Giurisprudenza di merito

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@TRIBUNALE DI TRENTO Uff. del Gup, 30 settembre 2005, n. 441. Est. Ancona - Imp. Degiampietro ed altro.

Sicurezza pubblica - Stranieri - Disciplina del lavoro- Permesso di soggiorno per motivi di lavoro - Richiesta - Utilizzo di manodopera nelle more del procedimento di rilascio delle relative autorizzazioni - Responsabilità penale - Esclusione.

Non è configurabile il reato di cui all'art. 22, comma 12, del D.L.vo 286/1998 nei confronti del datore di lavoro che, per ragioni contrattuali, abbia dovuto utilizzare, nelle more della definizione del procedimento di rilascio delle relative autorizzazioni, la manodopera di lavoratori extracomunitari trovati privi del permesso di soggiorno per motivi di lavoro, qualora il mancato compimento dell'iter di legge, iniziato nei termini prescritti, sia dovuto al ritardo dell'amministrazione nell'evasione della relativa pratica burocratica. (D.L.vo 25 luglio 1998, n. 286, art. 22) (1).

    (1) Sentenza rilevante per il suo particolare contenuto originale e chiarificatore della norma in oggetto. Sul medesimo punto, si cita altresì, in fattispecie civile, Cass. civ., sez. I, 27 luglio 2004, n. 14098, in Jus & Lex on-line, sul sito www.latribuna.it, secondo cui l'obbligo per lo straniero di richiedere il permesso di soggiorno, ai sensi degli artt. 5 e 13, comma secondo, lettera c), del D.L.vo 25 luglio 1998, n. 286, entro otto giorni lavorativi dal suo ingresso nel territorio dello Stato non viene meno in ipotesi di integrale e continuativa prestazione di lavoro in Italia presso la stessa impresa (nella specie, protrattasi per circa cinque mesi) nei soli giorni lavorativi, con reiterato e costante rientro nel proprio Paese (nella specie, la Croazia) ogni venerdì sera e reingresso in Italia il lunedì successivo, in quanto ciò vale a configurare una situazione di effettiva domiciliazione nel territorio nazionale, rispetto alla quale l'uscita e il reingresso non hanno alcuna rilevanza interruttiva.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO E MOTIVI DELLA DECISIONE. - Nella forma e nei termini in cui è esposta in capo di imputazione, l'accusa è certamente infondata.

Infatti, il permesso di soggiorno deve essere richiesto, dai cittadini extracomunitari regolarmente entrati in Italia su chiamata nominativa del datore di lavoro per ragioni di lavoro (come pacificamente avveniva in tutti i casi qui in giudizio) entro otto giorni lavorativi dall'ingresso. Il termine «lavorativi» va riferito non al lavoro degli extracomunitari, ma a quello degli uffici competenti alla recezione della richiesta, e quindi della Questura e, in Provincia di Trento, degli uffici che curano a tal fine il contatto tra l'interessato e la PAT (per la ben nota incapacità delle Questure italiane a gestire tale rapporto). Alla semplice lettura delle date riferite in capo di imputazione, per nessuno dei cittadini extracomunitari è stato superato, se si tiene conto del fatto che gli uffici sono chiusi di sabato e nelle feste ufficiali, le quali a loro volta nei giorni tra il 26 dicembre e il 7 gennaio sono tre.

Su tale aspetto del fatto il P.M. ha espresso il suo accordo, e non è perciò necessario insistere oltre.

Ma non per questo il P.M. ha receduto dalla richiesta di condanna.

Ha infatti sostenuto che, benché fossero in piena regola sotto ogni punto di vista del procedimento amministrativo, gli extracomunitari in questione non avevano ancora conseguito il permesso di soggiorno al momento in cui iniziarono il lavoro; e quindi solo per questo, ai sensi del tenore letterale dell'art. 22 richiamato in accusa, dovrebbe provvedersi a condanna.

Si tratta di richiesta infondata, o meglio fondata su una lettura riduttiva ed errata del precetto.

Come è del tutto pacifico dalla lettura del testo normativo completo del D.L.vo 286/98, e soprattutto dell'art. 5, il permesso di soggiorno non è un documento di cui l'immigrato entra in possesso contestualmente al suo ingresso in Italia, per quanto regolare questo sia; al contrario, è il punto di arrivo di una procedura lunga ed onerosa, anche in Trentino ove una struttura provinciale soccorre la cronica indisponibilità di mezzi ed uomini della questura.

Infatti, una volta entrato in Italia, con regolare chiamata nominativa e visto di ingresso per ragioni di lavoro, egli deve richiedere il permesso di soggiorno entro otto giorni, e questo, come si è visto, è proprio quanto avvenuto nel caso concreto; e dunque proprio ai sensi di tale esplicita previsione (art. 5 comma 2) si comprende come sia non solo regolare, ma anzi necessario ed inevitabile, che l'immigrato entri in Italia ed inizi a lavorare senza ancora aver ottenuto il permesso, perché gli è imposto l'onere di richiederlo entro termini brevi, e solo dopo che è entrato può richiederlo.

