Esterovestizione: brevi cenni sugli indici da cui desumere l’ubicazione dell’effettiva sede amministrativa di una società

AutoreDonatella Rapetti

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Non vi è dubbio che “il rapporto” tra un imprenditore italiano e una società estera - e non solo se collocata in un cd. paradiso fiscale - viene valutato con sospetto (e pregiudizio) dal fisco italiano (e/o dalla Guardia di Finanza) che vede nella esistenza stessa della surriferita relazione un probabile indizio - se non una vera e propria prova presuntiva - di una evasione fiscale. Di tal che se in qualsiasi altro settore il contatto o melius, l’interscambio e le correlazioni con i soggetti e/o gli istituti di un Paese estero vengono incentivati e celebrati quale espressione di modernità, cultura, sensibilità, progresso ... per il fisco italiano, invece, le stesse si connotano di una valenza negativa, per non dire riprovevole.

Lo sfondo su cui si muove l’Agenzia delle Entrate - ma anche e soprattutto la Guardia di Finanza - per addivenire ad un simile giudizio negativo è quello che fa leva sul concetto di “risparmio d’imposta”, assurdamente considerato quale disvalore da temere e, conseguentemente, da sanzionare.

In altre parole, si ritiene il rapporto tra l’imprenditore italiano e la società estera privo, per il primo, di una qualsiasi utilità economica e, quindi, posto in essere al solo scopo di delocalizzare una parte del suo reddito (in realtà prodotto in Italia), sottoponendolo ad una tassazione in un Paese a fiscalità privilegiata.

All’evidenza, allora, l’illogicità (sotto il profilo economico, imprenditoriale, commerciale, finanziario ...) di una tale impostazione.

Se, infatti, il concetto di utilità economica presuppone valutazioni complesse, che implicano spesso strategie d’impresa e programmi di sviluppo ed espansione legate alla capacità e alle ambizioni del singolo imprenditore (come tali di difficile comprensione e/o individuazione da parte dei funzionari della G.d.F. che hanno il più delle volte una visione parziale e limitata della realtà d’impresa oggetto di verifica), il perseguimento di un risparmio di imposta appare oltremodo connaturato all’esercizio della stessa attività di impresa.

Notorio, cioè, che l’imprenditore - per sua stessa definizione - persegue un profitto che, in quanto tale, non può non tenere conto anche del carico fiscale.

Vale a dire che l’organizzazione di impresa - anche su territorio estero - che tende ad ottimizzare i ricavi riducendo costi e spese (comprensivi di quelli di natura fiscale/tributaria) appare non solo priva di connotazioni illecite, ma altresì del tutto legittima sotto il profilo propriamente economico/imprenditoriale, in quanto appunto connaturata al concetto stesso di impresa.

Pacifico, peraltro, che il criterio del risparmio di imposta non può essere preso a riferimento per valutare la correttezza e liceità dell’attività di una impresa nazionale dal momento che il non indifferente grado di imposizione fiscale in Italia impedirebbe di ritenere lecito qualsivoglia investimento all’estero.

È cioè, ahimé, oltremodo risaputo che la tassazione ha raggiunto nel...

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