Cittadini extracomunitari clandestini e misure alternative alla detenzione

AutoreMario D'Onofrio
Pagine1281-1284

    Intervento svolto al Convegno di studi su «Effettività della pena tra giudizio di cognizione e giudizio di esecuzione. Analisi e prospettive», Messina 21-23 ottobre 2005.


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Il mio intervento - stante la dimensione progressivamente crescente dell'immigrazione, che ha determinato la presenza nel territorio dello Stato di un sempre più elevato numero di clandestini, i quali, attirati nei circuiti criminali, non fanno altro che incrementare costantemente la popolazione penitenziaria - concerne un tema di particolare attualità, che ha dato origine a diverse e confliggenti linee interpretative fra i giudici di merito e quelli di legittimità e all'interno della stessa sezione prima della Suprema Corte, che preludono ad un autorevole intervento delle Sezioni Unite, più che mai necessario.

Esso riguarda la possibilità o meno della applicazione delle misure alternative alla detenzione ai cittadini extracomunitari privi del permesso di soggiorno.

Le indicazioni che mi accingo a dare, senza pretesa di completezza ed esaustività, hanno il solo scopo di fornire un piccolo contributo all'esame di detta problematica e non affrontano i problemi, che occuperebbero troppo tempo, relativi all'espulsione (ritenuta dalla Corte cost. misura amministrativa di cui viene solo anticipata l'esecuzione) prevista dall'art. 16, commi 5 e ss. D.L.vo n. 286/1988.

In una risalente pronuncia 1 la Suprema Corte aveva affermato che tra la misura di sicurezza dell'espulsione dal territorio dello Stato e la misura alternativa della semilibertà non vi fosse incompatibilità, sia per la mancanza di un ostacolo normativo, sia perché tali misure trovano applicazione in tempi diversi e nei confronti di tutti coloro che si trovano ad espiare pene, inflitte dal giudice italiano, in istituti italiani, senza differenziazione di nazionalità. La Corte escludeva ogni contrasto tra l'espulsione e il fine del regime della semilibertà, volto a favorire il reinserimento del soggetto nella società, senza distinzione fra società italiana ed estera, dato che la risocializzazione non può assumere connotati nazionalistici, ma va rapportata alla collaborazione fra gli Stati nel settore della giurisdizione.

Affrontando più direttamente la questione in esame, una prima decisione del Supremo Collegio ha puntualizzato che le misure alternative alla detenzione sono applicabili, con eguali modalità, sia ai cittadini italiani che a quelli stranieri, a nulla rilevando l'attualità della presenza nel territorio dello Stato del richiedente al momento della presentazione dell'istanza di applicazione della misura, né la ragione per la quale costui ne fosse allontanato 2.

Nel caso di specie il Tribunale di sorveglianza di Milano aveva rigettato l'istanza di applicazione dell'affidamento in prova al servizio sociale, rilevando che il condannato era residente all'estero, per cui non si rendeva possibile l'opera di controllo e di rieducazione demandata agli operatori sociali, chiamati a svolgere interventi e verifiche sia presso la famiglia e il luogo di lavoro dell'interessato sia negli ambienti dallo stesso frequentati.

Nel confermare l'ordinanza dei giudici ambrosiani, la Corte rilevava che l'esecuzione della misura alternativa deve necessariamente svolgersi nel territorio dello Stato, atteso che i Centri di servizio sociale per adulti (art. 72 L. n. 354/75) effettuano la attività ad essi demandata soltanto nell'ambito territoriale di loro competenza; attività che, per la sua specifica natura, non rientra tra quelle funzioni statali che possono essere compiute, in territorio estero, dagli uffici consolari italiani 3.

Di conseguenza la misura alternativa non può essere applicata al condannato che risieda ed operi normalmente in territorio estero, dato che in tale ipotesi non sarebbe possibile alcun serio controllo da parte degli organi competenti in ordine alla puntuale osservanza delle prescrizioni imposte al momento della concessione del beneficio penitenziario e alla corretta esecuzione della misura medesima, volta al suo progressivo reinserimento, da uomo libero, nel tessuto sociale.

Con una successiva sentenza 4, i giudici di legittimità affrontavano il problema degli stranieri espulsi, ritenendo l'allontanamento coattivo un elemento ostativo per l'applicazione della misura alternativa, mancando ogni possibilità di instaurare l'interazione tra condannato e servizio sociale sul quale si basano gli istituti in questione.

In linea con tale orientamento, si affermava anche 5 che le misure alternative non possono essere applicate agli stranieri extracomunitari che si trovino in Italia in condizioni di clandestinità, dato che tale condizione rende illegale la permanenza dello stesso nel territorio dello Stato e non può, d'altra parte, ammettersi che l'esecuzione della pena abbia luogo con modalità tali da comportare la violazione o l'elusione delle norme che rendono configurabile detta illegalità.

Il Tribunale di sorveglianza di Taranto, invece, ritenendo non ostativa la condizione di clandestinità della richiedente, ne aveva disposto l'affidamento in prova al servizio sociale, rilevando che - come avviene per la concessione della liberazione condizionale e dei permessi premio - fossero applicabili a chi avesse fatto ingresso illegalmente nello Stato anche tutte le altre norme dell'ordinamento penitenziario, trattandosi di disposizioni attinenti all'esecuzione della pena, che deve essere obbligatoriamente espiata.

Secondo il tribunale un diverso opinamento determinerebbe una ingiustificata disparità di trattamento rispetto ai condannati a pena detentiva cittadini italianiPage 1282 o stranieri in possesso di regolare permesso di soggiorno.

La Corte, nel motivare il suo diverso avviso, osservava che nell'ordinamento giuridico è immanente il limite (attinente ad essenziali esigenze di coerenza ed omogeneità dell'intero sistema) riferibile alla legalità estrinseca di un provvedimento giurisdizionale, cioè all'assenza di contrasto con norme imperative.

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