Giurisprudenza di merito

AutoreCasa Editrice La Tribuna
Pagine391-413

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@CORTE DI APPELLO DI PERUGIA 21 gennaio 2002, n. 860. Pres. ed est. Verrina - Imp. Maccarelli e Drappo.

Imputato - Dichiarazioni - Oggetto di testimonianza - Divieto di testimonianza sulle dichiarazioni dell'indagato - Ambito di applicazione - Dichiarazioni rese nel corso di ispezioni amministrative - Sussistenza.

Sono inutilizzabili, per violazione dell'art. 62 c.p.p., le dichiarazioni rese senza garanzie difensive ad ispettori del lavoro nel corso di indagine amministrativa su un fatto costituente reato di truffa in danno dell'Inps per indebita percezione del trattamento di mobilità da parte di lavoratrice dipendente. (C.p.p., art. 62; c.p., art. 110; c.p., art. 640) (1).

    (1) La sentenza in epigrafe segue l'indirizzo minoritario espresso da Cass. pen., sez. I, 29 agosto 2001, Busatta, in C.E.D., Archivio penale, RV 219703 secondo cui: «Il divieto di testimonianza sulle dichiarazioni dell'imputato o dell'indagato (art. 62 c.p.p.) riguarda anche le dichiarazioni rese, dalla persona poi sottoposta alle indagini, nel corso di un'attività amministrativa (ispettiva o di vigilanza), atteso che l'art. 220 att. c.p.p. estende la portata anche in presenza di semplici indizi di reato, non richiedendosi l'esistenza di veri e propri indizi di colpevolezza. (In applicazione di tale principio la Corte ha annullato la sentenza dei giudici di merito, fondata sulla deposizione testimoniale resa da un vigile urbano, il quale riferiva di fatti appresi - con ogni probabilità - dallo stesso imputato, nel corso di un'indagine ispettiva). Nel senso, invece, che il divieto previsto dall'art. 62 c.p.p. presupponendo che le dichiarazioni stesse siano state rese nel corso del procedimento, e non anteriormente o al di fuori di esso, non opera in quest'ultima ipotesi «assumendo la testimonianza, nel suo contenuto specifico, valore di fatto storico percepito dal teste e, come tale, valutabile dal gudice alla stregua degli ordinari criteri applicabili a detto mezzo di prova», v. Cass. pen., sez. I, 25 luglio 1996, Panaro, in questa Rivista 1996, 95. V., inoltre, la citata sentenza Corte cost. 13 maggio 1993, n. 237, in Arch. nuova proc. pen. 1993, 378.


SVOLGIMENTO DEL PROCESSO. - Con sentenza emessa in data 14 marzo 2001 il Tribunale di Perugia - sezione distaccata di Città di Castello dichiarava Maccarelli Franco e Drappo Dina colpevoli del reato di cui agli artt. 110, 640, primo e secondo comma, n. 1 c.p. e, concesse ad entrambi le circostanze attenuanti generiche e la circostanza attenuante comune del risarcimento del danno, ritenute equivalenti alla contestata circostanza aggravante, condannava ciascuno dei predetti imputati alla pena di sei mesi di reclusione e di lire centomila di multa, nonché al pagamento delle spese processuali, con i doppi benefici di legge.

Quel tribunale motivava la sentenza di condanna osservando che la responsabilità penale degli imputati era deducibile dalle dichiarazioni rese dal teste Piano Francesco, ispettore del lavoro, il quale nel corso di un accertamento effettuato, il 17 febbraio del 1995, presso la ditta del Maccarelli, aveva potuto constatare che Drappo Dina svolgeva attività di lavoro dipendente per il predetto pur essendo in mobilità; circostanza, questa, nota anche al datore di lavoro. Tali circostanze erano state riferite dagli imputati e trascritte dal verbalizzante. La lavoratrice percepiva, allora, una retribuzione dall'effettivo datore di lavoro, Maccarelli, e l'indennità di mobilità dell'Inps; questo risultato era stato raggiunto perché la posizione della dipendente presso la «Ceramiche Maccarelli Franco» Srl non era stata regolarizzata. Non poteva, pertanto, revocarsi in dubbio - argomentava il tribunale - che fosse configurabile, oggettivamente e soggettivamente, il contestato reato di truffa, giacché gli imputati avevano, in concorso tra loro, contribuito alla determinazione dell'evento (indebita erogazione dell'indennità di mobilità da parte dell'Inps, per i mesi di dicembre 1994 e febbraio 1995, nella misura di lire 2.995.290). Doveva, peraltro, ritenersi infondata - concludeva quel tribunale - l'eccezione, formulata dalla difesa, di inutilizzabilità delle dichiarazioni rese dai due imputati e verbalizzate dall'ispettore del lavoro, ai sensi dell'art. 62 c.p.p., giacché il divieto di testimoniare sulle dichiarazioni dell'imputato, previsto dalla norma de qua, essendo diretto ad assicurare la inutilizzabilità di quanto «raccolto» al di fuori degli atti garantiti dalla presenza del difensore e pervenuto attraverso la testimonianza di chi abbia ricevuto le dichiarazioni de quibus in qualsiasi maniera, presuppone che le stesse siano state rese nel corso del procedimento e non, come nella specie, anteriormente o al di fuori del medesimo e, cioè, nell'ambito dell'attività amministrativa. Avverso la predetta sentenza proponeva appello il difensore degli imputati, il quale eccepiva preliminarmente:

