Brevi osservazioni sull'istituto dell'avviso della conclusione delle indagini preliminari

AutoreGiuseppe Barbuto
Pagine129-133

Page 129

L'art. 415 bis del codice di procedura penale - inserito, come è noto, dalla legge 16 dicembre 1999, n. 479 (cosiddetta «legge Carotti») - ha introdotto nella dinamica del rito un passaggio di estrema importanza, di portata nettamente garantistica, in quanto finalizzato a consentire all'indagato il pieno espletamento del diritto di «difendersi provando» dalle accuse mossegli. La notificazione dell'avviso della conclusione delle indagini preliminari permette infatti alla persona indagata di operare le sue valutazioni e di ponderare le eventuali iniziative da assumere con piena cognizione di causa, cioè dopo essere venuta a conoscenza del contenuto del fascicolo relativo alle indagini stesse (quindi, in definitiva, del loro esito), e soprattutto le permentte (in ciò consiste la novità essenziale e maggiormente significativa) di esercitare il proprio diritto di difesa anteriormente all'esercizio dell'azione penale da parte del P.M., venendo così realmente posta in condizione di attivarsi onde eventualmente evitare che detto esercizio abbia luogo 1.

L'istituto, dunque, è finalizzato ad anticipare, espandendone la portata, l'«entrata in scena» dell'indagato, ribadendo la scelta - coerente con l'impostazione accusatoria del nuovo codice (una impostazione per lungo tempo mortificata e tradita dai molteplici interventi legislativi cosiddetti «emergenziali», nonché dalle numerose pronunzie «in controtendenza» della Corte costituzionale) - per l'affermazione dell'idea di una difesa «attiva», in contrasto con la difesa sostanzialmente «passiva» cui il rito previgente costringeva la persona sottoposta alle indagini 2. Sotto questo profilo, non vi è dubbio che il neonato istituto rappresenti un cospicuo progresso rispetto agli innesti che, nella stessa ottica, il legislatore aveva previamente operato nel tessuto del codice: qui si fà riferimento alle modificazioni apportate agli articoli 416 e 555 c.p.p. (quest'ultimo, nel testo anteriore alla istituzione del giudice unico di primo grado) dalla legge 16 luglio 1997, n. 234, per effetto delle quali era sancita la nullità della richiesta di rinvio a giudizio e del decreto di citazione a giudizio dell'imputato, se non preceduti dall'invito al medesimo a presentarsi per rendere l'interrogatorio, ai sensi dell'art. 375, comma III. È infatti evidente che, intervenendo l'invito predetto in un momento in cui era ancora indubbia la conoscenza degli atti di indagine espletati dal P.M., in quanto non ancora esaurita la fase delle indagini preliminari, l'interrogatorio rappresentava per l'imputato - rectius: indagato - non tanto un momento privilegiato per lo svolgimento della propria difesa, quanto, piuttosto, un passaggio «ad alto rischio», a cagione del fatto che avrebbe dovuto rispondere alle domande postegli - in qualche caso, forse, anche maliziosamente - dall'Autorità procedente, senza poterne valutare le conseguenze future, stante la sua ignoranza del compendio probatorio a proprio carico (ignoranza non certo superata dalle generiche informazioni cui gli davano - e tuttora gli danno - diritto le disposizioni dettate dagli artt. 65 e 375 del codice). Siffatta situazione rendeva meramente formale la garanzia rappresentata dalla presenza del difensore, e, nella maggior parte dei casi, suggeriva all'indagato la scelta più ovvia, cioè quella di avvalersi della facoltà di non rispondere, ovvero di non accogliere tout court l'invito rivoltogli, con riserva di sottoporsi all'interrogatorio (o, addirittura, all'esame) in un momento successivo. Il sistema attuale, che non solo consente all'indagato di aver piena contezza degli elementi a suo carico prima che abbia luogo, da parte del P.M., l'esercizio dell'azione penale, ma addirittura fa obbligo all'inquirente, che ne sia richiesto, di procedere all'interrogatorio dell'indagato medesimo (ovviamente decisosi a questo passo a ragion veduta, pronto quindi a difendersi in maniera consapevole, e, magari, a fornire decisivi elementi a propria discolpa), appare sotto ogni aspetto coerente con il dettato dell'art. 24 cpv. della Costituzione, restituendo all'istituto dell'interrogatorio, quando sia espletato nel corso delle indagini preliminari, quella funzione essenziale di momento difensivo privilegiato che, pur essendo insita nella sua natura, non aveva, in fondo, mai avuto - tanto sotto l'imperio del codice previgente, quanto sotto quello del codice attuale - perché resa praticamente impossibile dal vincolo del «segreto istruttorio». È chiaro che la successiva introduzione delle norme che, superando gli angusti confini imposti dall'art. 38 disp. att. c.p.p. (nulla più che una mera «dichiarazione di intenti»), ed inserendo finalmente in un quadro organico la delicatissima materia, hanno in modo concreto - e sia pure suscitando talune perplessità interpretative - disciplinato la dinamica delle investigazioni difensive, ha rappresentato senza alcun dubbio uno sviluppo conseguente - e, per così dire, automatico - del principio che aveva ispirato l'introduzione dell'istituto di cui all'art. 415 bis del codice di rito.

