Decisioni della Corte

AutoreCasa Editrice La Tribuna
Pagine985-992

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@CORTE COSTITUZIONALE 30 luglio 2008, n. 305. Pres. Bile - Est. Amirante - Ric. Corte di cassazione in proc. L.S

Prova penale - Testimoni - Testimonianza indiretta - Polizia giudiziaria - Notizie apprese da persone informate sui fatti le cui dichiarazioni non siano state verbalizzate - Preclusione della testimonianza "de relato" nel caso in cui la verbalizzazione sia avvenuta - Illegittimità.

È costituzionalmente illegittimo, in riferimento agli artt. 3, 24 e 111 della Costituzione, l'art. 195, comma 4, c.p.p. ove interpretato nel caso che gli ufficiali e gli agenti di polizia giudiziaria non possono essere chiamati a deporre sul contenuto delle dichiarazioni rese dai testimoni soltanto se acquisite con le modalità di cui agli artt. 351 e 357, comma 2, lettere a) e b), c.p.p., e non anche nel caso in cui, pur ricorrendone le condizioni, tali modalità non siano state osservate. (C.p.p., art. 195) (1).

    (1) Si veda Cass. pen., sez. III, 10 maggio 2006, Piolo, in Arch. nuova proc. pen. 2007, 393, secondo la quale il divieto per gli ufficiali e gli agenti di polizia giudiziaria di deporre sul contenuto delle dichiarazioni acquisite da testimoni, sancito dal comma quarto dell'art. 195 c.p.p. vale anche nell'ipotesi in cui l'agente di P.G. non abbia materialmente raccolto a verbale le dichiarazioni medesime ma sia stato presente nel momento in cui esse venivano rese. Per Corte assise Palermo, 22 marzo 2003, in Giur. merito 2004, 567 con nota di CARINI, il divieto in questione non si applica in tutte le ipotesi nelle quali l'attività investigativa di raccolta delle dichiarazioni non abbia avuto una piena formalizzazione (come nel caso di semplici annotazioni), ovvero le dichiarazioni risultino inglobate nella forma di un diverso atto investigativo (ad esempio una relazione di servizio, un'informativa o un verbale di perquisizione), oppure, ancora, le dichiarazioni siano richiamate da un atto di un altro organo (come nel caso di dichiarazioni formate in una fase ispettiva e di vigilanza, poi convertita in attività di polizia giudiziaria) o di un organo di polizia diverso da quello che sta espletando l'indagine (ciò può verificarsi, ad esempio, per gli intrecci dichiarativi di diversi tronconi investigativi nelle vicende di criminalità organizzata). In tutti questi casi, non trattandosi di dichiarazioni consacrate in verbali, restano applicabili le regole generali in tema di testimonianza indiretta. Ne deriva, secondo il giudice di merito, che possono essere chiamati a deporre gli ufficiali di polizia giudiziaria sulle dichiarazioni da loro rese in via confidenziale da un soggetto individuato, in seguito deceduto, che siano state trasfuse in una relazione di servizio.

RITENUTO IN FATTO. - 1. Nel corso di un procedimento penale per associazione a delinquere di stampo mafioso e tentata estorsione aggravata, la Corte di cassazione ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24 e 111 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale degli artt. 195, comma 4, 627, comma 3, e 628, comma 2, del codice di procedura penale.

Premette, in punto di fatto, la Corte che l'imputato sottoposto al suo giudizio era stato ritenuto responsabile, dalla Corte d'assise di Reggio Calabria, di tutti i reati a lui ascritti e condannato alla pena di anni dodici di reclusione e lire 3.500.000 di multa; proposto appello, la Corte d'assise d'appello lo aveva assolto dal delitto di tentata estorsione aggravata, riducendo conseguentemente la pena. La Corte di cassazione, con sentenza del 14 febbraio 2002, aveva poi annullato la sentenza d'appello con rinvio al giudice di secondo grado, limitatamente all'assoluzione per il delitto di tentata estorsione aggravata. La Corte d'assise d'appello di Reggio Calabria, chiamata ad un secondo giudizio, aveva quindi condannato l'imputato anche per il delitto in contestazione, confermando nella sostanza la sentenza di primo grado e ricalcolando la pena in anni undici e mesi nove di reclusione, convertendo la multa in quella di euro 1.807,59.

Rileva la Corte di cassazione che il giudice di primo grado aveva affermato la responsabilità penale dell'imputato anche per il delitto di tentata estorsione aggravata sulla base delle dichiarazioni di due funzionari di polizia giudiziaria, i quali avevano riferito che l'episodio era stato loro narrato da un terzo, con dichiarazioni rese «fuori verbale». Sul punto erano stati svolti, in dibattimento, i dovuti confronti, e la Corte d'assise di primo grado aveva ritenuto di riscontrare in tal modo le dichiarazioni non verbalizzate. Di diverso avviso era stato il giudice d'appello, secondo cui la natura informale del colloquio tra i funzionari di polizia ed il terzo erano motivo di inutilizzabilità delle dichiarazioni rese dai primi, con conseguente assoluzione dell'imputato sul punto. La Corte di cassazione, però, aveva annullato la sentenza d'appello sul rilievo che non fosse corretta la valutazione in termini di inutilizzabilità, affermando nel contempo che «le dichiarazioni non verbalizzate, rese dalla persona offesa potevano essere oggetto di testimonianza indiretta da parte di ufficiali di polizia giudiziaria». Il giudice di rinvio - pur dando atto del nuovo orientamento della medesima Corte di cassazione, rappresentato dalla sentenza n. 36747 del 2003 delle sezioni unite (Torcasio) - si è ritenuto vincolato, ai sensi dell'art. 627, comma 3, c.p.p., al principio di diritto antecedentemente enunciato, ed ha quindi deciso nel senso della condanna dell'imputato valutando anche le testimonianze de relato dei due funzionari di polizia.

