Giurisprudenza di merito

AutoreCasa Editrice La Tribuna
Pagine583-609

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@CORTE DI APPELLO DI NAPOLI Sez. VI, 31 gennaio 2002. Pres. Morello - P.M. De Sanctis - Imp. Bignone.

Reato - Reato impossibile - Inidoneità dell'azione - Nozione - Esclusione - Opera dell'agente provocatoreReato apparente.

Misure di sicurezza - Applicazione - Ipotesi di reato apparente - Sentenza assolutoria - Mancanza di presupposti per l'applicazione delle misure di sicurezza.

Non è configurabile un'ipotesi di tentativo impossibile per inidoneità dell'azione o di fatto tipico inoffensivo, bensì di reato apparente, nel caso di pretesa tentata estorsione rivolta ad agenti di polizia giudiziaria che intendano saggiare la veridicità di denunce rivolte ad un parcheggiatore abusivo, che pretendeva compensi per la custodia di autovetture, prospettando, in caso di rifiuto da parte del proprietario dell'autoveicolo, un danno allo stesso. (C.p., art. 49; c.p., art. 56) (1).

Nel caso in cui si configuri un'ipotesi di reato apparente, la sentenza deve pronunciare assoluzione perché il fatto non sussiste, con impossibilità di sottoporre l'imputato alle misure di sicurezza previste dall'art. 49, quarto comma, c.p. (C.p., art. 49; c.p.p., art. 530) (2).

    (1) A sostegno della tesi posta a fondamento di questa decisione si pone molta parte della dottrina (PANNAIN, FIANDACA, MUSCO) secondo cui «il tentativo esula, quando un fatto astrattamente idoneo, al momento dell'azione, a raggiungere l'obiettivo criminoso perseguito, non potrebbe in ogni caso sfociare in un delitto consumato per la presenza di circostanze che ne rendono in concreto impossibile la realizzazione», ciò che nella presente fattispecie consterebbero nella presenza degli agenti provocatori e nella loro azione ab intus, tale da incidere sulla struttura sostanziale della fattispecie. Si veda, sul tema dell'agente provocatore e dell'incidenza della sua azione sulla punibilità dell'agente, Cass. pen., sez. I, 28 ottobre 1996, Fidanzati ed altri, in questa Rivista 1997, 247, secondo cui «l'esclusione della punibilità, sancita nel primo capoverso dell'art. 49 c.p., per l'ipotesi della presenza del cosiddetto agente provocatore, deve necessariamente suppore la derivazione assoluta ed esclusiva dell'azione delittuosa dallo stimolo istigatore dello stesso soggetto, e non può conseguentemente ritenersi ammissibile quando trattasi di determinazione proveniente anche da attività di soggetti diversi dall'agente provocatore», e Cass. pen., sez. VI, 21 novembre 1990, Pappalardo, ivi 1991, 875, secondo cui, invece, «l'opera dell'agente provocatore che determini il delitto non esclude la punibilità ai sensi dell'art. 49 capoverso c.p., perché l'impossibilità del verificarsi dell'evento va considerata in funzione dell'inidoneità dell'azione: la quale deve essere assoluta in rapporto all'evento voluto, con valutazione in concreto, ma con giudizio ex ante, dell'inefficienza strutturale dell'atto, che non deve consentire neppure un'attuazione eccezionale del proposito criminoso, sicché l'attività dell'agente provocatore, essendo causa estrinseca per nulla incidente sull'attitudine della condotta del reo a raggiungere il risultato voluto, non esclude l'efficacia causale della condotta stessa».


    (2) Il principio espresso in massima si fonda su univoci precedenti di legittimità, relativi tuttavia alla fattispecie di tentativo inidoneo. Si veda, per un utile riferimento in argomento, Cass. pen., sez. I, 14 giugno 1989, Lungarno, in questa Rivista 1990, 397, secondo cui i presupposti per l'applicazione di una misura di sicurezza devono trovare riscontro in un comportamento conforme ad una fattispecie legale penale, presupposti che non vengono individuati, nel caso in esame, dal procedimento logico posto a base della sentenza della Corte d'appello di Napoli.


SVOLGIMENTO DEL PROCESSO E MOTIVI DELLA DECISIONE. - La sentenza del primo giudice deve essere riformata, con l'assoluzione dell'appellante Bignone perché il fatto non sussiste e - per naturale conseguenza - con l'implicito rigetto dell'impugnazione del P.M. quanto all'inflitta pena.

Invero, bisogna individuare bene la categoria dommatica applicabile al caso in esame.

In fatto è emerso, attraverso l'esame delle deposizioni dei verbalizzanti Maresciallo De Stefano e Appuntato Santoro, che gli stessi, in data 8 maggio 2000, si erano recati presso un parcheggio che - come da segnalazioni di commercianti della zona - era abusivamente gestito dall'odierno appellante; giunti sul luogo in borghese, gli operanti avevano simulato di voler parcheggiare, al che il Bignone aveva loro prospettato danni all'autovettura se non avessero versato una somma per il suo deposito. A questo punto, riscontrata la veridicità di quanto asserito dai denuncianti, il Bignone era stato tratto in arresto per tentata estorsione.

Orbene, ricostruita così la vicenda in fatto, non si può discutere, né di tentativo impossibile per inidoneità dell'azione, né di mancanza dell'offensività di un fatto conforme al tipo, ma, solo, di un reato apparente.

