Giurisprudenza di merito

AutoreCasa Editrice La Tribuna
Pagine723-731

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@CORTE DI APPELLO DI NAPOLI Sez. VI, 9 maggio 2000, n. 3742. Pres. Ingala - Est. Giannelli - Imp. Cassese ed altro.

Pena - Pene accessorie - Pena ex art. 31 c.p. - Estensibilità al concorrente estraneo - Esclusione - Fattispecie.

Attraverso un'indagine critica del combinato disposto degli artt. 20 e 110 c.p., ed un'indagine sistematica del combinato disposto degli artt. 1081, comma 2, c.n., 14, comma 2, c.p.m.p., 59, comma 2, 117 e 118 c.p., si conclude che la pena accessoria di cui all'art. 31 c.p. non è estensibile al concorrente extraneus, trattandosi di una pena accessoria connessa ad una particolare qualità. (Nella specie si è escluso che potesse essere estesa la pena accessoria di cui al combinato disposto degli artt. 28, 31, 37, 349, comma 2, c.p. al concorrente non nominato custode). (C.p., art. 31) (1).

    (1) Non constano editi precedenti nei medesimi termini. Di particolare interesse, in motivazione, la configurazione, incidenter tantum, dell'art. 117 c.p. quale disposizione di favore, affrancandola dalle opinioni che ne vorrebbero fare un caso di responsabilità oggettiva sulla base di una pretesa deroga dell'art. 47, secondo comma, c.p.; deroga negata, di recente, dalla S.C. con decisione citata in parte motiva.


SVOLGIMENTO DEL PROCESSO E MOTIVI DELLA DECISIONE. - Avverso la suddetta decisione interposero appello il difensore dell'imputato Cassese Nicola ed il P.G. presso questa Corte.

Il difensore, con un primo motivo, in rito, si dolse della nullità dell'estratto contumaciale, per irrituale notifica di quell'atto; con un secondo motivo, sempre di natura procedurale, lamentò la nullità del decreto di citazione a giudizio, ancora sotto il profilo della irrituale notifica.

Nel merito, chiese l'assoluzione del Cassese dalle imputazioni sub A), B) e C) perché il fatto non sussiste, trattandosi di soppalchi, non necessitanti, in quanto tali, di concessione edilizia; chiese l'assoluzione del proprio assistito per non aver commesso il fatto dalla imputazione di cui all'art. 349, secondo comma, c.p., non apparendo verosimile che il Matarazzo, si fosse sentito in dovere di avvertire il Cassese dell'avvenuta apposizione di sigilli.

In estremo subordine la Difesa chiese una riduzione della pena inflitta, previa concessione di giudizio di prevalenza delle già concesse attenuanti generiche sull'aggravante contestata.

La Procura Generale della Repubblica presso questo giudice ad quem lamentò la mancata applicazione, quanto ad entrambi gli imputati, della pena accessoria dell'interdizione dai pubblici uffici ai sensi dell'art. 31 c.p.

Quanto alle eccezioni in rito sollevate dalla Difesa del Cassese, la prima è infondata, disponendo, l'art. 183, lettera b), c.p.p., che le nullità sono sanate se la parte si è avvalsa della facoltà al cui esercizio l'atto omesso o nullo è preordinato (nella specie, è stato interposto l'appello); la seconda è intempestiva, secondo il combinato disposto degli artt. 555, 181, terzo comma, 491, primo comma, c.p.p.

Nel merito, ed in riforma della sentenza impugnata, il Cassese dev'essere assolto per insussistenza del fatto dai reati sub A), B) e C): dalla deposizione del teste Di Martino, che chiarisce in dibattimento il contenuto del verbale di sequestro redatto in data 13 novembre 1992, si evince che l'imputato pose in essere tre soppalchi, manufatti che, per ormai consolidata giurisprudenza, non integrano, in senso tecnico, la «costruzione» di cui all'art. 1 della legge 28 gennaio 1977, n. 10.

