L efficaccia delle decisioni della corte europea dei diritti dell uomo nell ordinamento italiano: dalla vanificazzione del giudicato alla decostruzione del principio di legalita

AutoreLorenzo Cordi
Pagine115-128

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@1. La dialettica tra efficacia delle sentenze della Corte Europea dei diritti dell'uomo e giudicato interno e la soluzione ermeneutica del conflitto.

- L'esecuzione delle sentenze della Corte Europea dei diritti dell'uomo è tema da tempo sub observatione. L'attenzione riflette la centralità dell'istituto nell'assetto europeo di tutela dei diritti fondamentali, la cui effettività dipende in gran parte dalle modalità di composizione della violazione da parte degli Stati contraenti1. Rilievo valevole a fortiori dopo l'approvazione del Protocollo 11 maggio 1994, n. 11, importante targa nel processo di «giurisdizionalizzazione della protezione europea dei diritti umani»2. Le rilevanti modifiche che l'atto apporta all'ordito normativo della Cedu non sfiorano il sistema di esecuzione della pronuncia, oggetto del successivo protocollo n. 14 ratificato dall'Italia ma non ancora vigente3. Si prevede la possibilità per il Comitato dei ministri di adire la Corte laddove ritenga la parte contraente inadempiente rispetto all'obbligo di riparazione derivante dalla pronuncia giudiziale. Questa provvede all'accertamento dell'ipotetica violazione; in caso la ravvisi trasmette la causa al Comitato per l'adozione di misure reputate necessarie.

L'obiettivo è conseguire dove possibile una restituito in integrum, o comunque un effettivo rime- dio alla violazione di uno dei diritti proclamati nel catalogo Cedu. Emerge in filigrana l'insoddisfazione per l'atteggiamento di molti degli Stati contraenti. Ve ne erano già dei segnali nella giurisprudenza più recente della Corte4, culminati nella prassi di indicare le misure generali da adottare al fine di evitare ulteriori violazioni della Convenzione: esemplare la pronuncia nel caso Sejdovic, risoluta nel censurare l'allora edizione dell'art. 175 c.p.p.5, poi rivista dalla tempestiva riforma nel 2005, ispirata dalle indicazioni della stessa Corte. L'obbligo di riparazione si traduce qui nella neces saria apertura di un nuovo processo. Modalità nient'affatto sconosciuta in termini generali nel panorama normativo europeo, che, in assenza di apposita disposizione legale, è imposta dalla stessa giurisprudenza.6 Le operazioni ermeneutiche colmano così i vuoti della disciplina legale. Tratto caratterizzante il nuovo ordine giuridico medioe- vale europeo7 nel quale «il giudice da semplice corifeo, diviene autentico deuteragonista del legislatore», onerato, «già nell'individuazione della fattispecie astratta [di] comporre le tessere sconnesse di un mosaico policromo, ed utilizzare strumenti del diritto internazionale e comunitario direttamente applicabili, e doverosamente attingibili, perché le stesse corti sopranazionali si impongono, ormai, come giurisdizioni immediatamente vincolanti»8. Sono allora i surrogati interpretativi9 ad adempiere a quella che con nomenclatura risalente alla civilistica francese si definisce un'obbligazione di risultato10. Sintagma con il quale si intende sottolineare la facoltà statuale di individuare il rimedio più acconcio per garantire l'esatto adempimento. Lo ribadisce anche il Comitato dei ministri nell'invito rivolto agli Stati «à examiner leurs systèmes juridique nationaux en vue de s'assurer qu'il esiste del possibilités appropriées pour la réexamen d'une affaire, y compris la réouverture de la procédure, dans les cas où la Cour a constaté una violation de la Convention».11 Emerge la predilizione per la revisione del processo, suggerita laddove «(i) la partie lésée continue a souffir des conséquences négatives trés graves à la suite de la décision nazionale, conséquences qui ne peuvent etre compensé per la satisfaction équitable et qui ne peuvent etre modifiés que par la réexamen ou la réoverture et (ii) il résulte de l'arret de la Cour que (a) la décision interne attaquée est contraire sur le fond de la Convention, ou (b) la violation constatèe est causée par des erreurs ou défaillance de procédure interne attaquée». Indice sintomatico dei mutamenti intercorsi nel sistema di tutela dei diritti: appena vent'anni fa circa, l'inesistenza di un obbligo di revisione della sentenza definitiva è affermazione da più parti sostenuta12. Oggi, al contrario, la predisposizione di un simile rimedio sembra avvertirsi con inedito vigore. Un aspetto peculiare della più ampia volontà di dar nuova enfasi al giudicato europeo, talora espressa dalla discuti- bile nozione di chose judeé interprètèe che designa l'efficacia ermeneutica valente erga omnes della sentenza della Corte Europea dei diritti dell'uomo13. Diversa, invece, la posizione di chi individua nell'interpretazione il terreno elettivo di un dialogo tra organi giurisdizionali appartenenti ad ordinamenti distinti.

