Giurisprudenza costituzionale

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Decisioni della Corte

@CORTE COSTITUZIONALE 6 febbraio 2007, n. 26. Pres. Bile - Est. Flick - Ric. Corte d'Appello di Roma in proc. E.F. ed altri.

Appello penale - Provvedimenti appellabili ed inappellabili - Sentenze di proscioglimento - Possibilità per il pubblico ministero di proporre appello - Preclusione - Illegittimità costituzionale. Appello penale - Provvedimenti appellabili ed inappellabili - Sentenza di proscioglimento - Possibilità per il pubblico ministero di proporre appello - Preclusione - Applicabilità delle nuove norme ai procedimenti in corso - Disparità di trattamento tra le parti processuali - Illegittimità costituzionale.

È costituzionalmente illegittimo l'art. 1 della legge 20 febbraio 2006, n. 46 (Modifiche al codice di procedura penale, in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento), nella parte in cui, sostituendo l'art. 593 del codice di procedura penale, esclude che il pubblico ministero possa appellare contro le sentenze di proscioglimento, fatta eccezione per le ipotesi previste dall'art. 603, comma 2, del medesimo codice, se la nuova prova è decisiva. (L. 20 febbraio 2006, n. 46, art. 1; c.p.p., art. 593). È costituzionalmente illegittimo l'art. 10, comma 2, della legge 20 febbraio 2006, n. 46 (Modifiche al codice di procedura penale, in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento), nella parte in cui prevede che l'appello proposto contro una sentenza di proscioglimento dal pubblico ministero prima della data di entrata in vigore della medesima legge è dichiarato inammissibile. (L. 20 febbraio 2006, n. 46, art. 10).

RITENUTO IN FATTO. 1. - Con l'ordinanza indicata in epigrafe, la Corte d'appello di Roma ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24, 111 e 112 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 1 della legge 20 febbraio 2006, n. 46 (Modifiche al codice di procedura penale, in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento), nella parte in cui non consente al pubblico ministero di proporre appello avverso le sentenze di proscioglimento, se non nel caso previsto dall'art. 603, comma 2, del codice di procedura penale - ossia quando sopravvengano o si scoprano nuove prove dopo il giudizio di primo grado - e sempre che tali prove risultino decisive.

La Corte rimettente - investita dell'appello proposto dal Procuratore della Repubblica avverso la sentenza del Tribunale di Roma, che aveva assolto tre persone imputate del reato di ricettazione - rileva come, nelle more del gravame, sia entrata in vigore la legge n. 46 del 2006, il cui art. 1, sostituendo l'art. 593 c.p.p., ha sottratto al pubblico ministero il potere di appellare contro le sentenze di proscioglimento, fatta eccezione per l'ipotesi delineata dall'art. 603, comma 2, del codice di rito.

Ad avviso del giudice a quo, la disposizione censurata violerebbe diversi precetti costituzionali.

Essa risulterebbe lesiva, anzitutto, del principio di eguaglianza, sancito dall'art. 3 Cost.: consentire, infatti, all'imputato di proporre appello nei confronti delle sentenze di condanna senza concedere al pubblico ministero lo speculare potere di appellare contro «le sentenze di assoluzione», se non in un caso estremamente circoscritto, significherebbe porre l'imputato in «una posizione di evidente favore nei confronti degli altri componenti la collettività»; questi ultimi vedrebbero fortemente limitato, in tal modo, il dirittodovere del pubblico ministero di esercitare l'azione penale, che tutela i loro interessi. La possibilità, per l'organo dell'accusa, di proporre appello nei casi pre visti dall'art. 603, comma 2, c.p.p. risulterebbe, in effetti, «poco più che teorica», perché legata alla sopravvenienza di prove decisive nel ristretto lasso temporale tra la pronuncia della sentenza di primo grado e la scadenza del termine per appellare.

La norma censurata si porrebbe, altresì, in contrasto con l'art. 24 Cost., non consentendo alla «collettività», i cui interessi sono rappresentati e difesi dal pubblico ministero, «di tutelare adeguatamente i suoi diritti»: e ciò anche quando l'assoluzione risulti determinata da un errore nella ricostruzione del fatto o nell'interpretazione di norme giuridiche.

Risulterebbe violato, ancora, l'art. 111 Cost., nella parte in cui impone che ogni processo si svolga «nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità davanti ad un giudice terzo e imparziale», posto che la disposizione denunciata non permetterebbe all'accusa di far valere le sue ragioni con modalità e poteri simmetrici a quelli di cui dispone la difesa.

Da ultimo, detta disposizione lederebbe l'art. 112 Cost. Ad avviso del rimettente, infatti, la previsione di un secondo grado di giudizio di merito - fruibile tanto dal pubblico ministero che dall'imputato (così come dall'attore e dal convenuto nel giudizio civile) - sarebbe «consustanziale» al sistema processuale vigente: con la conseguenza che la sottrazione all'organo dell'accusa del potere di proporre appello avverso le sentenze assolutorie eluderebbe i vincoli Page 306 posti dal principio dell'obbligatorietà dell'azione penale, «considerata nella sua interezza».

