Giurisprudenza di merito

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@CORTE DI APPELLO DI NAPOLI Sez. VI, 19 ottobre 1999. Pres. Ingala - Est. Provitera - Imp. Bottiglieri.

Invasione di terreni o edifici - Momento consumativo del reato - Introduzione nel fondo o nell'edificio - Natura del reato - Istantanea - Configurabilità.

Il delitto di cui all'art. 633 c.p. (invasione arbitraria di terreni o edifici) riveste i caratteri del reato necessariamente istantaneo, poiché il momento dell'occupazione, o del «trarne altrimenti profitto», attenendo al conseguimento della finalità che deve animare la condotta di invasione, la postula già consumata. (C.p., art. 633) (1).

    (1) Contra, nel senso che il delitto de quo integra un reato permanente, v. Cass. pen., sez. II, 5 settembre 1991, Iafrate, in questa Rivista 1992, 242; Cass. pen., sez. II, 16 marzo 1990, Martino, ivi 1991, 89; Cass. pen., sez. V, 30 giugno 1988, D'Amore, ivi 1989, 418; Cass. pen., sez. II, 6 ottobre 1987, Martino, ivi 1988, 771; Cass. pen., sez. II, 26 settembre 1984, Mattia, in Rep. La Tribuna 1986, 749 e Cass. pen., sez. III, 26 gennaio 1983, Columpsi, ivi 1984, 865. Nel senso invece che il reato in oggetto può rivestire il carattere istantaneo o permanente a seconda che l'attività criminosa si esaurisca in un'unico contesto o si protragga nel tempo, v. Cass. pen., sez. II, 17 dicembre 1986, Bellassai, in questa Rivista 1987, 882; Cass. pen., sez. II, 11 aprile 1981, Azzarone, ivi 1981, 643 e Cass. pen., sez. II, 18 febbraio 1981, Di Sciuva, ivi 1981, 445. In dottrina, v. F. GIANNELLI, Sulla natura del delitto di cui art. 633 c.p., in Il nuovo dir. 1988, 662.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO E MOTIVI DELLA DECISIONE. - Con rituale e tempestivo atto, il P.G. proponeva appello avverso la sentenza in epigrafe specificata.

Deduceva l'appellante che il reato de quo ha natura permanente; che la permanenza non può mai andare oltre la sentenza di primo grado; che l'ulteriore prosecuzione del comportamento illecito - dopo tale momento - è punibile a titolo di nuovo reato; infine, che l'eventuale continuazione tra il reato già giudicato e quello in esame ben poteva essere applicata, senza alcuna contestazione, non essendo attinente il riferimento all'art. 517 c.p.p. Chiedeva pertanto, in riforma dell'impugnata sentenza, la condanna dell'imputato.

All'odierna udienza il prevenuto rimaneva contumace; indi, sulla lettura degli atti consentiti, P.G. e difensore concludevano come da verbale.

Osserva il Collegio che non può essere condivisa la natura permanente, attribuita al reato in esame.

Non si ignora che, a parte una oltremodo remota pronunzia (Cass. 12 aprile 1939, Giust. pen. 1941, II, 471), la giurisprudenza della S.C. è ormai univoca e consolidata sul punto; tuttavia non si ritiene di poter concordare con tale orientamento, prendendo le mosse dall'analisi della ratio, dell'origine storica e collocazione sistematica del delitto di cui all'art. 633 c.p., nonché dall'esegesi della sua formulazione.

Il delitto di invasione di terreni od edifici era sconosciuto al Codice Zanardelli e venne introdotto per la prima volta nell'ordinamento italiano con il R.D.L. 22 aprile 1920, n. 515, poi trasfuso nell'art. 633 del vigente codice penale.

Con detta incriminazione, che rispondeva ad intensa esigenza ideologica dell'epoca, si volle por freno alle gravissime agitazioni dei reduci e delle classi più diseredate, che seguirono al cessare del primo conflitto mondiale.

La centralità assoluta del diritto di proprietà, specie terriero, e la allora nemmeno immaginabilità dei diritti di libertà, che solo con lo Stato repubblicano e costituzionale subentreranno, fecero collocare la norma - coerentemente - nel Capo I del Titolo XIII del codice penale, dedicato ai delitti contro il patrimonio mediante violenza alle cose od alle persone.

Dispone l'articolo in esame, così da allora giunto a noi: «Chiunque invade arbitrariamente terreni od edifici altrui, pubblici o privati, al fine di occuparli o di trarne altrimenti profitto, è punito. . .»; tale formulazione - letterale e concettuale - del delitto de quo prevede, quale condotta materiale, l'invasione, la quale deve essere finalizzata all'occupazione dell'immobile, ovvero al conseguimento di un diverso profitto.

La condotta repressa è, quindi, quella della arbitraria invasione del bene immobile altrui («altruità» intesa in senso lato, come diritto di godere della materialità del possesso), mentre l'elemento psicologico è costituito dal dolo specifico (perché il fine rimane esterno alla condotta) di occupare il detto bene ovvero di trarne altrimenti profitto.

Orbene, attenendo l'occupazione, che in concreto si verifichi, o il diverso profitto, che comunque si ottenga, al conseguimento della finalità posta a base della condotta di invasione, a parere del Collegio, non può che definirsi istantaneo il reato de quo, la cui consumazione si perfeziona e si esaurisce con l'introduzione nel fondo o nell'edificio. Il conseguimento della finalità non può, infatti, rilevare quoad consummationem, altrimenti il dolo (proiezione della condotta cosciente e volontaria verso l'evento) si proietterebbe ben al di là della condotta e della consumazione.

