Nuove prospettive in materia di rapporti fra attività di difesa tecnica e reato di favoreggiamento personale

AutoreChiara Dubolino/Fabio Costa
Pagine896-898

Page 896

La decisione in esame fornisce nuovi spunti di riflessione nell'analisi della questione relativa alla configurabilità del reato di favoreggiamento personale in capo al difensore di un soggetto indagato o imputato.

È utile a tal proposito richiamare, sia pur sinteticamente, i termini del problema 1.

Occorre anzitutto premettere che il reato in esame è di tipo comune: esso può essere commesso da chiunque e, quindi, anche dal difensore. I punti nodali del dibattito hanno riguardato (e riguardano) invece, da un lato, l'aspetto materiale della condotta di favoreggiamento personale posta in essere dall'avvocato e, in particolare, la nozione di "aiuto"; dall'altro lato, la possibilità di applicare, al difensore, la scriminante dell'adempimento di un dovere ovvero dell'esercizio di un diritto (art. 51 c.p.). Sotto quest'ultimo profilo sembra opportuno rilevare come, a parere di chi scrive, il problema non possa essere risolto avendo riguardo all'esimente dell'esercizio del diritto di difesa (nella specie, si invoca da parte di taluno, la norma dell'art. 24 Cost.) 2, posto che la situazione giuridica soggettiva tutelata dall'ordinamento e che si pone a base della scriminante fa capo all'imputato e non al suo difensore, rimanendo i due soggetti separati e distinti sia da un punto di vista sostanziale che processuale; tutt'al più si potrebbe invocare l'art. 51 c.p. sotto il diverso profilo dell'esercizio del diritto di svolgere la propria professione (che, quindi, solo indirettamente, è riferibile all'art. 24 Cost.) ovvero invocando l'adempimento di un dovere che, nella specie, dovrebbe derivare o dal contratto stipulato fra l'avvocato ed il suo assistito ovvero dall'assunzione di una difesa d'ufficio. Tuttavia, in ogni caso, il diritto-dovere di espletare il mandato difensivo non può che fondarsi su di un titolo contrattuale lecito il cui contenuto non può in alcun modo risolversi nel conferimento di un incarico a commettere fatti di reato. In sostanza, o l'avvocato si muove nei limiti derivanti da un contratto (lecito) di mandato difensivo, adempiendo al proprio diritto-dovere, ed allora non potrà che porre in essere comportamenti leciti, non implicando l'esercizio della professione forense, di per sé, attività che, da un punto di vista materiale, possano presentare gli estremi di un fatto di reato (così come accade, invece, per altre categorie di professionisti quali, ad es., quella del medico-chirurgo, laddove l'esercizio ordinario dell'attività specialistica implica di per sé la realizzazione di reati quali le lesioni personali, salva poi, ovviamente, la necessità che sussista, ai fini della responsabilità penale, anche l'elemento psicologico e che contemporaneamente non operino delle cause di giustificazione); ovvero si muove esorbitando da tali limiti, realizzando condotte penalmente sanzionabili, ed allora non potrà certo invocare l'art. 51 c.p. in quanto egli opererà al di fuori del titolo che lo legittima e che costituisce la fonte del suo diritto-dovere. Senza contare poi che la soluzione invocata condurrebbe ad un risultato aberrante: se fosse vero che l'attività del difensore, (anche quando si risolva semplicemente nel fornire consigli e suggerimenti tali da consentire poi, di fatto, all'assistito di eludere le investigazioni dell'Autorità ovvero di sottrarsi alle ricerche di questa) sarebbe tipica ma scriminata in virtù dell'incarico conferitogli, da ciò dovrebbe desumersi che una uguale attività posta in essere da un comune cittadino, al di fuori di uno specifico mandato, sia invece penalmente perseguibile non potendo costui avvalersi della scriminante dell'adempimento di un dovere; il che integrerebbe una evidente disparità di trattamento.

In sostanza, non sembra che il problema vada affrontato nel senso di ritenere giustificata, per l'avvocato, una condotta altrimenti costituente reato. Piuttosto, sembra più corretto impostare...

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