Vi sarebbe stato tentativo inidoneo se il fatto avesse riguardato i denuncianti, ma si sarebbe giustamente dovuto concludere, allora, che il tentativo era affatto punibile, non potendo riuscire l'intervento della Forza Pubblica a togliere idoneità a quanto già posto in essere dal Bignone. Ma - ben si vede - gli operanti non avrebbero fatto «giocare» il proprio incontro di volontà, ponendosi ex foris rispetto all'impediendo delitto.

Né si può parlare di mancanza di offensività per fatto conforme al tipo, poiché, in questo caso, si deve avere un giudizio diagnostico sull'azione, e non prognostico sugli atti: si deve, cioè, concludere che manca l'offesa al bene giuridico, l'evento, inteso in senso giuridico, affermazione possibile ove la fattispecie sia compiutamente integrata (delitto consumato).

S'ha, allora, da prendere in esame la categoria dell'agente provocatore: gli accesi dibattiti sorti - e non sopiti - in dottrina devono essere risolti nel senso che non è possibile applicare alcuna scriminante all'agente provocatore, il quale, però, solo apparentemente istiga, ma non ha - ne può avere - di mira l'evento, ché, altrimenti, concor-Page 584rerebbe, nel reato, nei congrui casi, per delitto consumato o tentato.

Perciò l'attenzione della dottrina si è spostata sui rapporti tra agente provocatore e fatto, e non agente provocatore e reato.

E tanto, vieppiù, quando, come nel caso di specie, elemento intrinseco del reato sia il dissenso, o - come per la corruzione - l'accordo.

Dovendosi porre - necessariamente - l'agente provocatore fuori della fattispecie di concorso, eventuale o necessario, esso può raccogliere prove inerenti ad altri reati, ma altro non fa che creare una mera apparenza di reato.

È appunto il caso per cui è processo: gli operanti «sperano» di essere minacciati, ed, allora, per la contraddizione che nol consente, non subiscono alcuna coazione (anzi sarebbero «rimasti male» se il Bignone non li avesse minacciati, e i denuncianti, addirittura, avrebbero rischiato di essere denunciati per violazione dell'art. 658 c.p. (procurato allarme all'Autorità).

La differenza, allora, che si coglie a piene mani tra tentativo inidoneo e reato apparente, anche con riguardo alla predisposizione della Forza Pubblica, sta appunto in questo, che, nel primo caso, si mira ad impedire un reato, in ordine al quale già l'agente ha spiegato le proprie energie, con impossibilità, allora, di applicazione dell'art. 49, secondo comma, c.p., mentre, nel secondo, per acquisire prove in ordine ad altri reati, si incide sulla stessa struttura del fatto, si opera ab intus, con la conseguenza di incidere sulla struttura della fattispecie.

Comunque, anche se fosse applicabile, nei congrui casi, l'art. 49, secondo comma, c.p., si addiverrebbe alla formulaterminativa «perché il fatto non costituisce reato, con possibilità, ex art. 49, quarto comma, c.p., di applicazione della misura di sicurezza della libertà vigilata, mentre, nel caso di reato apparente (e la condotta del Bignone e degli operanti vi rientra «una via»), la assoluzione «perché il fatto non sussiste» non può che portare ad opposte conseguenze. (Omissis).

@CORTE DI APPELLO DI BRESCIA Sez. I, ord. 5 novembre 2001. Pres. Sartea - Est. Mazza - Imp. Marchese.

Revisione - Casi - Nuove prove - Modifiche introdotte dalla L. 27 marzo 2001 n. 97 nel rapporto tra procedimento penale e procedimento disciplinare - Conseguenze in materia di patteggiamento - Esclusione della revisione.

Le modifiche introdotte dall'art. 1 della L. 27 marzo 2001, n. 97 all'art. 653 c.p.p., che attribuisce efficacia di giudicato al patteggiamento nei procedimenti disciplinari, non mutano la sua natura di sentenza non equiparabile ad una pronuncia di condanna. Ad essa non è conseguentemente applicabile l'istituto della revisione della sentenza, richiesta a norma dell'art. 444 c.p.p. (C.p.p., art. 445; c.p.p., art. 653; L. 27 marzo 2001, n. 97, art. 1) (1).

    (1) La citata sentenza Cass. pen., sez. un., 8 luglio 1998, Giangrasso, si trova pubblicata in Arch. nuova proc. pen. 1998, 375.


(Omissis). - Marchese Giovanni, imputato del reato di cui agli artt. 81 cpv. e 490, in relazione agli artt. 476 e 482 c.p. (segnatamente di avere soppresso o occultato atti contenuti nei fascicoli di vari procedimenti penali, di cui aveva preso visione in qualità di difensore dei relativi indagati), chiedeva e otteneva, ex art. 444 c.p.p., l'applicazione della pena (sospesa) di mesi 7 di reclusione (con sentenza del Tribunale di Milano in data 23 gennaio 2001).

Con istanza depositata presso questa Corte in data 3 ottobre 2001, il predetto chiedeva la revisione della citata sentenza, ai sensi dell'art. 630 lett. c) c.p.p., sulla base delle seguenti argomentazioni:

- egli aveva scelto il rito del «patteggiamento» sulla base del presupposto, allora affermato dalla giurisprudenza, secondo cui la sentenza emessa ex art. 444 c.p.p. non aveva natura di sentenza di condanna;

- successivamente la...

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