In margine ad un «coupe de theatre»

AutoreSalvatore Caltabiano
Pagine883-887

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Ancora una volta un «colpo di scena» della Cassazione! Indubbiamente, tutto ciò che sa di novità esercita da sempre una sottile e misteriosa seduzione sullo spirito umano («soltanto il nuovo ci intriga...»); è il caso di questa pronunzia, la quale in un istante cattura l'attenzione e la curiosità del lettore, offrendogli ricchezza di spunti per la riflessione.

Tra i tanti (varie infatti sono state le questioni che la Corte nell'occasione ha affrontato, ma delle quali in questa sede non ci occupiamo), la qualificazione dell'usura come reato c.d. «a consumazione prolungata»; è questa la novità di grande rilievo nel panorama della giurisprudenza formatasi sull'art. 644 c.p. 1.

La questione - delicatissima, per la verità - ha già destato le attenzioni di qualificata dottrina 2, e non è difficile prevedere che il dibattito su di una problematica di tale spessore si protrarrà a lungo nel tempo a venire, con esiti tutt'altro che scontati...

All'origine della querelle sta una disposizione codicistica introdotta ex novo dal legislatore del 1996 3: l'art. 644 ter, in virtù del quale «la prescrizione del reato di usura decorre dal giorno dell'ultima riscossione sia degli interessi sia del capitale».

Nel dibattito apertosi all'indomani dell'entrata in vigore della nuova normativa, una certa dottrina 4, partendo dal presupposto per cui l'intervento legislativo non avrebbe operato mutamenti in ordine al momento consumativo del reato (l'usura avrebbe mantenuto la propria natura di reato istantaneo con effetti permanenti e si consumerebbe, secondo il dettato della norma stessa, nel momento in cui l'usuraio si fa «dare» o - in alternativa - soltanto «promettere» interessi o altri vantaggi usurari, anche nell'ipotesi in cui la corresponsione degli stessi debba protrarsi per un lasso di tempo più o meno esteso), ha espresso profonde critiche nei riguardi dell'intervento riformatore, sollevando altresì il dubbio se l'art. 644 ter possa considerarsi costituzionalmente legittimo sotto il profilo della parità di trattamento tra chi sia incriminato per usura e chi lo sia per altri reati.

Se ci è consentito sin d'ora avanzare una considerazione, osserviamo che, proprio ai sensi del secondo comma dell'art. 3 Cost., la Repubblica ha il compito di rimuovere quegli ostacoli di ordine sociale che, limitando di fatto la libertà dei cittadini, impediscono la effettiva partecipazione dei medesimi alla organizzazione economica del Paese. A questo proposito, chi abbia un minimo di esperienza di vita giudiziaria sa perfettamente quanto elevato sia il valore della c.d. «cifra oscura» 5 nell'ambito della punibilità in concreto dei delitti di usura, fenomeno da attribuirsi, non da ultimo, alla scarsa - per non dire inesistente - disponibilità delle vittime a collaborare con le competenti autorità, anche attraverso una semplice denunzia; ma è un dato di esperienza la constatazione che per l'usuraio la vittima può arrivare a provare una sorta di «gratitudine», ed in tale condizione (che potremmo definire di «sudditanza psicologica») la denunzia non solo si presenterebbe come un «tradimento» nei confronti di chi - sia pure a caro prezzo - è stato quasi un salvatore, ma precluderebbe altresì la possibilità di ricorrere ancora al prestito per risolvere una nuova urgenza che potrebbe presentarsi in futuro; non sono stati rari, inoltre, i casi in cui la vittima - non avendo più nulla da perdere (perché l'usuraio era riuscito ad impossessarsi di tutto il suo patrimonio) - si è determinata alla denunzia: ma questo a distanza di anni dalla promessa o dalla dazione, quando ormai la prescrizione era maturata, o prossima a compiersi 6.

La previsione normativa introdotta dal legislatore del 1996, sotto questo profilo, si propone appunto di fornire strumenti adeguati per una più efficace risposta punitiva da parte dello Stato al fenomeno dell'usura, facendo decorrere il termine utile per l'accertamento e la repressione del reato dal momento in cui viene a mancare la situazione di sudditanza del debitore nei confronti dell'usuraio: è a tale cessazione, infatti, che deve ricollegarsi la decorrenza del periodo di tempo oltre il quale lo Stato non ha più interesse alcuno alla repressione del fatto di reato 7.

Queste, almeno, sono le intenzioni; se l'obiettivo sarà stato raggiunto, «ai posteri l'ardua sentenza»...

Dal canto suo, la Cassazione, chiamata (per la prima volta) a confrontarsi con la previsione dell'art. 644 ter, risolve in poche righe la questione, osservando che «il tradizionale insegnamento giurisprudenziale (...) appare incompatibile con il rilievo oggi assegnato alla ultima riscossione degli interessi usurari». Sembra logicamente più convincente e condivisibile - prosegue la Corte - la prevalente 8 opinione dottrinale secondo cui, qualora alla promessa segua (...) la dazione effettiva, questa fa parte a pieno titolo del fatto lesivo penalmente rilevante e segna (...) il momento consumativo sostanziale del reato; una situazione non necessariamente assimilabile alla permanenza, ma configurabile secondo il duplice schema (...) del reato istantaneo, ovvero con riferimento alla struttura dei delitti c.d. a condotta frazionata o a consumazione prolungata».