a) la nullità dell'impugnata sentenza per violazione dell'art. 333, terzo comma c.p.p., in relazione all'art. 13 Cost., giacché gli accertamenti dell'ispettore del lavoro erano stati effettuati a seguito di denuncia anonima;

b) la nullità dell'impugnata sentenza, ai sensi degli artt. 178, lett. c), 179, 191, 62, 63 c.p.p., 220 att. c.p.p., in quanto il giudizio di colpevolezza era stato fondato esclusivamente sulla testimonianza resa dall'ispettore del lavoro sulle dichiarazioni rese dagli odierni imputati, senza l'assistenza del difensore. Nel merito l'appellante chiedeva che l'adita Corte assolvesse gli imputati dal reato loro ascritto, perché il fatto non sussiste per mancanza degli estremi obiettivi del reato (condotta ed evento), o, comunque, con altra formula ampiamente liberatoria.

In via subordinata l'appellante chiedeva: a) che fosse applicata la più lieve sanzione prevista dall'art. 16, terzo comma D.L.vo L.gt. 788/45 e che, in caso contrario, fosse sollevata questione di legittimità costituzionale dell'art. 640, secondo comma, n. 1 c.p. nella parte in cui prevede, in caso di indebita percezione dell'indennità di mobilità, la pena della reclusione da uno a cinque anni e della multa da lire seicentomila a lire tre milioni, anziché quella della multa da lire un milione a lire cinque milioni; b) che la pena inflitta dal primo giudice fosse, comunque, ridotta e contenuta nei minimi edittali, previa concessione delle circostanze attenuanti generiche e della circostanza attenuante comune del risarcimento del danno. In data 27 novembre 2001 venivano depositati in cancelleria, ai sensi dell'art. 585, quarto commaPage 392 c.p.p., dei motivi nuovi con i quali erano sostanzialmente ribaditi i motivi di gravame già proposti.

All'udienza del 18 dicembre 2001, svolta la relazione da parte del Presidente del Consiglio, dott. Gabriele Lino Verrina, il procuratore generale della Repubblica e la difesa concludevano nei termini di cui al verbale di dibattimento.

MOTIVI DELLA DECISIONE. - Con il primo motivo l'appellante eccepisce la nullità dell'impugnata sentenza per violazione dell'art. 333, terzo comma c.p.p., in relazione all'art. 13 Cost., giacché gli accertamenti dell'ispettore del lavoro, Piano Francesco, furono effettuati a seguito di denuncia anonima. Orbene, tale motivo di gravame è giuridicamente infondato. Se è vero, infatti, che, ai sensi del terzo comma della norma de qua, «delle denunce anonime non può essere fatto alcun uso, salvo quanto disposto dall'art. 240 (att. 108; reg. 5), è, altresì, inconfutabile che è riconosciuto al pubblico ministero ed alla polizia giudiziaria, con espressa disposizione che ha superato ogni possibile discussione sul punto (cfr. P. FERRUA-M. NOBILI-G. TRANCHINA, Uffici del pubblico ministero ed iniziative di ricerca delle notizie di reato, in L.P. 1986, 313 ss.), il compito di prendere notizia dei reati anche di propria iniziativa e di svolgere, quindi, un'attività diretta a tal fine. Ma se così è, appare evidente che di tale attività, pre-procedimentale e meramente conoscitiva, può costituire utile spunto o traccia un'informazione anche anonima; e in base alle indicazioni in essa contenute può essere ricercata ed appresa una notitia criminis, ma è soltanto questa (e non l'anonimo) che è idonea a determinare l'instaurazione del procedimento penale ed a legittimare le indagini preliminari (cfr. sull'argomento, P. FERRUA, L'iniziativa del pubblico ministero nella ricerca della notitia criminis, in L.P. 1976, 317 ss.; G. ILLUMINATI, Una deludente pronuncia in materia di delazioni anonime, in Riv. it. dir. proc. pen. 1976, 1044 ss.; G.P. VOENA, Corte costituzionale e denunce anonime, in Giur. cost. 1976, 1605 ss.; P.M. CORSO, Notizie anonime e processo penale, Padova 1977). Con il secondo e decisivo motivo l'appellante eccepisce la «nullità dell'impugnata sentenza», ai sensi degli artt. 178, lett. c), 179, 191, 62, 63 c.p.p., 220 att. c.p.p. ed a tal uopo deduce che il giudizio di colpevolezza ha trovato la sua unica ragion d'essere nella testimonianza resa dall'ispettore del lavoro sulle dichiarazioni rese dagli odierni imputati, senza l'assistenza del difensore. Tale motivo di gravame deve ritenersi giuridicamente fondato, giacché, com'è stato riconosciuto dal primo giudice, il giudizio di colpevolezza è stato fondato esclusivamente sulla testimonianza resa dall'ispettore del lavoro, Piano Franco, in ordine alle dichiarazioni degli odierni imputati. Orbene, se è vero che la prospettiva interpretativa del giudice di legittimità, largamente maggioritaria, è nel senso di ritenere che il divieto di testimonianza sulle dichiarazioni dell'imputato o dell'indagato, previsto dall'art. 62 c.p.p. - diretto, com'esso è, ad assicurare l'inutilizzabilità di quanto dichiarato al di fuori degli atti garantiti dalla presenza del difensore attraverso la testimonianza di chi abbia ricevuto, in qualsivoglia maniera, le dichiarazioni de quibus -, presuppone che le dichiarazioni stesse siano state rese «nel corso del procedimento» e non...

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