Solidarietà ed egoismi a 10 anni dall'entrata in vigore della legge sul superamento delle barriere architettoniche

AutoreAlberto Celeste
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@1. Tardivo intervento del legislatore

Al suo esordio, la legge 9 gennaio 1989, n. 13, recante «disposizioni per favorire il superamento e l'eliminazione delle barriere architettoniche negli edifici privati», era stata salutata, nonostante il ritardo, con estremo favore.

Erano trascorsi, infatti, molti anni da quando il legislatore italiano, al fine di dettare una disciplina in subiecta materia, era intervenuto solo con riguardo agli «edifici pubblici o aperti al pubblico», prima, con la legge 30 marzo 1971, n. 118, il cui art. 27 all'uopo prescriveva determinati criteri costruttivi per facilitare la vita di relazione dei mutilati ed invalidi civili, e, poi, con il D.P.R. 27 aprile 1978, n. 384, concernente il regolamento di attuazione del predetto articolo 27, ed in particolare le norme volte ad eliminare gli impedimenti fisici comunemente definiti «barriere architettoniche», che erano di ostacolo alla vita di relazione dei predetti minorati.

Nel precedente contesto normativo, rimanevano quindi estranei gli edifici privati e quelli destinati ad uso abitativo, e cioè quelli in cui, nella maggior parte dei casi, si svolgeva una considerevole e primaria sfera della vita di relazione di quei soggetti che, permanentemente o temporaneamente, soffrivano di una ridotta o limitata capacità motoria.

La normativa allora vigente, in altri termini, non rispondeva effettivamente alle esigenze di carattere sociale e perequativo che erano state da tempo evidenziate, specie con riferimento alle condizioni di vivibilità dei disabili negli edifici privati (anche se va dato atto che, al quadro sopra delineato, si aggiungeva una normativa regionale abbastanza ricca e significativa, assestandosi, talvolta, su un livello di garanzia assai più avanzato, sia per quanto concerneva i caratteri tecnici richiesti per la nuova progettazione, sia per quanto riguardava l'ambito oggettivo di applicazione).

La legge 13/89, finalmente, ha affrontato le problematiche connesse al superamento di tali barriere, il cui campo di applicazione concerne gli «edifici privati» di nuova costruzione, gli edifici di edilizia residenziale pubblica, sovvenzionata ed agevolata di nuova costruzione, la ristrutturazione degli edifici di cui sopra, e gli spazi esterni di pertinenza degli stessi, contemplando varie disposizioni a favore del «portatore di handicap» (si abbandonano così, nella terminologia legislativa, le espressioni quali invalido o mutilato, ricorrenti in quella precedente).

La rilevanza sociale della predetta legislazione era dovuta alla delicatezza e diffusione dei temi trattati: da fonti Istat del maggio del 1995, si segnalava una presenza complessiva in Italia di 3.294.000 disabili, censiti secondo i criteri della legge-quadro 5 febbraio 1992, n. 104, dei quali - per quel che interessa l'argomento in oggetto - 1.761.000 con deficit motori, e 423.000 con patologie connesse al vedere, sentire e parlare (in pratica, circa più di 2 milioni di soggetti, senza considerare i familiari di questi più direttamente coinvolti nell'assistenza dell'handicappato).

Non è inutile rammentare che tutti gli interventi sopra richiamati si collocano, di regola, sul versante del riequilibrio della condizione del portatore di handicap, e, quindi, si distinguono da quelli strutturalmente ed essenzialmente assistenziali, anche alla luce dell'art. 38 Cost. (come, ad esempio, collocazione obbligatoria, assegno di accompagnamento, pensione di invalidità civile, pensioni Inps e Inail, forme specifiche di assistenza sanitaria, ecc.).

Precisato ciò, l'aspetto forse più interessante della nuova disciplina di settore - e comunque quello che, dal punto di vista statistico, ha dato origine alle più frequenti controversie giudiziarie - è quello che ha per oggetto le innovazioni da realizzare negli edifici esistenti dirette alla eliminazione delle barriere architettoniche, prevedendo un quorum agevolato per la relativa approvazione, una forma di autotutela da parte dell'handicappato, la possibilità di derogare le norme sulle distanze, l'adeguamento dei regolamenti edilizi locali, e l'iter amministrativo per la realizzazione delle opere edilizie de quibus.

Già ad una prima lettura della normativa in esame, si era evidenziata l'inadeguatezza della stessa in relazione agli scopi prefissi, specie quanto al problema della eliminazione delle barriere architettoniche negli edifici esistenti - emblematica, in proposito, la questione inerente l'installazione dell'ascensore nella tromba delle scale - in quanto il legislatore aveva tentato un problematico compromesso tra le ragioni della proprietà esclusiva nel condominio degli edifici privati, e quelle più propriamente sociali della tutela del disabile calato in quella realtà.

