Giurisprudenza di merito

AutoreCasa Editrice La Tribuna
Pagine593-601

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@TRIBUNALE DI PISA 3 febbraio 2009, n. 111. Est. D’Auria - Imp. X

Abusivo esercizio di una professione - Ambito di applicazione - Compimento di atti tipici - Necessità - Esclusione - Compimento di atti relativamente liberi - Sufficienza - Fattispecie. Abusivo esercizio di una professione - Ambito di applicazione - Autore materiale del reato - Individuazione.

Ai fini della sussistenza del delitto di esercizio abusivo di una professione, non è necessario il compimento di una serie di atti propri o tipici, riservati a ciascuna professione, bensì è sufficiente anche il compimento di atti che, mancando di tale tipicità, possono essere compiuti da chiunque, anche se abbiano connessione con quelli professionali. (Il caso di specie riguardava il compimento da parte di un avvocato, sospeso dal competente Collegio dell’Ordine, di una attività che, sebbene non rientrante in sé negli atti tipici della professione di avvocato, tuttavia si è svolta sulla base di un vero e proprio mandato difensivo, rilasciato in maniera chiara ed inequivoca dai soggetti rappresentati). (C.p., art. 348) (1).

Commette il delitto di cui all’art. 348 c.p., non solo chi non sia in possesso della abilitazione dello Stato, ma anche chi non sia iscritto nel relativo albo o, dopo esservi stato iscritto, sia stato radiato o, come nel caso di specie, sospeso dall’esercizio professionale, atteso che l’attualità della abilitazione dall’esercizio (cfr. Legge professionale forense, art. 1) è presupposto dei requisiti di probità e competenza tecnica ritenuti necessari dalla legge. (C.p., art. 348) (2).

    (1, 2) Si rinvia alla esaustiva panoramica giurisprudenziale riportata in motivazione.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO E MOTIVI DELLA DECISIONE. - Con decreto del 25 gennaio 2008 X. veniva citato a giudizio innanzi a questo giudice monocratico per rispondere del reato indicato in epigrafe.

All’udienza del 16 settembre 2008 l’imputato avanzava ritualmente e tempestivamente richiesta di giudizio abbreviato ai sensi dell’art. 555, comma 2, c.p.p.; all’odierna udienza, all’esito della discussione, le parti hanno concluso come da verbale.

Ritiene il tribunale che il complessivo esame degli atti consenta di poter affermare con tranquillizzante certezza la penale responsabilità dell’imputato. I fatti nella loro materialità sono pacifici: all’X. in data 2 settembre 2003 veniva notificata la sanzione disciplinare della sospensione dell’esercizio della professione forense per la durata di mesi quattro, dunque fino al 2 ottobre 2004 (cfr. comunicazione del Consiglio nazionale forense in atti); in data 8 settembre 2003, su carta intestata l’imputato depositava presso l’Ufficio immigrazione della Questura di Pisa una nomina a difensore, rilasciatagli da Y., atto nel quale quest’ultimo gli conferiva tutte le facoltà inerenti al mandato, ivi compresa quella di richiedere informazioni in relazione alla domanda di rinnovo del permesso di soggiorno, richiesta che veniva poi sollecitata il 15 ottobre 2003; in data 16 settembre 2003, inoltre, sempre su carta intestata, l’X. presentava al Giudice di pace di Pisa, quale difensore di Z., ricorso avverso il verbale di contestazione amministrativa del 7 agosto 2003.

Sostiene il difensore che per entrambe le ipotesi in contestazione i fatti non sarebbero assumibili sotto la fattispecie di cui all’art. 348 c.p., in quanto non si tratterebbe di atti cosiddetti tipici, cioè propri della professione di avvocato, ma di atti che possono essere compiuti da chiunque, anche se abbiano qualche connessione con quelli professionali: invero, la richiesta di informazione presso gli uffici della questura non richiede una siffatta abilitazione; analogamente deve dirsi per la presentazione del ricorso al giudice di pace, atteso che ai sensi dell’art. 23 della legge n. 689/81 colui che si oppone all’ordinanza-ingiunzione di pagamento può stare in giudizio personalmente ovvero ai sensi dell’art. 317 c.p.c. (quest’ultima norma è dettata con specifico riferimento ai procedimenti davanti al giudice di pace) può farsi rappresentare da persona munita di mandato scritto, senza necessità che il mandatario sia abilitato all’esercizio della professione forense.

Tanto premesso in fatto, ritiene il giudice che sia opportuna qualche breve considerazione in punto di diritto per inquadrare la fattispecie di cui si discute, prima di passare all’esame del caso concreto portato all’esame dello scrivente.

Va innanzitutto posto in evidenza che l’art. 348 c.p. ha natura di norma penale in bianco, che presuppone l’esistenza di altre disposizioni di legge che stabiliscano le condizioni oggettive e soggettive in difetto delle quali non è consentito - ed è quindi abusivo - l’esercizio di determinate professioni (quelle per cui occorre l’abilitazione statale): trattasi propriamente di altre disposizioni che, essendo sottintese nell’art. 348 c.p., sono integrative della norma penale ed entrano a far parte del suo contenuto, cosicché la violazione di esse si risolve in violazione della norma incriminatrice.