La decisione gravata va, invece, confermata quanto alla condanna per il delitto di violazione di sigilli: il Matarazzo, nominato custode, non era tanto «lontano dagli interessi del Cassese», come si sostiene dalla Difesa, in quanto era socio. In tale situazione è naturale che l'impulso alla prosecuzione dei lavori sia avvenuto tramite una previa intesa tra il Cassese ed il Matarazzo, alla luce della situazione venutasi a creare con l'apposizione di sigilli.

La sostanza di tale delitto rimane, pur sempre, una prosecuzione di lavori inibiti con i sigilli, e, quindi, in spreto alla disciplina di un delicato settore della vita sociale qual è quello dell'edilizia: non si ritiene, pertanto, errata l'operazione ex art. 69 c.p. come effettuata dal primo giudice che, d'altra parte, in quei limiti, ha applicato il minimo possibile della pena.

L'appello della Procura Generale va accolto quanto alla doglianza dell'omessa applicazione della pena accessoria di cui all'art. 31 c.p. a Matarazzo Salvatore, che risulta, agli atti, essere stato nominato custode giudiziario.

Essendo stata applicata la pena principale di mesi sei di reclusione e lire seicentomila di multa, letti gli artt. 28, 31, 37 e 135 c.p., la pena accessoria di cui si tratta deve essere determinata in anni uno.

Non ritiene, questa Corte, di poter estendere la pena accessoria in esame all'imputato Cassese Nicola, mai nominato custode giudiziario.

In verità, il tema è molto dibattuto in dottrina. La prospettiva deve essere, per forza di cose, di portata sistematica molto vasta.

Il «primo passo» è la lettura dell'art. 20 c.p.: «Le pene principali sono inflitte dal giudice con sentenza di condanna; quelle accessorie conseguono il diritto alla condanna, come effetti penali di essa».

La disposizione di cui sopra, vista in parte qua, secondo le intenzioni dei compilatori del nostro codice, fonderebbe il principio, o, se si vuole, il dogma, dell'automaticità più assoluta in materia di pene accessorie. E il principio dell'unitarietà (la tesi monistica) in tema di concorso di persone nel reato, secondo parte della dottrina, «farebbe il resto», in quanto la norma estensiva di cui all'art. 110 c.p. (le altre sono costituite dagli artt. 56, 87 e 360 c.p.) sarebbe riferita alla pena principale, ed a quella che il principio suddetto le affianca, la pena accessoria (identiche considerazioni - ma, anche qui, la disputa è accesa - valgano per il problema dell'applicabilità della pena accessoria al delitto tentato, possibilità sempre affermata dal Supremo Collegio,Page 724 che, a dire il vero, afferma con eguale tenacia il principio dell'autonomia del delitto tentato).

Ma ben si è notato che l'art. 20 c.p., nel nostro, concreto, sistema, incontra più deroghe che applicazioni.

Ed, invero, il campo dell'automaticità è limitato, ovviamente, da quello della discrezionalità del giudice nell'an, nel quantum, nel quomodo (cfr. Cass., sez. V, 26 febbraio 1976, Giust. pen., 1976, II, 673, 708; Cass. pen., Mass. ann., 1977, 1138; sez. I, 29 novembre 1977, ivi 1978, 1939; sez. III, 28 dicembre 1978, ivi 1980, 1313; sez. I, 19 gennaio 1985, Mass. uff. 1985, 168396; sez. V, 24 maggio 1985, Giust. pen., 1986, III, 358). Ed il campo della discrezionalità è, ovviamente, quello della necessaria motivazione.

A quest'ultimo riguardo, il Supremo Collegio, negando un obbligo di motivazione in tema di pene accessorie, «essendo le pene accessorie un effetto automatico della condanna» (Cass., sez. V, 7 marzo 1984, Riv. pen., 1985, 211; sez. V, 12 giugno 1984, n. 5400) (nel senso della mancanza di previa contestazione in tema di pene accessorie, sempre sulla base dell'art. 20 c.p.: Cass., sez. V, 1 marzo 1984, Cass. pen., 1985, 1903) può essere seguito solo con una sorta di...

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