Si può, dunque, senz'altro affermare che, allo stato attuale, la conclusione della fase delle indagini preliminari ed il passaggio del «procedimento», attraverso l'esercizio dell'azione penale, alla fase - nei casi di citazione diretta a giudizio - successiva (quando il «procedimento» diventa propriamente «processo»), o, comunque, ad un momento autenticamente giurisdizionale (nei casi in cui sia prevista la celebrazione dell'udienza preliminare, e, quindi, sia necessaria la richiesta di rinvio a giudizio), necessiti, per così dire, del «consenso informato» dell'indagato, atteso che costui, se pur non ha, ovviamente, alcun potere inibitorio in ordine alla libera determinazione del P.M., ben può tuttavia adoperarsi allo scopo di influire su quest'ultima, o, quanto meno, di stimolarne, se possibile anche indirizzandoli, accertamenti ulteriori 3. Per questa ragione, considerate la peculiarità dell'istituto, la sua funzione e la sua natura articolata e complessa, si deve nettamente affermare che l'avviso della conclusione delle indagini preliminari non ammette equipollenti. L'importanza estrema dell'istituto, forse non del tutto compresa al momento della sua introduzione, si può apprezzare anche sotto il profilo delle gravi «ricadute» processuali che discendono dalla eventuale inosservanza delle prescrizioni dettate dall'art. 415 bis c.p.p. Basti pensare che il legislatore ha sanzionato con la nullità tanto la richiesta di rinvio a giudizio (art. 416, comma I, c.p.p.), quanto il decreto di citazione a giudizio (art. 552, comma II, c.p.p.), ove non preceduti dall'invio all'imputato e al suo difensore dell'avviso relativo alla conclusione delle indagini preliminari, nonché dall'invito a presentarsi per rendere l'interrogatorio ai sensi dell'art. 375, comma III, c.p.p., qualora la persona sottoposta alle indagini preliminari abbia fatta richiesta entro il termine di cui al comma IIIPage 130 dell'art. 415 bis dello stesso codice 4. Attesa la ratio dell'istituto, tutta ispirata - come già precedentemente evidenziato - a garantire, rendendolo concreto ed effettivo, il diritto di difesa - costituzionalmente protetto - dell'indagato - non può dubitarsi che trattisi di nullità di ordine generale, ancorché non assoluta, dunque assoggettata al regime di cui all'art. 180 c.p.p. 5. Non mancano interventi dottrinari e giurisprudenziali di segno conforme 6.

Peraltro, la norma in esame pone sotto il profilo sistematico un problema di notevole spessore, ove si verifichi l'ipotesi - non certo impossibile - che, dichiarata la nullità dell'atto con il quale il P.M. abbia esercitato l'azione penale, a cagione dell'omesso invio dell'avviso della conclusione delle indagini preliminari, e dopo la rituale notifica di quest'ultimo, sia acquisita agli atti - per iniziativa diretta dell'indagato o come risultato di ulteriori indagini da costui sollecitate - la prova certa e non controvertibile della infondatezza della notitia criminis, o, in ogni caso, della innocenza dell'incolpato; ovvero, ancora, nella ipotesi in cui si verifichi altra eventualità tra quelle previste dall'art. 129 c.p.p. In questo caso si pone un problema di scelta operativa non per quanto concerne il merito, essendo scontata l'impossibilità, per il P.M., di sostenere l'accusa in giudizio, ma, bensì, per quanto concerne il modus procedendi, poiché la soluzione più ovvia, rappresentata dalla formulazione al Gip della richiesta di archiviazione, secondo alcuni non sarebbe praticabile, ostandovi il principio della irretrattabilità dell'azione penale, di guisa che, anche in presenza della situazione testè prospettata, dovrebbe comunque il P.M. reiterare l'atto di esercizio dell'azione penale - anzi, più esattamente, «proseguire» l'azione stessa - spettando poi al giudice dichiarare con sentenza l'assoluzione, o il proscioglimento, dell'imputato; atti diversi dovrebbero reputarsi abnormi, secondo quanto affermato in giurisprudenza 7. Questa soluzione, tuttavia, non convince e presta il fianco a numerose obiezioni. Essa, infatti, a parte l'evidente contrasto con il principio di economia processuale, da tempo teorizzato tanto in dottrina quanto in giurisprudenza, risulta incoerente con la logica del sistema giusprocessuale vigente, poiché non tiene conto della ratio dell'istituto introdotto dall'art. 415 bis c.p.p., ampiamente evidenziata nella parte iniziale del presente lavoro 8, e condurrebbe a conclusioni assurde ed aberranti. Infatti, non avrebbe senso la premura di garantire all'indagato la possibilità di interloquire con il P.M., allo scopo di perseguire la più sollecita dimostrazione della propria innocenza ed evitare l'instaurazione della fase del giudizio, se poi l'inosservanza dell'obbligo «informativo» gravante sul magistrato inquirente non ostasse all'esercizio dell'azione penale (che, anzi, secondo la tesi qui censurata si dovrebbe intendere già...

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