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È inoltre insegnamento ormai costante della Suprema Corte quello secondo cui, ai fini della sussistenza del delitto di esercizio abusivo di una professione, non è necessario il compimento di una serie di atti riservati ad una professione per la quale sia richiesta una particolare abilitazione, ma è sufficiente anche il compimento di un solo atto (cfr. da ultimo Cass. pen., sez. VI, 10 ottobre 2007 n. 42790, P.G. in proc. Galeotti). Controversa è invece la questione se la norma in esame tuteli esclusivamente gli atti cosiddetti propri o tipici, riservati a ciascuna professione, ovvero anche gli atti che, mancando di tale tipicità, possono essere compiuti da chiunque, anche se abbiano connessione con quelli professionali. A fronte di un indirizzo maggioritario che ritiene integrato l’esercizio abusivo della professione solo in presenza del compimento di atti propri riservati a ciascuna professione (cfr., Cass. pen., sez. VI, 24 ottobre 2005, n. 7564, Palma Proietti; Cass. pen., sez. VI, 3 marzo 2004, n. 17702, Bordi; Cass. pen., sez. VI, 11 maggio 1990, n. 11794, Mancaniello), invero, si registra un diverso e minoritario orientamento, propenso a ritenere rilevanti, ai fini della configurabilità del reato di cui all’art. 348 c.p., non solo gli atti riservati, in via esclusiva, a soggetti dotati di speciale abilitazione, ma anche quelli strumentalmente connessi agli atti tipici della professione, a condizione che vengano compiuti in modo continuativo e professionale, in quanto, anche in questa seconda ipotesi, si ha esercizio della professione per la quale è richiesta l’iscrizione nel relativo albo (cfr. Cass. pen., sez. VI, 5 luglio 2006, n. 26829, Russo ed altro; Cass. pen., sez. VI, 8 ottobre 2002, n. 49, Notaristefano).

Quanto all’elemento psicologico, esso è richiesto dalla legge a livello di mero dolo generico. Ai fini della configurabilità del reato di abusivo esercizio di una professione, pertanto, è irrilevante l’eventuale scopo di lucro e, in genere, qualsiasi movente di carattere privato; sicché, la consapevole mancanza di titolo abilitativo all’esercizio di tale professione, integra il dolo generico richiesto per la sussistenza del reato, ancorché l’abusiva prestazione professionale sia stata del tutto gratuita e con il concorrente consenso del destinatario di tale prestazione (cfr. Cass. pen., sez. II, 22 agosto 2000, n. 10816, Magaddino). Su quest’ultimo punto, invero, deve rilevarsi che titolare dell’interesse protetto dalla norma penale è solo lo Stato, per cui l’eventuale consenso del privato è del tutto irrilevante ex art. 50 c.p. (cfr. Cass. pen., sez. VI, 8 ottobre 2002, n. 49, Notaristefano).

Va altresì messo in evidenza che si ha esercizio abusivo della professione anche quando il soggetto, benché originariamente abilitato all’esercizio e iscritto nell’albo, si trovi attualmente sospeso dall’esercizio della professione (cfr. Cass. pen., sez. VI, 15 febbraio 2007, n. 20439, Pellecchia; Cass. pen., sez. VI, 4 luglio 2003, n. 33095, P.G. in proc. Longo; Cass. pen., sez. VI, 9 novembre 1995, n. 2066, Torregrossa). Ed invero, commette il delitto di cui all’art. 348 c.p., non solo chi non sia in possesso della abilitazione dello Stato, ma anche chi non sia iscritto nel relativo albo o, dopo esservi stato iscritto, sia stato radiato o, come nel caso che qui occupa, sospeso dall’esercizio professionale, atteso che l’attualità della abilitazione all’esercizio (cfr. Legge professionale forense, art. 1) è presupposto dei requisiti di probità e competenza tecnica ritenuti necessari dalla legge.

Orbene, venendo più specificamente alla fattispecie concreta portata all’esame del tribunale, deve essere posto in risalto che in entrambe le ipotesi asserite all’X l’attività di questi posta in essere, per quanto in sé non rientrante negli atti tipici della professione di avvocato, si è svolta sulla base non di un generico mandato, ma di un vero e proprio mandato difensivo, rilasciato in maniera chiara ed inequivoca dai soggetti rappresentati. Inoltre, per fugare ogni eventuale dubbio, giova evidenziare che in entrambi gli atti è rinvenibile l’autentica della forma, atto questo tipico riservato alla professione di avvocato.

Nemmeno su questo specifico punto risulta condivisibile il percorso logico argomentativo seguito dalla difesa, secondo il quale l’attività di autentica della firma, pur essendo atto tipico dell’avvocato, nel caso di specie non rileverebbe, in quanto del tutto ultronea, nel senso che - non essendo necessaria ai fini dello svolgimento delle attività in contestazione - sarebbe del tutto inutile.

Ritiene viceversa il tribunale che proprio la circostanza per cui l’autentica della forma era ultronea rispetto allo scopo dimostra che l’imputato volle agire nella formale qualità di difensore, altrimenti davvero non avrebbe avuto senso il rilscio di un mandato difensivo con tanto di forma autenticata.

Militano a favore di tale...

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