L'estensore motiva tale assunto in base alla considerazione per cui sarebbe «distonico» (sic) sostenere l'estraneità alla struttura della fattispecie di reato della dazione degli interessi, nella quale è fuor di dubbio che si identifichi «la completa esecuzione del delitto ed il massimo approfondimento della concreta e progressiva lesione dell'interesse protetto».

Hic manebimus optime, avrà pensato l'estensore; onestamente, però, la motivazione appare decisamente carente e lacunosa proprio in ordine ad una problematica di teoria generale che a tutt'oggi costituisce uno dei settori meno limpidi del diritto penale, e la cui trattazione avrebbe dovuto essere condotta con un grado di approfondimento ben più elevato, come si addice ad un intervento che si propone di essere «nomofilattico».

Pare di capire che il ragionamento seguito dalla Cassazione sia, in buona sostanza, del seguente tenore:

a) non è corretto qualificare l'attività di riscossione degli interessi, successiva alla conclusione del pactum usurae, alla stregua di un post factum non punibile, dal momento che proprio in tale fase la lesione del bene giuridico tutelato raggiunge la sua massima intensità;

b) neppure può trattarsi di reato permanente (assunto, però, che la Corte lascia privo di dimostrazione);

c) non rimane, date le premesse, che concludere per l'inquadramento dell'usura nei c.d. reati «a consumazione prolungata».

Che dire? Di certo i giudici avranno avuto il pensiero (giustamente) rivolto a quelle difficoltà (che assurgevano a forme di ingiustizia) che la qualificazione della fattispecie di cui all'art. 644 c.p. quale reato istantaneo comportava, non soltanto con riferimento alla decorrenza dei termini prescrizionali, ma anche a proposito dell'impossibilità di procede-Page 884re all'arresto in flagranza (ex art. 381 c.p.p.) di chi venisse sorpreso nell'atto di riscuotere gli interessi.

Quanto al primo aspetto, il problema non ha più ragione di sussistere a seguito dell'intervento legislativo (di cui abbiamo già parlato), che ha «differito» la decorrenza della prescrizione a partire dal momento dell'ultima riscossione non soltanto degli interessi, ma anche del capitale; la scelta di far decorrere la prescrizione dalla riscossione del capitale ha una sua ratio, se si considera che solo da tale momento - ossia da quando è stato finalmente restituito tutto il dovuto - il soggetto passivo si libera dalla «morsa strangolatrice» in cui lo aveva stretto l'usuraio 9, e solo da tale momento egli può trovare il coraggio di portare la propria triste vicenda a conoscenza delle autorità.

Per ciò che attiene alla impossibilità di procedere all'arresto in flagranza, pur prendendone atto, non va dimenticato che il codice di rito prevede ulteriori strumenti restrittivi della libertà personale (con finalità di tutela preventiva e cautelare), che senza dubbio possono ritenersi applicabili all'ipotesi in esame: così, ad esempio, ricorrendo le condizioni generali di applicabilità delle misure e le esigenze cautelari di cui agli artt. 273 e 274 c.p.p. (fumus commissi delicti e periculum libertatis), è possibile adottare - nei confronti del soggetto sorpreso nell'atto di riscuotere gli interessi - una misura cautelare personale, ivi compresa la custodia in carcere (ex artt. 275, comma 3, e 285 c.p.p.); inoltre, ai sensi dell'art. 384 c.p.p., è consentito, anche al di fuori dello stato di flagranza, disporre il fermo della persona gravemente indiziata di un fatto di usura «aggravata» 10, allorché sussistano specifici elementi che fanno ritenere fondato il pericolo di fuga.

Da una attenta lettura della sentenza, inoltre, è agevole rendersi conto che l'obiettivo principale cui ha mirato la Corte nel proporre questo singolare inquadramento dogmatico è stato quello di risolvere una volta per tutte - ed in senso positivo - la questione della punibilità a titolo di compartecipazione criminosa (ex art. 110 ss.) di quei soggetti che, pur non avendo preso parte alla stipula del contratto usurario, siano intervenuti solo in un secondo momento, e precisamente durante la fase di riscossione degli interessi; problematica che sarà oggetto di indagini approfondite nella seconda parte di questo scritto.

Infine, a seguito della nuova previsione normativa per cui il limite oltre il quale gli interessi sono sempre considerati usurari è stabilito sulla base del tasso medio rilevato trimestralmente dal Ministero del tesoro (art. 2, commi 1 e 4, L. n. 108/96), è emerso il problema se, stipulato un mutuo con tasso di interesse di per sè non usurario, un successivo abbassamento del tasso-soglia possa far considerare usurario anche l'interesse precedentemente pattuito. A tale problema è stata fornita una soluzione che riteniamo semplice e chiara, in base...

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