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Nonostante le notevoli implicazioni di simili teoriche14, va osservato come tale vincolo non esaurisca, tuttavia, la Völkerrechdtsfreundlichkeit che permea molti dei sistemi costituzionali dei paesi aderenti alla convenzione di Roma. Ad essa devono difatti ricondursi «oltre alla presunzione che il diritto interno sia stato adottato in conformità con gli obblighi internazionali [...], anche l'obbligo di assicurare al diritto internazionale il massimo di effettività possibile, inclusa l'introduzione nel diritto interno di garanzie e procedimenti strumentali a quello scopo».15 Le aperture al diritto internazionale esigono, pertanto, l'intervento di organi e strumenti eterogenei, che consentano il rispetto delle regole fondanti ogni singolo ordinamento. Le vicende che si intende qui esplorare dimostrano, al contrario, la scarsa attenzione per il valore della legalità processuale inopportunamente immolata attraverso disinvolte interpretazioni, spesso motivate da mere ragioni equitative.

@2. L'autorità del giudicato penale giudicato iniquo secondo la recente giurisprudenza della Corte di Cassazione italiana.

- I rilievi precedenti svelano come le iniziative che taluni organi statuali intraprendono al fine di ovviare all'inadempimento altrui16 espongono il sistema all'alea di un'indebita sovrapposizione tra poteri. Si assiste così a quella che i filosofi definiscono eterogenesi dei fini o astuzia della ragione: l'azione intenzionale pur se come detto motivata da ragioni di equità conduce a conseguenze (forse) inintenzionali nient'affatto innocue. Il fenomeno ha radici assai profonde variamente evocate nelle sentenze che si intende esaminare. Sostegno alle soluzioni accolte si dice prove- nire, ad esempio, dall'atteggiamento delle sezioni civili della Corte di Cassazione in ordine alla deter- minazione dell'equa riparazione per irragionevole durata del processo secondo la c.d. legge Pinto (L. 24 marzo 2001, n. 89).17 L'entrata in vigore della normativa de qua segna l'emergere di un conflitto tra Corte Europea e Corti nazionali in ordine ai presupposti necessari per il risarcimento del danno. L'opposizione tocca il diapason nel 2002 quando una sentenza subordina la risarcibilità del danno non patrimoniale subito da persone giuridiche alla prova dell'effettivo pregiudizio ad altri beni18. La motivazione evidenzia l'assenza di «disposizioni che conferiscano carattere cogente alle decisioni della Corte Europea», semplicemente considerate come «autorevoli precedenti» per il giudice.19 Non tarda di intervenire il giudice europeo20, il quale osserva come «le giurisdizioni nazionali de[bbano], per quanto possibile, interpretare ed applicare il diritto nazionale conformemente ai principi della Convenzione di cui la giurisprudenza della Corte fa parte integrante». Posizione fatta propria dalle Sezioni unite civili del 2004 le quali legano il vincolo ermeneutico alla ratio della legge Pinto che pone come sussidiario il ricorso alla Corte Europea dei diritti dell'uomo.21 Mancano affermazioni di portata generale reputate superflue: «non è necessario [...] porsi il problema generale dei rapporti tra la CEDU e l'ordinamento interno»; «qualunque sia l'opinione che si abbia su tale controverso problema, e quindi sulla collocazione della CEDU nell'ambito delle fonti del diritto interno, è certo che l'applicazione diretta nell'ordinamento italiano di una norma della CEDU, sancita dalla L. n. 89 del 2001 [...] non può discostarsi dall'interpretazione che della stessa norma dà il giudice europeo».

Il riferimento a tali sentenze delle Sezioni unite civili pare allora inconferente non essendo da queste estraibili indicazioni di portata generale. Non sembra dello stesso avviso la pronuncia della Cassazione penale emessa in data 3 ottobre 2006 che, al contrario, evoca la decisione nella propria trama argomentativa.22 Qui trova posto, inoltre, la narrazione del nuovo meccanismo edificato dal Protocollo n. 14 ratificato dall'Italia in data 7 marzo 2006 (seppur non ancora vigente), sintomo della «precisa volontà del legislatore di accettare incondizionatamente la forza vincolante delle sentenze della Corte di Strasburgo». Volontà che si dice emergere anche dalla L. 9 gennaio 2006, n. 12 (disposizioni in materia di esecuzione delle sentenze della Corte Europea dei diritti dell'uomo) la quale inserisce nell'art. 5, comma 3, della L. 23 agosto 1998, n. 400, la lettera a-bis) con cui si assegna al Presidente del Consiglio dei Ministri il compito di «promuove[re] gli adempimenti di competenza governativa conseguenti alle pronunce della Corte Europea dei diritti dell'uomo emanante nei confronti dello Stato Italiano; comunica[re] tempestivamente alle Camere le medesime pronunce ai fini dell'esame da parte delle competenti Commissioni parlamentari permanenti e presenta[re] annualmente al Parlamento una relazione sullo stato di esecuzione delle suddette ordinanze».

I dati normativi esposti sorreggono una proposizione che già prima facie pare assai impegnativa: «in base alle affermazioni sin qui svolte si deve ritenere che i precisi obblighi nascenti dalla Convenzione e recepiti dalla più recente normativa interna, portino necessariamente a concludere che, in mate- ria di violazione dei diritti umani (e in...

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