Costituzionale

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CORTE COSTITUZIONALE 18 DICEMBRE 2009, N. 336

Pres. Amirante – est. Grossi – ric. Consiglio nazionale forense in proc. Discipl. G. D.

Avvocato y Giudizi disciplinari y Sentenza penale di patteggiamento della pena y Efficacia di giudicato nel giudizio disciplinare y Questione di legittimità costituzionale.

È infondata, in riferimento agli artt. 3, secondo comma, 24, secondo comma, e 111, secondo comma, della Costituzione, la questione di legittimità costituzionale degli artt. 445, comma 1 bis, e 653, comma 1 bis, del codice di procedura penale, nella parte in cui impongono l’estensione al procedimento disciplinare degli effetti del giudicato penale discendente dall’applicazione concordata della pena. (c.p.p., art. 445; c.p.p., art. 653)

RITENUTO IN FATTO

  1. - Il Consiglio nazionale forense, chiamato a pronunciarsi, in sede giurisdizionale, sul ricorso proposto dall’avvocato G. D. avverso la decisione con la quale il Consiglio dell’ordine degli avvocati di Trieste aveva irrogato al predetto professionista la sanzione disciplinare della sospensione dall’esercizio della professione per mesi dodici, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, secondo comma, 24, secondo comma, e 111, secondo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale degli artt. 445, comma 1-bis, e 653, comma 1-bis, del codice di procedura penale, nella parte in cui, equiparata la sentenza ex art. 444, comma 2, del medesimo codice ad una sentenza di condanna, prevede che essa abbia efficacia di giudicato nel giudizio per responsabilità disciplinare davanti alle pubbliche autorità, quanto all’accertamento della sussistenza del fatto, alla sua illiceità penale ed all’affermazione che l’imputato lo ha commesso.

    Il Consiglio rimettente ha premesso, in fatto, che nei confronti dell’avvocato G. D., il Consiglio dell’ordine degli avvocati di Trieste, ha ritenuto di applicare la sanzione disciplinare innanzi indicata ponendo a base della stessa i medesimi fatti oggetto della sentenza di “patteggiamento” divenuta irrevocabile, con la quale nei confronti del professionista era stata applicata la pena di anni due di reclusione per reati fallimentari. La statuizione era stata infatti adottata sul rilievo che la sentenza di “patteggiamento” esplica efficacia di giudicato in sede disciplinare quanto all’accertamento del fatto, della sua illiceità e sulla commissione del fatto da parte dell’imputato, con la conseguenza, dunque, che all’organo disciplinare non residua spazio per ricostruire diversamente i fatti e la responsabilità, come, al contrario, pretendeva l’incolpato, il quale «invocava la possibilità di dimostrare, con apposita istruttoria, la sua estraneità ai fatti e la non colpevolezza». A seguito di impugnativa dinanzi al Consiglio - odierno rimettente - l’incolpato, oltre a prospettare una “lettura costituzionalmente orientata” degli artt. 445, comma 1-bis, e 653, comma 1-bis, cod. proc. pen. (nel senso di ritenere priva di effetti preclusivi la sentenza di “patteggiamento” che non enunci gli accertamenti compiuti in ordine alla sussistenza del fatto, della sua illiceità e della responsabilità dell’imputato), insisteva per essere ammesso a provare fatti e circostanze atte ad escludere la propria responsabilità disciplinare, sollevando, «strumentalmente a ciò», eccezione di illegittimità costituzionale dei ricordati artt. 445, comma 1-bis, e 653, comma 1-bis, cod. proc. pen., per contrasto con gli artt. 3, secondo comma, 24, secondo comma, e 111, secondo comma, Cost.

    In punto di rilevanza, il Consiglio osserva che - tenuto conto della propria competenza a riesaminare anche nel merito la decisione impugnata e della possibilità di disporre, a tal fine, anche indagini istruttorie - le prove sollecitate dall’incolpato appaiono «in linea astratta, ammissibili e rilevanti in rapporto allo scopo che si prefigge il ricorrente». Al loro esame è però di ostacolo la disciplina censurata, sicché «l’eventuale rimozione per incostituzionalità dell’anzidetta interferenza, restituendo al giudice disciplinare l’autonomia di apprezzamento discrezionale della fattispecie, permetterebbe di assumere prove rivolte a dimostrare l’irrilevanza disciplinare della condotta». Né potrebbe farsi leva - osserva il Consiglio - sulla interpretazione adeguatrice suggerita dal ricorrente, essendo essa contrastata, sia dalla ratio della riforma operata con la legge 27 marzo 2001, n. 97 (Norme sul rapporto tra procedimento penale e procedimento disciplinare ed effetti del giudicato penale nei confronti dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche), introduttiva delle previsioni contestate - che «fu voluta per esigenze di moralizzazione dei comportamenti dei dipendenti della pubblica amministrazione » -, sia dalla giurisprudenza dello stesso Consiglio nazionale forense e della Corte di cassazione.