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Ciò premesso in ordine alla vicenda processuale, la Corte di cassazione riferisce che il difensore dell'imputato ha eccepito l'illegittimità costituzionale dell'art. 195, comma 4, c.p.p., nella parte in cui non prevede che non siano utilizzabili le dichiarazioni acquisite da parte della polizia giudiziaria da persone informate sui fatti, anche senza le modalità di cui agli artt. 351 e 357, comma 2, lettere a) e b), del codice stesso. Il difensore ha ricordato, inoltre, che le sezioni unite della Cassazione, con la menzionata sentenza Torcasio, hanno stabilito che il divieto di testimonianza indiretta da parte degli ufficiali di polizia giudiziaria vale tanto per le dichiarazioni da loro ritualmente documentate quanto per quelle non verbalizzate; tale interpretazione è stata ritenuta dalle sezioni unite come l'unica costituzionalmente accettabile, rendendo in tal modo incostituzionale quella resa dalla medesima Corte nel giudizio in corso, alla quale il giudice di rinvio si è adeguato.

Dopo aver dato conto della linea seguita dalla difesa dell'imputato, il giudice a quo dichiara che la questione di legittimità costituzionale prospettata dalla parte è rilevante, perché «l'utilizzazione delle testimonianze de relato dei due ufficiali di polizia giudiziaria è il perno sul quale ruota l'intero apparato argomentativo esibito dal giudice di rinvio».

In ordine alla non manifesta infondatezza, la remittente osserva che il giudice di rinvio, per pacifica giurisprudenza, può non uniformarsi al principio di diritto enunciato dalla Corte di cassazione ove la disposizione applicata sia stata, nel frattempo, modificata da una legge successiva. Nel caso specifico, però, la sentenza di annullamento è successiva alla modifica dell'art. 195, comma 4, c.p.p., introdotta alla legge 1º marzo 2001, n. 63 (Modifiche al codice penale e al codice di procedura penale, in materia di formazione e valutazione della prova in attuazione della legge costituzionale di riforma dell'articolo 111 della Costituzione), norma della quale la sentenza stessa «deve, dunque, necessariamente aver tenuto conto nel fornire l'interpretazione imposta al giudice di rinvio». Tuttavia, dopo l'annullamento della sentenza d'appello, ma prima che si pronunciasse il giudice di rinvio, la citata sentenza delle sezioni unite penale ha fissato il principio generale - da considerare come diritto vivente - del divieto di testimonianza indiretta da parte degli appartenenti alla polizia giudiziaria, affermando che questa è l'unica interpretazione conforme alla Costituzione. In sede di giudizio di rinvio, il principio affermato dalla sentenza di annullamento «in quanto immodificabile da parte del giudice e sottratto a ulteriori mezzi di impugnazione, acquista autorità di giudicato interno per il caso di specie», come risulta da numerose sentenze costituzionali e di legittimità. Al giudice remittente, peraltro, «sembra incongruo, irragionevole e iniquo che il giudice di rinvio debba ritenersi vincolato a un'interpretazione contra Constitutionem fornita dal giudice di legittimità e smentita da successiva sentenza delle Sezioni Unite». Di cui la necessità di sollevare questione di legittimità costituzionale degli artt. 627, comma 3, e 628, comma 2, c.p.p., poiché - osserva la Corte di cassazione - non ci si potrebbe, nella sede attuale, adeguare all'orientamento giurisprudenziale di cui alla sentenza Torcasio, in quanto il vincolo che la legge pone al giudice di rinvio necessariamente si riflette anche sul giudizio di legittimità avverso la sentenza dal momento pronunciata.

D'altra parte, prosegue l'ordinanza di rimessione, se ci si adeguasse all'orientamento imposto al giudice di rinvio dalla precedente sentenza della Corte di cassazione, vi sarebbe anche una violazione del principio di uguaglianza, perché si verificherebbe un'irragionevole disparità di trattamento tra l'indagato/imputato a carico del quale siano state rese dichiarazioni verbalizzate dalla polizia giudiziaria e colui nei confronti del quale tale verbalizzazione non sia stata compiuta.

In conclusione, la Corte di cassazione solleva questione di legittimità costituzionale:

1) dell'art. 627, comma 3, c.p.p., per contrasto con gli artt. 3, 24 e 111 Cost., nella parte in cui non consente al giudice di rinvio di rilevare e sollevare eventuale eccezione di incostituzionalità con riferimento ai...

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