  1. - Con l'ordinanza indicata in epigrafe, la Corte d'appello di Milano ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 111, secondo comma, Cost., questione di legittimità costituzionale degli artt. 1 e 10 della legge n. 46 del 2006, nella parte in cui, rispettivamente, escludono che il pubblico ministero possa appellare contro le sentenze di proscioglimento (art. 1); e prevedono che l'appello proposto dal pubblico ministero, avverso una di dette sentenze, anteriormente all'entrata in vigore della medesima legge, venga dichiarato inammissibile, con facoltà per l'appellante di proporre, in sua vece, ricorso per cassazione (art. 10).

    Il giudice a quo premette di essere chiamato a celebrare, a seguito di impugnazione del pubblico ministero, il giudizio di appello nei confronti di numerosi imputati, assolti in primo grado dal delitto di truffa aggravata perché il fatto non sussiste. Medio tempore, era tuttavia sopravvenuta la legge n. 46 del 2006, la quale, all'art. 1, sostituendo l'art. 593 c.p.p., aveva precluso l'appello avverso le sentenze di proscioglimento, fuori del caso previsto dall'art. 603, comma 2, c.p.p.; e, all'art. 10, aveva stabilito, con riguardo ai giudizi in corso, che l'appello anteriormente proposto dal pubblico ministero vada dichiarato inammissibile, salva la facoltà dell'organo dell'accusa di proporre ricorso per cassazione contro la sentenza appellata.

    Recependo, in parte qua, l'eccezione formulata dal procuratore generale, la Corte rimettente dubita, tuttavia, della compatibilità di tali previsioni normative con gli artt. 3 e 111, secondo comma, Cost.

    La questione sarebbe rilevante nel giudizio a quo, in quanto il suo accoglimento consentirebbe l'esame nel merito del gravame, altrimenti destinato alla declaratoria di inammissibilità, non avendo il pubblico ministero proposto nuove prove ai sensi dell'art. 603, comma 2, c.p.p.

    Quanto, poi, alla non manifesta infondatezza, il giudice rimettente ritiene che le disposizioni censurate violino, anzitutto, il principio di parità delle parti nel processo, sancito dall'art. 111, secondo comma, Cost. inibendo tanto al pubblico ministero che all'imputato l'appello avverso le sentenze di proscioglimento, tali disposizioni attuerebbero, infatti, una parificazione «solo formale»: giacché, nella sostanza, esse verrebbero a limitare il potere di impugnazione di quella sola, fra le due parti, che ha interesse a dolersi delle suddette sentenze, ossia il pubblico ministero.

    D'altro canto, alla luce dell'«unica interpretazione possibile» dell'art. 576 c.p.p., come modificato dalla stessa legge n. 46 del 2006, le sentenze di proscioglimento potrebbero formare invece oggetto di appello ad opera della parte civile: donde un ulteriore profilo di disuguaglianza, venendo il pubblico ministero a trovarsi in posizione deteriore anche rispetto a tale parte privata.

    Né l'evidenziata situazione di «assoluta disparità di trattamento» fra le parti processuali risulterebbe elisa dalla facoltà di proporre appello avverso le sentenze di proscioglimento nell'ipotesi prevista dall'art. 603, comma 2, c.p.p., la quale si connoterebbe come «del tutto residuale».

    Le norme censurata si porrebbero, per altro verso, in contrasto con l'art. 3 Cost., sotto il profilo del difetto di ragionevolezza.

    Alla luce delle indicazioni ricavabili dalla giurisprudenza di questa Corte, infatti - se pure il potere di impugnazione del pubblico ministero non costituisce estrinsecazione necessaria dei poteri inerenti all'esercizio dell'azione penale - una asimmetria tra accusa e difesa, su tale versante, sarebbe compatibile con il principio di parità delle parti solo ove contenuta nei limiti della ragionevolezza, in rapporto ad esigenze di tutela di interessi di rilievo costituzionale. Al riguardo, il giudice a quo ricorda come - alla stregua di detta premessa - questa Corte abbia ritenuto costituzionalmente legittime le disposizioni che non consentono al pubblico ministero di proporre appello, sia in via principale che in via incidentale, avverso le sentenze di condanna pronunciate a seguito di giudizio abbreviato (art. 443, comma 3, e 595 c.p.p.): valorizzando, a tal fine, le peculiari caratteristiche di detto rito alternativo. La medesima giustificazione non potrebbe tuttavia valere in rapporto alle norme oggi censurate, le quali precludono l'appello del pubblico ministero contro tutte le sentenze di proscioglimento, senza operare alcuna distinzione tra giudizio abbreviato e giudizio ordinario.

    A sostegno della soluzione normativa censurata, non varrebbe neppure invocare - ad avviso del rimettente - il diritto della persona accusata alla rapida definizione del processo a suo carico, in forza del principio di ragionevole durata del medesimo (art. 111, secondo comma, Cost.): diritto che non potrebbe essere...

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