Giurisprudenza di merito

AutoreCasa Editrice La Tribuna
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@CORTE DI APPELLO DI NAPOLI Sez. VI, 18 marzo 2004, n. 475. Pres. Merlino - Est. Giannelli - Imp. Capitelli ed altri.

Atti e provvedimenti del giudice penale - Declaratoria di determinate cause di non punibilità - Prevalenza del proscioglimento nel merito - Fattispecie in cui un reato, derubricato, sia perseguibile solo a querela - Declaratoria di mancata querela - Necessità.

Estorsione - Elemento oggettivo - Profitto ingiusto - Esclusione - Pretesa azionabile - Esercizio arbitrario delle proprie ragioni - Configurabilità.

Estorsione - Elemento oggettivo - Minaccia - Estremi - Differenze rispetto al reato di usura.

Qualora il giudice operi una derubricazione del reato contestato, ritenendo ravvisabile un'ipotesi di reato in ordine alla quale la promozione dell'azione penale necessiti di querela, la mancanza della stessa deve determinare il giudice a disporre un provvedimento di archiviazione che su di essa si basi, a preferenza di ogni altra formula, anche la più favorevole nel merito. (C.p.p., art. 336; c.p.p., art. 345; c.p.p., art. 411; c.p.p., art. 129) (1).

In tema di usura, nel sistema anteriore alla riforma intervenuta con la legge 7 marzo 1996, n. 108, qualora non si presentasse lo stato di bisogno, ancorché ex art. 644 bis c.p. e fossero convenuti interessi in misura superiore a quella legale, senza il rispetto della forma scritta imposta dall'art. 1284 c.c., la forzosa esazione degli interessi in questione, non vertendosi in ipotesi di nullità, atteso il disposto dell'art. 1325, n. 4, c.c., non lasciava configurare il delitto di estorsione, bensì quello di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, essendo azionabile davanti al giudice la pretesa, sia pure limitata agli interessi nella misura legale. (C.p., art. 393; c.p., art. 644) (2).

Nel sistema anteriore alla riforma intervenuta, in materia di usura, con la legge 7 marzo 1996, n. 108, posta l'azionabilità giudiziaria della pretesa alla corresponsione di interessi relativi al prestito di una somma di denaro, non si era in presenza, qualora l'importo degli stessi fosse stato usurario, di un'obbligazione naturale, per la quale era necessaria l'integrale denegatio actionis. Ed anche se si fosse versato in ipotesi di obbligazione naturale, il delitto configurabile non sarebbe stato quello di estorsione, bensì quello di violenza privata, non mirando, l'autore della violenza o della minaccia, ad un profitto integralmente ingiusto, attesa la possibilità, riconosciuta dal legislatore, della soluti retentio. (C.p., art. 629; c.p., art. 644; c.p., art. 610) (3).

    (1, 3) Nulla in termini.


    (2) Nello stesso senso, a contrario, si veda Cass. pen., sez. II, 17 giugno 1986, Sarachella, in questa Rivista 1987, 983, secondo cui, in caso di minacce poste in essere per conseguire interessi usurari, è configurabile il reato di estorsione e non quello di ragion fattasi, trattandosi di azione diretta a ottenere un ingiusto profitto.


SVOLGIMENTO DEL PROCESSO. - Nella causa penale a carico di: 1) Capitelli Roberto, nato l'1 febbraio 1943 a Capua; 2) Capitelli Fulvio, nato il 4 settembre 1951, a Santa Maria Capua Vetere; 3) Capitelli Gerardo, nato il 16 dicembre 1969 a Santa Maria Capua Vetere; 4) Capitelli Gennaro, nato il 12 luglio 1967 a Santa Maria Capua Vetere - tutti liberi presenti - appellanti: il P.M. presso il giudice a quo, tutti gli imputati, anche ex art. 595 c.p.p. avverso la sentenza resa il 25 maggio 2000 dal Tribunale di Santa Maria Capua Vetere con la quale Capitelli Roberto, per i delitti di estorsione e tentata estorsione, unificati con il vincolo della continuazione, concesse le attenuanti generiche, venne condannato alla pena di anni quattro di reclusione e lire 2.800.000 di multa; interdizione dai pubblici uffici per anni cinque; Capitelli Roberto, Capitelli Gennaro, Capitelli Gerardo, Capitelli Fulvio vennero assolti dall'accusa di usura sub A) perché il fatto non sussiste; Capitelli Gerardo, Capitelli Fulvio e Capitelli Gennaro vennero prosciolti dal delitto di cui all'art. 393 c.p. - così qualificato per loro - il fatto sub B), per difetto di querela e, comunque, per intervenuta prescrizione; Capitelli Roberto, Capitelli Gerardo e Capitelli Gennaro vennero assolti dalle accuse di usura ed estorsione pluriaggravata sub F) e G) perché il fatto non sussiste; Capitelli Roberto venne condannato per il capo I a pena ritenuta troppo mite.

Avverso la decisione di cui in epigrafe interposero appello il P.M. presso il giudice a quo e gli imputati, anche ex art. 595 c.p.p.

Il P.M. chiese la condanna di Capitelli Roberto - quanto al capo I) - a pena più severa; la condanna di tutti gli imputati per il delitto sub A); di Capitelli Gennaro, Gerardo e Fulvio per il delitto sub B), qualificato come estorsione, e non come esercizio arbitrario delle proprie ragioni; la condanna di Capitelli Roberto, Gerardo e Gennaro per i delitti sub F) e G).