Successivamente, una volta inoltrata la richiesta, occorrono alcuni mesi perché il permesso possa essere ottenuto; ma questo è argomento diverso, e non di rilievo in questa sede, se non per ottenere conferma che la tesi del P.M. rischierebbe di criminalizzare la posizione di tutti i datori di lavoro che assumono regolarmente cittadini extracomunitari, solo in ragione dei noti ritardi della amministrazione a riguardo (gli esempi che fa la difesa disegnano una situazione perfettamente e personalmente nota anche a questo giudice, come a chiunque abbia anche solo per ragioni di famiglia avuto rapporti con cittadini extracomunitari). Page 218

Infatti, se fosse vero che l'immigrato regolare può essere assunto solo dopo aver conseguito il permesso di soggiorno, allora egli dovrebbe aspettare molti mesi per poter lavorare dopo il suo ingresso regolare in Italia; in tale periodo non potrebbe essere considerato un clandestino, perché in regola con le procedure di cui all'art. 5 per il conseguimento del permesso; ma intanto non potrebbe lavorare, e quindi sarebbe costretto ad una vita da clandestino, almeno in via di fatto. Come si vede, l'interpretazione proposta dal P.M. conduce a conseguenze aberranti e inammissibili, e cioè ad una situazione di inesigibilità della condotta che non può non rilevare a scriminante in sede penale.

Ma in realtà il testo del precetto di cui all'art. 22 comma 12 non rende affatto necessaria tale conclusione. Esso fa infatti riferimento al «permesso di soggiorno previsto dal presente articolo», e quindi ad una regolamentazione complessiva dell'istituto e della procedura necessaria per il conseguimento del documento; a tal fine occorre ricordare che lo «sportello unico» presso le prefetture di cui al comma 1 dell'art. 22 non è ancora stato istituito, o meglio non è ancora operativo; e quindi in termini di stretta interpretazione il reato non potrebbe ricorrere in nessun caso, perché il conseguimento del permesso con le esatte modalità previste dall'art. 22 semplicemente non è possibile. In realtà l'interpretazione corrente, anche in giurisprudenza della S.C. (che si è interessata della fattispecie al fine di discutere la successione temporale con la legislazione precedente alla legge 189/2002, che ha modificato la norma in questione), è nel senso che il precetto si applica al caso di assunzione di lavoratori extracomunitari irregolari, e cioè clandestini perché entrati in Italia senza visto di lavoro o perché il loro permesso è scaduto. Tale fattispecie non può essere in nessun senso equiparata a quella dell'immigrato regolare, che sta solo attendendo il (troppo) tempo necessario per definire la sua posizione, realizzando nei tempi dovuti tutte le attività che la legge pone a suo onere. (Omissis).

@TRIBUNALE DI MILANO Sez. VI, 28 settembre 2005, n. 8382 (ud. 21 luglio 2005). Est. Renda - Imp. Strafella ed altri.

Prova penale - Documenti e scritture - Sentenza irrevocabile - Sentenza assolutoria del soggetto che assume la veste di persona offesa in procedimento connesso - Utilizzabilità - FondamentoCondanna degli imputati in ragione della ratio decidendi della sentenza irrevocabile.

La sentenza irrevocabile di assoluzione dal reato di resistenza a pubblico ufficiale, emessa a favore del soggetto che in procedimento connesso ha assunto la qualità di parte offesa in ragione delle lesioni procurategli da agenti di polizia, può costituire un oggettivo riscontro alle dichiarazioni rese in dibattimento dalla parte offesa stessa costituitasi parte civile, idonea a fondare la penale responsabilità degli imputati. (C.p.p., art. 234; c.p.p., art. 238 bis) (1).

    (1) Principio accolto dalla giurisprudenza prevalente. In argomento, Cass. pen., sez. V, 12 maggio 2000, Vera, in questa Rivista 2000, 1202, secondo cui il principio di prova, contenuto nel giudicato penale acquisito ai sensi dell'art. 238 bis c.p.p., va considerato alla stregua del criterio valutativo fissato dall'art. 192 comma 3 c.p.p., ma ha come oggetto non solo il «fatto» direttamente riferibile alla statuizione fissata nel dispositivo, ma ogni acquisizione fattuale evidenziata anche nel corpo della motivazione. Ne consegue, pure al di fuori di ogni obbligo per il giudice che l'utilizza, in ordine alla valutazione dei fatti contenuti nella sentenza irrevocabile che, una volta identificato il «fatto» accertato, rimane esclusa la possibilità di un controllo della sua fonte probatoria, anche sotto il profilo della rituale acquisizione in quel processo concluso con sentenza irrevocabile. Ha specificato la Corte che in tal senso nessuna eccezione di ordine processuale attinente alla prova - non solo quelle già dedotte ma anche quelle «deducibili» nel processo la cui sentenza è divenuta giudicato - può essere proposta al fine di porre in discussione la semiplena probatio conferita dall'art. 238 bis c.p.p. Aderisce alla conclusione formulata nella massima in epigrafe Cass. pen., sez. I, 20 maggio 1997, Bottaro, in Arch. nuova proc. pen. 1997, 824. Sulla scia di un precedente intervento, la Corte ribadisce come le sentenze di altro procedimento penale, divenute irrevocabili, siano acquisibili e valutabili in altro processo purché siano rispettati i criteri fissati...

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