La diversa valenza attribuita al consenso dell'imputato minorenne nel processo penale in riferimento agli artt. 25 E 32 del D.P.R. 448/1988

AutoreMyriam Bologna
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Il consenso, inteso come manifestazione di volontà di un soggetto finalizzata al compimento di una determinata attività o al raggiungimento di un determinato effetto, ricopre in ogni ramo del diritto positivo un ruolo assolutamente centrale. Esso costituisce uno dei principali «motori» della evoluzione del sistema giuridico moderno, sistema che negli ultimi anni ha assistito, in ambito processualpenalistico, ad una serie cospicua di modifiche normative, volte ad attribuire all'elemento «volitivo» delle parti coinvolte nel processo un ruolo sempre più significativo. Basti pensare, a titolo di esempio, alle novità recentemente introdotte dalla riformulazione dell'art. 111 Cost. 1 in materia di formazione della prova in contraddittorio fra le parti. Così come il legislatore costituzionale ha voluto, per la prima volta, introdurre nella Carta fondamentale uno dei principi più importanti del sistema cosiddetto «accusatorio» (comma quarto: «Il processo penale è regolato dal principio del contraddittorio nella formazione della prova»), ha contemporaneamente disciplinato le deroghe a siffatta regola fondamentale, ascrivendo ad esse, fra le altre, proprio il consenso dell'imputato (comma quinto: «La legge regola i casi in cui la formazione della prova non ha luogo in contraddittorio per consenso dell'imputato...»).

Pertanto, lo spazio che, con sempre maggiore intensità, il processo penale attribuisce all'elemento volitivo dei soggetti coinvolti in esso, non poteva non sollevare animato dibattito, avuto riguardo proprio a quella branca dell'accertamento giurisdizionale che vede come protagonisti i minori di età, individui dalla personalità in evoluzione, per i quali, forse, risulta difficile parlare sic et simpliciter di «consenso» nell'accezione che comunemente viene data al termine, ma in virtù dei quali, tuttavia, il legislatore ha voluto creare un rito processuale ad hoc, che osserva le disposizioni del D.P.R. 448/1988 e «per quanto da esse non previsto, quelle del codice di procedura penale» (art. 1) 2.

Orbene, i problemi esegetici in materia di consenso manifestato dal minore riguardano proprio quegli istituti che, nel rito ordinario, attraverso una definizione «anticipata» dello stesso, acquistano rilevanza processuale plasmandosi sull'elemento volitivo del soggetto interessato. Ci si riferisce, come si può agevolmente intuire, al rito dell'applicazione di pena su richiesta delle parti, disciplinato dagli artt. 444 ss. c.p.p. ed, in generale, alla possibilità, attribuita al giudice dell'udienza preliminare, di concludere in quella fase il procedimento stesso.

Orbene, in riferimento al rito minorile, attraverso la disamina delle disposizioni che, in modo più o meno generico, attengono agli epiloghi dell'udienza preliminare, può evidenziarsi la diversa valenza che il sistema processualpenalistico attribuisce all'elemento «volitivo» del minore coinvolto in un procedimento penale ed, in particolare, alle conseguenze che la presenza o l'assenza di una precisa manifestazione di volontà da parte del minore stesso può provocare. In modo più preciso, si vuole fare riferimento proprio alle disposizioni previste negli artt. 25 e 32 del D.P.R. 448/88.

La prima di esse esclude l'applicazione, nel processo minorile, di alcuni riti speciali disciplinati dal codice ed espressamente non richiamati dallo stesso D.P.R. (art. 25: «nel procedimento davanti al tribunale per i minorenni non si applicano le disposizioni dei titoli II e V del libro VI c.p.p.»: nella specie, l'applicazione di pena su richiesta di parte ed il procedimento per decreto) 3; la seconda disciplina i possibili epiloghi dell'udienza preliminare, alla luce del consenso espresso dall'imputato (art. 32 primo comma: «nell'udienza preliminare, prima dell'inizio della discussione, il giudice chiede all'imputato se consente alla definizione del processo in quella stessa fase, salvo che il consenso sia stato validamente prestato in precedenza...») 4.

Orbene, per comprendere quale sia la valenza e quali siano le refluenze che, relativamente alle disposizioni testè citate, il rito minorile attribuisce all'elemento volitivo espresso dall'imputato minore di età, appare necessario leggere le norme sopra indicate alla luce della interpretazione che di esse fornisce la Corte costituzionale la quale, investita di alcune questioni di legittimità proprio in riferimento alle disposizioni in parola, ha attribuito al consenso del minore un carattere pressoché «polivalente», tuttavia seguendo un iter argomentativo spesso informato a canoni e principi diversi tra loro.

Naturalmente, per cogliere quanto affermato, appare necessario «entrare nel merito» delle pronunce della Corte, cercando di seguire le argomentazioni adottate ma, soprattutto, le differenti conclusioni cui lo stesso organo è pervenuto. Si vada per ordine.

In riferimento alla disposizione di cui all'art. 25 D.P.R. 448/1988, che esclude l'applicabilità del rito del c.d. «patteggiamento» al procedimento minorile, la Corte costituzionale, investita più volte della questione di legittimità dell'articolo de quo, anche se in riferimento a situazioni processuali differenziate, per la parte che esclude il «patteggiamento» dal rito minorile, ha sempre ritenuto le questioni non fondate, alla luce di percorsi argomentativi volti ad una chiave di lettura ancorata ad alcuni assiomi più volte espressi. Si cercherà di esssre più chiari.

Una prima sentenza relativa all'articolo in questione è da individuare nella pronuncia n. 135 del 1995 5, in seno alla quale la Corte ha seguito argomentazioni che possono essere riassunte sotto due principali asserzioni di diritto.

In primo luogo, viene enucleata la differenza «intrinseca» fra il rito «abbreviato» 6 (ammesso nel procedimento minorile) e quello del «patteggiamento» 7, affermandosi che, se il primo, pur comportando la decidibilità allo stato degli atti, «lascia tuttavia impregiudicati i poteri decisori del giudice e, quindi, aperte tutte le possibili conclusioni del giudizio» (con riferimento, soprattutto, alle pronunce favorevoli all'imputato), il ricorso all'applicazione di pena su richiesta di parte diminuirebbe i poteri decisori del giudice, il quale potrà limitarsi a controllare soltanto «la sussistenza dei presupposti per l'ammissibilità (del rito), la correttezza della quantificazione giuridica del fatto, la congruità della pena concordata ai fini e nei limiti dell'art. 27 terzo comma Cost.», potendo lo stesso pervenire ad una pronuncia di proscioglimento «solo se ricorrano le condizioni previste dall'art. 129 c.p.p.». Page 526

In secondo luogo, si sottolinea come la sostanziale equiparazione della sentenza emessa a richiesta di parte ex art. 444 ss. c.p.p. con una qualsiasi sentenza di condanna, pone l'accento sulle fondamentali implicazioni che l'elemento della «negozialità», che informa di sè il patteggiamento, potrebbe comportare. La Corte costituzionale, attraverso le argomentazioni esplicitate nella sentenza in argomento, sembra essersi ispirata ad un unico principio «sotteso» alla pronuncia in esame: quello di considerare il minore, sempre e comunque, come un soggetto non in grado di vagliare con lucidità e cognizione tutte le possibili conseguenze processuali delle proprie scelte.

Infatti, la stessa Corte, ponendo...

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