La difesa di Capitelli Roberto ne chiese l'assoluzione dal reato sub B) perché il fatto non sussiste, in subordine perché il fatto non costituisce reato, in ulteriore subordine la derubricazione in esercizio arbitrario delle proprie ragioni; dal reato sub I) perché il fatto non sussiste, o perché il fatto non costituisce reato; in subordine la concessione dell'attenuante di cui all'art. 56, quarto comma, c.p.; in via più gradata, la riduzione della pena al minimo nell'operato cumulo giuridico ex art. 81, secondo comma, c.p., con - comunque - maggiore operatività delle già concesse attenuanti generiche.

L'appello incidentale proposto nell'interesse degli imputati, stricto jure, è da qualificare alla cifra di un atto di resistenza, da contrapporre all'appello del P.M., mancando il necessario contraddittorio in ordine ai capi o punti della decisione - non già fatti oggetto dell'appello ex art. 593 c.p.p. - da parte della Difesa.

MOTIVI DELLA DECISIONE. - La sentenza del primo giudice deve essere riformata.

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È necessario premettere delle considerazioni perché sia, poi, sviluppata la tesi di questa Corte: 1) se dall'esame della vicenda riesca applicabile un'ipotesi di delitto perseguibile a querela, la conseguente declaratoria di impromovibilità, secondo un ormai consolidato indirizzo giurisprudenziale, preclude al giudice - anche a quello di seconde cure - di esaminare il merito della vicenda, anche nel caso in cui l'indagine farebbe concludere per l'insussistenza del fatto, o per l'estraneità, ad esso, dell'imputato (vedasi, a contrario, art. 129, secondo comma, c.p.p.); 2) a differenza da quanto ha ritenuto dover fare il primo giudice, la presenza del difetto di querela non può essere - in dispositivo - messa in alternativa con la declaratoria di estinzione per prescrizione, causa di improseguibilità dell'azione penale, che presuppone, ovviamente, l'avvenuta promozione della stessa.

Ciò premesso, bisogna ben inquadrare la vicenda per cui è causa - all'atto delle contestazioni - nel preciso tempus commissi delicti.

Orbene, i fatti di usura sono contestati in relazione ad un arco temporale che non supera il mese di maggio dell'anno 1992.

In quell'epoca non era ancora entrato in vigore l'art. 644 bis c.p. - usura impropria - introdotto nel nostro sistema penale dall'art. 11 quinquies D.L. 8 giugno 1992, n. 306, conv. con modd. dall'art. 1, primo comma, L. 7 agosto 1992, n. 356.

Poiché tutte le pretese vittime svolgevano attività imprenditoriale, ed il loro «stato di bisogno» non era quello preveduto dall'art. 644 c.p. come applicabile ai fatti di causa, mancando, allora, lo stato di bisogno «privato», che, anche se non coincidente con l'estrema indigenza o, peggio, con lo stato di necessità, era pur sempre una difficoltà rilevante di sopperire a pressanti esigenze in ambito personale e/o familiare, e non «imprenditoriale», manca il presupposto della condotta atta a far seriamente discutere, e ad elevare imputazione, per usura, con riguardo - lo si ripete - al tempus commissi delicti.

Bisogna precisare ancora una cosa: il delitto di usura, nella propria soglia «minimale» di tipicità, è un reato istantaneo, ma non può esser qualificata post-factum irrilevante la dazione conseguente alla promessa: la dazione segna l'approfondimento dell'offesa ab intrinseco e considerarla ut non esset riuscirebbe al poco edificante risultato di far lucrare la prescrizione tra il minimo di consumazione e le vicende ulteriori dell'evento consumativo. Tanto vale per l'usura, tanto per altri delitti quali la corruzione, la concussione, il millantato credito ex artt. 346 e 382 c.p., e tutti i reati che presentano un possibile divario temporale tra la promessa e la dazione.

Ma, nel caso di specie, avendo carattere imperativo la contestazione, la «globale consumazione» s'arresta al maggio del 1992.

Allora, mancando alle contestate estorsioni, ancorché, alcune, tentate, la «base usuraria», ci si deve chiedere se la semplice presenza di interessi «esosi», quando non convenuti, ex art. 1284 c.c., con la forma scritta, possa, in caso di violenza o minaccia di cui si usi per ottenerne la corresponsione, lasciar configurare il delitto di estorsione consumata, o, se del caso, tentata.

Il primo giudice, aderendo ad un diffuso indirizzo, argomenta nei sensi seguenti: 1) la sottoscrizione di interessi in misura superiore a quella legale (all'epoca, il dieci per cento in ragione di anno, ex art. 1 L. 26 novembre 1990, n. 353) (fino al 31 dicembre 1996) è prevista ad substantiam actus, a pena di nullità; 2) la dazione «spontanea» fonda un adempimento di doveri morali o sociali e, quindi, una obbligazione naturale; 3) la vis elisiva di tale spontaneità dà luogo ad estorsione, tentata o consumata che sia.

Non sono pochi gli errori di diritto contenuti in queste brevi proposizioni.

Si dimentica il principio di conservazione dell'atto giuridico, che permea il nostro sistema civile.

Ed, invero, quando le parti pattuiscono l'uso di una forma, il legislatore, all'art. 1352 c.c., presume che la forma sia stata convenuta...

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