Contrasti giurisprudenziali in ordine all'incidenza della modifica dell'art. 1 Della legge fallimentare sulle fattispecie di bancarotta

AutoreFrancesco Paolo Garzone
Pagine1070-1074

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@1. Premessa

- La sentenza sopra trascritta rivela in maniera significativa ed esemplificativa la difformità di orientamenti espressi dalla giurisprudenza di merito e di legittimità in ordine all'incidenza che la modifica dell'art. 1 R.D. 16 marzo 1942, n. 267 (di seguito L.F., legge fallimentare) circa le «imprese soggette al fallimento e al concordato preventivo» produce sulle fattispecie penali di cui agli artt. 216 ss. della citata legge.

Originariamente, infatti, l'art. 1 L.F. prevedeva che: «Sono soggetti alle disposizioni sul fallimento, sul concordato preventivo e sull'amministrazione controllata gli imprenditori che esercitano un'attività commerciale, esclusi gli enti pubblici e i piccoli imprenditori.

Sono considerati piccoli imprenditori gli imprenditori esercenti un'attività commerciale, i quali sono stati riconosciuti, in sede di accertamento ai fini dell'imposta di ricchezza mobile, titolari di un reddito inferiore al minimo imponibile. Quando è mancato l'accertamento ai fini dell'imposta di ricchezza mobile sono considerati piccoli imprenditori gli imprenditori eser-Page 1071centi un'attività commerciale nella cui azienda risulta essere stato investito un capitale non superiore a lire trentamila. In nessun caso sono considerati piccoli imprenditori le società commerciali».

Ne conseguiva che, secondo il costante orientamento giurisprudenziale e dottrinale1, la nozione di piccolo imprenditore sancita dall'art. 2083 c.c. era rilevante anche in materia fallimentare e che, tuttavia, essa non valeva per le società esercenti imprese commerciali, le quali dovevano ritenersi sempre esposte al fallimento e/o alle altre procedure concorsuali.

L'ambito soggettivo di queste ultime, però, veniva successivamente modificato, con decorrenza 16 luglio 2006, ad opera del D.L.vo 9 gennaio 2006, n. 5.

Nella versione risultante dalle modifiche apportate dall'art. 1 della predetta fonte normativa, infatti, l'art. 1 L.F. riduceva abbondantemente l'area di fallibilità delle imprese, introducendo alte soglie di investimento e/o di ricavi lordi («Sono soggetti alle disposizioni sul fallimento e sul concordato preventivo gli imprenditori che esercitano un'attività commerciale, esclusi gli enti pubblici ed i piccoli imprenditori. Ai fini del primo comma, non sono piccoli imprenditori gli esercenti un'attività commerciale in forma individuale o collettiva che, anche alternativamente: a) hanno effettuato investimenti nell'azienda per un capitale di valore superiore a euro trecentomila; b) hanno realizzato, in qualunque modo risulti, ricavi lordi calcolati nella media degli ultimi tre anni o dall'inizio dell'attività se di durata inferiore, per un ammontare complessivo annuo superiore a euro duecentomila») e - soprattutto - abolendo ogni distinguo inerente alle società, ossia l'esclusione delle stesse dal novero dei «piccoli imprenditori» sottratti alle precedenti concorsuali.

La disposizione in questione è stata, infine, modificata con decorrenza dall'1 gennaio 2008 anche dall'art. 1 del D.L.vo 12 settembre 2007, n. 169.

Nella versione attualmente in vigore l'art. 1 L.F. non contiene più alcun riferimento né alla qualifica di «piccoli imprenditori» («Sono soggetti alle disposizioni sul fallimento e sul concordato preventivo gli imprenditori che esercitano una attività commerciale, esclusi gli enti pubblici»: comma 1), né all'originaria esclusione da tale novero delle società («Non sono soggetti alle disposizioni sul fallimento e sul concordato preventivo gli imprenditori di cui al primo comma, i quali dimostrino il possesso congiunto dei seguenti requisiti:

a) aver avuto, nei tre esercizi antecedenti la data di deposito della istanza di fallimento o dall'inizio dell'attività se di durata inferiore, un attivo patrimoniale di ammontare complessivo annuo non superiore ad euro trecentomila;

b) aver realizzato, in qualunque modo risulti, nei tre esercizi antecedenti la data di deposito dell'istanza di fallimento o dall'inizio dell'attività se di durata inferiore, ricavi lordi per un ammontare complessivo annuo non superiore ad euro duecentomila;

c) avere un ammontare di debiti anche non scaduti non superiore ad euro cinquecentomila»; comma 2).

Ne consegue che, oltre alle imprese pubbliche, non possono più fallire tutte le imprese private che non hanno un'esposizione debitoria superiore a 300.000,00 euro e che, nei tre anni anteriori al deposito dell'istanza di fallimento, hanno avuto: un attivo patrimoniale non superiore ad euro 300.000,00 e ricavi lordi non superiori ad euro 200.000,00.

La drastica compressione dell'ambito soggettivo di fallibilità delle imprese fa sì che sia frequente nelle aule giudiziarie la trattazione dei riflessi che tali modifiche normative producono sulle fattispecie criminose fallimentari consumate in epoca precedente alla loro entrata in vigore.

All'orientamento più severo, significativamente evocato dalla sentenza in epigrafe, si contrappone, infatti, un filone giurisprudenziale incline ad attribuire rilevanza alle modifiche normative de quibus ai fini dell'applicazione dell'art. 2, comma 2, c.p.

La problematica, resa importante sotto il profilo pratico dalla sua frequente trattazione, riveste particolare rilievo anche sotto il profilo teorico poiché risveglia l'attenzione dell'interprete sulla (ampiamente trattata, eppure mai definitivamente sopita) questione della riconducibilità all'istituto della abolitio criminis di cui all'art. 2, comma 2, c.p. delle modifiche di norme extrapenali integrative del precetto penale e sollecita la riflessione del giurista sulla possibilità di coordinare in unità, sì da superare aleatorie incertezze processuali, il multiforme e variegato panorama disegnato in materia de qua dalla dottrina e dalla giurisprudenza.

@2. L'abolitio criminis: la ratio sottesa all'art. 2, comma 2, c.p.

- L'art. 2, comma 2, dispone che: «Nessuno può essere punito per un fatto che, secondo una legge posteriore, non costituisce reato; e, se vi è stata condanna, ne cessano l'esecuzione e gli effetti penali».

La norma introduce un principio speculare a quello della irretroattività nel tempo della legge penale, sancito dal primo comma della medesima disposizione2.

@3. La successione di norme extrapenali integratrici

- La riforma dell'art. 1 L.F. realizza una modifica di norma extrapenale integrativa delle fattispecie previste e punite dagli artt. 216 ss.della stessa legge.

Dottrina e giurisprudenza, tuttavia, condizionate dalla complessità del fenomeno di «integrazione» del precetto penale, non hanno ancora elaborato criteri chiari e condivisi da tutti per risolvere i delicati problemi di riconducibilità all'art. 2, comma 2, della successione di norme extrapenali integrative della norma incriminatrice, ovvero di quelle modifiche normative che (come nel caso di specie) non incidono direttamente sugli elementi costitutivi della fattispecie penale, bensì in maniera...

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