitrario e la colpevolezza del suo autore. Il principio di diritto infine enunciato è quello dell’irrilevanza penale, sotto il profilo sia delle lesioni personali che della violenza privata, della condotta del medico che sottoponga il paziente a un trattamento diverso da quello consentito, a condizione che «tale intervento, eseguito nel rispetto dei protocolli e delle leges artis, si sia concluso con esito fausto», nel senso che ne sia «derivato un apprezzabile miglioramento delle condizioni di salute, in riferimento anche alle alternative ipotizzabili, e senza che vi fossero indicazioni contrarie da parte del paziente medesimo». La Cassazione riunita ha così superato i precedenti orientamenti giurisprudenziali, che, nell’affermare la rilevanza o l’irrilevanza penale del trattamento arbitrario, prescindevano dall’esito; ha mostrato, invece, di condividere la posizione dottrinale che nega il fatto tipico delle lesioni quando l’operato del medico, seppur non consentito, produca un risultato positivo per la salute6.

Sarebbe, però, riduttivo ravvisare nella decisione in commento il mero rispolvero di un orientamento risalente, perché una disamina attenta fa emergere ben altra complessità e profondità. Scomponendo la sentenza nelle sue parti, è possibile individuare le asserzioni realmente determinanti e mettere in evidenza potenzialità che potrebbero sfuggire a una prima lettura o non essere rivelate dalla mera considerazione del principio di diritto. Più in dettaglio, la motivazione si articola in tre parti: la prima passa in rassegna la giurisprudenza precedente, ragion per cui non necessita di considerazione autonoma, essendo sufficiente il richiamo degli orientamenti di volta in volta disattesi o confermati dalle Sezioni Unite; la seconda prende posizione sulla giustificazione dell’attività medica e sul ruolo del consenso informato; la terza valuta la riconducibilità del trattamento arbitrario – sia esso senza o contro la volontà – alla violenza privata o alle lesioni personali. Per quanto l’ordine espositivo suggerisca la derivazione della terza parte dalla seconda, tale consequenzialità è più apparente che reale: lo dimostra il mancato richiamo delle premesse teoriche nel successivo svolgimento dell’iter motivazionale e lo comprova l’asimmetria, nelle precedenti sentenze in subiecta materia, tra le impostazioni seguite sulla legittimazione dell’attività medica ed il ruolo del consenso, da una parte, e la disciplina penalistica del trattamento arbitrario, dall’altra7. Ciò vuol dire che l’aspetto decisivo è quello ancorato al diritto penale positivo con riferimento al problema delle fattispecie incriminatrici applicabili, mentre la parte relativa alla questione dogmatica della legittimazione dell’attività medica merita attenzione perché espessiva di una temperie culturale in cui non è la volontà del paziente a rivestire il ruolo di primo piano. Questa temperie culturale, a sua volta, può spiegare certi equilibrismi della pronuncia, in bilico tra antichi retaggi e nuove tendenze, tra vecchio e nuovo paternalismo, da una parte, spinte autonomistiche, dall’altra.

@2. Legittimazione dell’attività medica e ruolo del consenso informato

– Sulla giustificazione dell’attività medica8, è sposata la tesi dell’autolegittimazione, già invalsa nell’orientamento giurisprudenziale maggioritario9; è, invece, disattesa quella imperniata sull’esimente codicistica del consenso dell’avente diritto10, sul presupposto che sarebbe incoerente richiedere una scriminante tipizzata per legittimare la professione sanitaria e le condotte ad essa strumentali, attuate legibus artis e con esito fausto, le quali sono finalizzate alla tutela della salute, bene costituzionalmente protetto (art. 32 Cost.), «ambito inviolabile della dignità umana»11 e «diritto fondamentale dell’individuo»12. A giudizio della Corte, «se di discrimine si vuol parlare, dovrebbe semmai, immaginarsi la presenza, nel sistema, di una sorta di “scriminante costituzionale”, tale essendo (...) la fonte che “giustifica” l’attività sanitaria, in genere, e medico chirurgica nella specie, fatte salve soltanto le ipotesi in cui essa sia rivolta a fini diversi da quelli terapeutici (è il caso, come è noto, degli interventi a carattere sperimentale puro o scientifico, e degli interventi che si risolvano in un trattamento di pura estetica)». Base costituzionale è riconosciuta anche al «principio fondamentale» del consenso informato, qualificato presupposto di legittimità del concreto atto medico13 e chiamato a svolgere funzione di sintesi tra autodeterminazione e salute.

Le argomentazioni svolte e le conclusioni raggiunte in questa prima parte della sentenza non appaiono tali da mettere la prola fine al lungo e pugnace dibattito sulle questioni affrontate.

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In primo luogo, l’affermata legittimazione ex se dell’attività medica – che evoca, al contempo, le teorie dell’adeguatezza sociale14, della scriminante non codificata15 e dell’esercizio di una facoltà legittima16 si espone ai medesimi rilievi critici avanzati nei confronti di quelle dottrine e concernenti la tendenza a evadere i limiti del diritto scritto, l’eccessiva genericità nell’individuazione dei riferimenti normativi e la poca precisione nella determinazione dei presupposti di liceità17. In secondo luogo, l’autolegittimazione, enfatizzando il rilievo sociale dell’attività, è più in linea con l’interesse pubblico alla salute, menzionato anch’esso nella disposizione dell’art. 32 Cost., che con il relativo diritto individuale, sul quale preferisce insistere la Corte; far leva sul diritto soggettivo avrebbe dovuto dare maggiore risalto alla volontà del paziente, che qui, invece, viene in considerazione solo in seconda battuta quale presupposto del concreto dispiegarsi dell’attività medica. Inoltre, anche a voler ammettere una «scriminante costituzionale», non si vede per quale ragione escluderne dall’ambito di applicabilità gli interventi di pura sperimentazione e quelli meramente estetici: i primi, infatti, trovano copertura nell’art. 33 della Carta fondamentale, mentre i secondi sono difficilmente distinguibili dai trattamenti terapeutici in conseguenza della dilatazione della nozione di salute fino a ricomprendere il benessere in senso ampio della persona18.

Guardando più specificamente al consenso, è coerente riconoscere il fondamento costituzionale negli artt. 2, 13 e 32, Cost., ma tale esegesi non...

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