Note sui criteri di determinazione della proroga della durata della custodia cautelare e urgenza di un intervento legislativo correttivo

AutoreFabio Taormina
Pagine193-196

Page 193

Può senz'altro apparire inusuale, quando non inopportuno, che ci si dedichi al commento di norme processuali penali ordinarie traendo spunto da alcune prospettazioni contenute negli scritti di uno dei più importanti filosofi e pensatori del novecento europeo - senz'altro non annoverabile nella categoria dei «giuristi» a tempo pieno - quale è certamente stato Benedetto Croce.

Al contempo, in una contingenza temporale densa di grandi trasformazioni nel campo dell'ordinamento giuridico (Giudice Unico, modifica dell'art. 111 della Costituzione, per citarne alcune soltanto) può essere discutibile la scelta di dedicarsi all'esame di norme che regolano il procedimento de libertate non oggetto di modifica, sino ad ipotizzare, anche per esse, l'intervento legislativo correttivo.

E purtuttavia, nella consapevolezza che ogni riforma giuridica sia da apprezzare positivamente, in quanto comunque testimonianza di un lodevole intento riformatore, non appare retorico chiedersi per quale ragione l'intervento legislativo non si sia dispiegato a correzione di alcune storture che possono riscontrarsi nel codice di rito, al Libro quarto dedicato alle misure cautelari, sistema normativo divenuto tanto più importante quanto più si sono allungati i tempi di celebrazione dei giudizi di merito, tanto da «meritare» una proposta di referendum sulla quale ammissibilità dovrà a breve pronunciarsi la Consulta.

L'intento riformatore «liberale» («giusto processo», «corretto meccanismo di formazione della prova», etc. sono state le espressioni più frequentemente utilizzate, anche da importanti giuristi, per sintetizzare scopi e finalità delle innovazioni legislative suindicate) che ha animato il Legislatore a por mano alla riforma del codice di rito, ha costituito utile stimolo per la rilettura di alcune opere del filosofo di Pescasseroli, che di liberalismo è stato maestro ed i cui scritti conservano vera attualità anche con riguardo alla dottrina giuridica (la facoltà di Giurisprudenza della Sapienza fu il primo approdo universitario del filosofo) ancorché essi soltanto talvolta siano stati direttamente incentrati su argomenti strettamente giuridici (si pensi alla lettera dell'agosto 1898 diretta a Vilfredo Pareto e da quest'ultimo pubblicata con la quale esecrava i processi di Milano a carico di Turati e di altri dirigenti socialisti).

Vero è che si è in presenza di un sistema politico e di un sistema giudiziario radicalmente diverso rispetto a quello vigente al tempo in cui scriveva il Croce.

Ciò impedisce qualsivoglia tentativo di raffronto, e nega legittimazione ad una impostazione tendente ad - arbitrariamente - ipotizzare i termini di un commento Crociano sulle odierne vicende.

Tuttavia in una simile contingenza può essere producente trovare rifugio nei pensieri di un grande filosofo al fine di rinvenire una chiave di lettura di distonie sistematiche altrimenti irrisolvibili.

A questo proposito, una riflessione è d'obbligo: la nozione germanica di diritto come forza, che trova negli italiani Vico e Machiavelli illustri sostenitori, non fu affatto aborrita del Croce che negli scritti composti durante gli anni della guerra, poi raccolti in «Pagine sulla guerra», la sostiene e la relativizza, affermando che essa «ha larghe braccia, da comprendere così la forza dell'aristocrazia, come della democrazia, così quella della nazionalità, come l'altra dei diritti dell'uomo» 1.

Scontato appare quale debba essere per il Croce l'approdo di quella forza: quella «concezione totale del mondo e della realtà» che lo spingono a teorizzare come «il vero e concreto dovere è la libertà, la vera regola e disciplina è l'originalità della nuova forma che si attua. . . donde il rispetto che si ha e si deve avere, e il diritto che bisogna riconoscere, alla varietà delle disposizioni, tendenze, capacità umane. . .» 2.

Il porre l'individuo al centro di un universo fatto di ricerca di libertà non crea una diretta antitesi con il concetto di Stato: è questa la vera intuizione, laddove lo Stato etico, concepito da Hegel vien fatto coincidere con lo stesso individuo; «lo Stato vero siamo tutti noi, uomini di buona volontà, quando bene e saggiamente operiamo» 3.

Il metro del saggio operare si individua nel «metodo della libertà, metodo assoluto, perché dell'assoluta coscienza morale»; quanto alle modalità di attuazione, tuttavia, neppure lo Stato Liberale può omettere di far ricorso all'uso della forza perché, come da egli stesso ricordato, mutuando l'espressione da passati autori del rinascimento «gli Stati non si governano con i paternostri» 4.

Lo scopo ultimo dello Stato è non già - o non soltanto - quello di perseguire interessi edonistici, quanto quello di opporsi, perennemente, al mostro (l'Anticristo che è in noi, come dal titolo del saggio del 1946) «distruttore del mondo», che di volta in volta può assumere forme diverse - i totalitarismi, lo Stato Etico, etc. - ma che è sempre «godente della distruzione del mondo, incurante di non poterne costruire un altro. . .» 5.

Ciò nella piena consapevolezza che potrebbe, l'uomo, «vincere questi e quei mali particolari, ma non potrà mai vincere il male» 6.

L'attualità di questi pensieri è incontestabile a parere di chi scrive.

Il processo penale, ed il processo de libertate, costituiscono «passaggi» ad alto rischio per ogni sistema politico; garanzie della persona ed aspirazioni alla difesa sociale vi si combinano inscindibilmente e talvolta risulta difficile la ricerca di un punto di equilibrio.

Quest'ultimo, tuttavia, non può essere ricercato avendo qual modello un sistema...

Per continuare a leggere

RICHIEDI UNA PROVA

VLEX uses login cookies to provide you with a better browsing experience. If you click on 'Accept' or continue browsing this site we consider that you accept our cookie policy. ACCEPT