Tuttavia, fin dall'iniziale applicazione della legge 13/89 - come vedremo appresso - un nutrito orientamento giurisprudenziale di merito ha considerato i suoi obiettivi talmente importanti che l'interpretazione prevalente (anche se non unanime), che ne è stata data, è stata indirizzata decisamente ad estendere nella misura maggiore possibile tutti i principi contenuti nelle sue disposizioni, anche se talvolta oltre il loro effettivo spazio d'azione.

@2. Modificazioni della realtà esistente

È noto che, ai sensi dell'art. 2, primo comma, della legge 13/89, l'assemblea condominiale può approvare le innovazioni da attuare nell'edificio già esistente «dirette ad eliminare le barriere architettoniche», in prima o seconda convocazione, con le maggioranze previste dall'art. 1136, secondo e terzo comma, c.c., snellendo così il procedimento di formazione della volontà dell'organo gestorio al fine di permettere la decisione di modifiche, spesso complesse, con una maggioranza più facilmente raggiungibile.

Mentre l'art. 1 si riferisce ai nuovi edifici privati (ed alle ipotesi di ristrutturazione degli stessi), ed impone caratteristiche progettuali inderogabili, in funzione della fruibilità delle nuove costruzioni da parte dei portatori di handicap, l'articolo successivo intende, invece, favorire la realizzazione di opere di superamento e di eliminazione delle barriere architettoniche negli edifici esistenti, i cui proprietari, invece, non hanno un obbligo giuridico - ma solo morale - di adoperarsi per eliminarlo.

La scelta di politica legislativa operata dalla normativa in esame è stata, pertanto, nel senso di non sottoporrePage 566 all'obbligo del rispetto delle prescrizioni tecniche di cui al D.M. 14 giugno 1989, n. 236, gli interventi sul patrimonio edilizio esistente, ma di limitarsi ad incentivare in vario modo l'adozione delle soluzioni tecniche di eliminazione delle predette barriere al fine di raggiungere un certo livello di praticabilità dell'edificio, e ciò si spiega con il fatto che la previsione di un obbligo indiscriminato di adeguamento dei fabbricati avrebbe comportato numerosi problemi pratici ed anche economici, legati al fatto che le opere da realizzare sono spesso costose e, talvolta, addirittura impossibili da realizzare a causa dello stato dei luoghi.

Dunque, l'organo deliberante - che deve essere sempre costituito secondo le ordinarie modalità di cui all'art. 1136 c.c., salvo il rispetto del termine di 3 mesi dalla domanda da parte dei soggetti interessati o da chi ne ha la tutela, v. infra - può approvare le predette innovazioni in prima e seconda convocazione, rispettivamente, con un numero di voti che rappresenti la maggior parte degli interventi ed almeno la metà del valore dell'edificio, oppure con un numero di voti che rappresenti 1/3 dei partecipanti al condominio ed almeno 1/3 del valore dell'edificio.

Con tale quorum agevolato, il legislatore ha introdotto una sorta di incentivo «reale», consistente nella deroga alla più rigorosa normativa ordinaria, riservando, ad una certa categoria di opere, un regime differenziato più favorevole, favorendo così l'adeguamento strutturale degli edifici esistenti in quanto finalizzato al perseguimento di determinate esigenze, e cioè - per quel che interessa in questa sede - il superamento degli ostacoli alla mobilità (per l'analogo trattamento contemplato in tema di risparmio energetico, v. la legge 9 gennaio 1991, n. 10).

Fin qui, tutto chiaro (o quasi); i problemi nascono dopo, quando lo stesso art. 2, al terzo comma, specifica che «resta fermo quanto disposto dagli articoli 1120, secondo comma, e 1121, terzo comma, del codice civile».

Riguardo alla seconda norma, sembra evidente che, se si tratta di impianto suscettibile di utilizzazione separata, installato a spese dei soli utilizzatori in quanto innovazione gravosa, è fatto sempre salvo il potere, in capo agli altri partecipanti, di subentrare in un momento successivo nella titolarità pro-quota, con accollo dei relativi oneri.

Resta inteso che i condomini - originariamente dissenzienti - i quali vogliono successivamente giovarsi della innovazione, divenendo partecipi della comproprietà dell'opera ed acquistare una posizione che non avevano avuto all'inizio, dovranno pagare quello che sarebbe stato il costo d'allora per la realizzazione della medesima opera, ma con moneta presente, considerando, altresì, che, a seguito del loro silenzioso placet, si sono trovati poi rivalutate le rispettive unità abitative senza alcuna spesa.

Per quel che concerne la prima norma, si è ribadito che, se, da un lato, si introduce un regime...

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