Per dirimere ogni dubbio è sufficiente il confronto con la formulazione - sostanzialmente analoga nella struttura semantica - dell'art. 624 c.p., laddove la condotta rilevante, ai fini della consumazione di detto reato, è quella dell'impossessamento della cosa altrui, con sottrazione al detentore e giammai il conseguimento del profitto; infatti, diversamente opinando ed applicando al reato ex art. 624 c.p. la dominante opinione in ordine al reato di cui all'art. 633 c.p., si giungerebbe alla assurda conclusione che il delitto di furto non potrebbe dirsi consumato, se non a seguito del conseguimento del profitto (ad esempio: vendita della cosa rubata).

Va, inoltre, notato che l'elemento «occupazione» (sul quale viene fondata la tesi della permanenza) rimane del tutto eventuale, ben potendo la condotta dell'agente essere diretta all'ottenimento di un profitto di tutt'altra natura.

Né vale obiettare che, una volta ritenuta la natura istantanea del reato de quo, verrebbe menomata la tutela del di-Page 1118 ritto di proprietà, pubblica o privata, atteso che l'ordinamento positivo appresta comunque i mezzi necessari ed opportuni (non solo in sede civile, ma anche in quella penale, come ad esempio gli artt. 55 e 321 c.p.p.) per disporre lo sgombero dell'invasore, il quale è privo di qualunque titolo per l'occupazione.

Ciò posto, poiché il Bottiglieri è stato già condannato - come evidenziato in prime cure - con sentenza del Pretore di Napoli-Barra in data 30 marzo 1995, divenuta irrevocabile il 16 maggio 1995, per il medesimo fatto, commesso il 21 gennaio 1993, non può che confermarsi la declaratoria di improcedibilità dell'azione penale ai sensi dell'art. 649 c.p.p., rimanendo del tutto ultronea l'ulteriore questione sollevata in merito all'art. 517 c.p.p. (Omissis).

@CORTE DI ASSISE DI BELLUNO 11 giugno 1999. Pres. Coppari - Est. Ciriotto - Imp. Faoro.

Reato - Cause di giustificazione - Difesa legittima - Putativa - Configurabilità - Criteri - Individuazione.

La legittima difesa putativa può ritenersi configurata se ed in quanto l'erronea opinione della necessità di difendersi sia fondata su dati di fatto concreti tali da giustificare nell'animo dell'agente la ragionevole convinzione di trovarsi in una condizione di pericolo, convinzione che peraltro deve trovare adeguata correlazione nel complesso delle circostanze obiettive in cui l'azione della difesa venga ad estrinsecarsi e senza che, in mancanza di dati di fatto concreti, l'esimente putativa possa ricondursi ad un criterio meramente soggettivo. (C.p., art. 52).

(Omissis). MOTIVI DELLA DECISIONE. - Si deve anzitutto rilevare che non si pone nel caso in esame il problema della ricerca delle prove per dimostrare la riferibilità materiale dei fatti rubricati all'imputato poiché sia le dichiarazioni confessorie dell'imputato sia l'immediata constatazione dell'omicidio e l'arresto in flagranza di Faoro Franco, attinto da inequivoci e inconfutabili elementi di prova, non lasciano dubbi sull'individuazione dell'autore materiale del reato contestato.

Ciò non di meno pare assolutamente indispensabile, allo scopo di riscontrare la tesi avanzata dalla Difesa sulla affermata sussistenza della situazione di legittima difesa putativa, procedere alla ricostruzione del fatto omicidiario mettendo in rilievo quelli che sono i punti fermi della vicenda, ampiamente sufficienti a permettere la ricostruzione dei fatti nelle loro linee essenziali e nei limiti che interessano il giudizio penale.

Orbene, secondo quanto emerge dalle risultanze dei dati di sopralluogo, dalle dichiarazioni per quello che possono essere utilizzate dell'omicida, dai risultati della necroscopia e dagli accertamenti ematologici nonché dalla ricostruzione fornita dal prof. Maurri, il fatto omicidiario si è sviluppato secondo le seguenti fasi in un crescendo di violenza inaudita che può così essere riassunto. Padre e figlio seduti sullo stesso lato del tavolo della cucina per pranzare, Adamo seduto alla destra di Franco proprio di fronte al televisore, iniziano a litigare; è impossibile dire quale sia stata la causa o meglio la scintilla che ha scatenato il diverbio facendolo inaspettatamente degenerare in violenza omicida come allo stesso modo - ma su ciò si ritornerà più avanti - per nulla dimostrata appare l'affermata ricorrenza di una oggettiva provocazione dell'anziano Faoro Adamo nei confronti del figlio.

L'unica cosa certa è che vi fu una discussione, uno scambio di battute, una contesa verbale ancorché nulla possa esprimersi con certezza sul motivo, sull'antecedente che fece trapassare una discussione nel sanguinoso e irripetibile fatto omicidiario di cui è processo; non si sa se a scatenare la pulsione emotiva di Faoro Franco fu l'impellente bisogno di rientrare nella casa di Piei, privo com'era ormai di pensione e...

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