    In punto di non manifesta infondatezza, il Consiglio nazionale forense, dopo aver ripercorso le modifiche normative introdotte - in tema di effetti della sentenza di “patteggiamento” sui giudizi disciplinari - dalla legge n. 97 del 2001 e dalla legge 12 giugno 2003, n. 134 (Modifiche al codice di procedura penale in materia di applicazione

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    della pena su richiesta delle parti) e rilevato che le sentenze di questa Corte n. 394 del 2002 e n. 186 del 2004 non rilevano agli effetti della odierna questione, osserva che la stessa si presenterebbe non manifestamente infondata, anzitutto in riferimento al principio di ragionevolezza.

    Infatti - osserva l’ordinanza - il sistema censurato finisce per equiparare, «sotto il profilo della efficacia probatoria nel giudizio disciplinare, due tipi di pronunce strutturalmente ed ontologicamente difformi e cioè la sentenza di condanna a seguito di dibattimento e quella di applicazione della pena su richiesta delle parti». La prima, infatti, si fonda su un accertamento positivo di responsabilità a seguito di contraddittorio; la seconda, invece, si fonda solo sulla insussistenza di cause di non punibilità a norma dell’art. 129 cod. proc. pen., tanto che - puntualizza il provvedimento di rimessione - tale sentenza non giustifica la revoca della sospensione condizionale della pena in precedenza accordata. Del resto, osserva ancora il Collegio rimettente, ad ulteriore testimonianza della profonda diversità che caratterizza le due pronunce poste a raffronto, starebbe anche la tesi della giurisprudenza che esclude l’applicabilità, alla sentenza di patteggiamento, dell’istituto della revisione.

    Dal combinato disposto degli artt. 445, comma 1-bis, e 653, comma 1-bis, cod. proc. pen., emergerebbe, poi, un ulteriore profilo di irragionevolezza, giacché, mentre alla sentenza di patteggiamento viene assegnata efficacia di giudicato nel procedimento disciplinare, tale effetto viene invece escluso nel giudizio civile ed amministrativo. Tale differenziazione - osserva l’organo rimettente - sarebbe priva di base razionale, giacché le sanzioni disciplinari sono in grado di incidere (in misura anche più ampia di quanto può derivare da un procedimento civile o amministrativo) su beni costituzionalmente protetti, come il diritto alla autodeterminazione in materia di lavoro, con effetti non soltanto di ordine economico, ma «anche di gratificazione personale e professionale». La scelta del legislatore di riconoscere al soggetto “patteggiante” il pieno diritto alla prova in sede di giudizio civile ed amministrativo e precluderlo - compromettendo il diritto di difesa - in un «contesto processuale che assume rilevanza anche superiore perché involge beni fondamentali della persona», sarebbe, pertanto, in contrasto con il canone della ragionevolezza di cui all’art. 3, secondo comma, Cost. Da qui la violazione, anche, dell’art. 24 Cost. e del principio del giusto processo «declinabile in questo caso nella garanzia del contraddittorio (art. 111, comma 2, Cost)». Ciò, tenuto conto della natura giurisdizionale del procedimento davanti al Consiglio nazionale forense e delle attribuzioni anche di merito che a quest’ultimo sono riconosciute e che gli consentono le iniziative istruttorie ritenute necessarie. Né varrebbe osservare, in contrario, che il contraddittorio è rinunciabile e che l’imputato vi rinuncia implicitamente quando sceglie il rito premiale di cui all’art. 444 cod. proc. pen. Infatti - conclude il Consiglio - la «rinuncia ex art. 111, comma 5, Cost. non può che configurarsi come atto espresso e consapevole e riferito al contesto (processuale) in cui detto atto viene compiuto; non vi può pertanto essere spazio per un’abdicazione implicita maturata in un contesto autonomo e separato rispetto al procedimento disciplinare qual è quello della giurisdizione penale».

  2. - Nel giudizio di costituzionalità si è costituito l’avvocato G. D., depositando comparsa, nella quale si è nella sostanza riportato agli argomenti svolti dal Consiglio nazionale forense, chiedendo l’accoglimento della questione, con riserva di ulteriori deduzioni.

  3. - Ha inoltre spiegato atto di intervento il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dalla Avvocatura generale dello Stato, la quale ha chiesto dichiararsi infondate «le questioni» sollevate dal Consiglio nazionale forense. Ad avviso della difesa erariale, nel “patteggiamento” l’imputato accetta, come elementi probatori, quelli acquisiti durante le indagini, «rinunciando al suo diritto di “difendersi provando” ed allo stesso principio di non colpevolezza; in tal modo - deduce l’Avvocatura - ammettendo sostanzialmente la sua responsabilità».

    L’imputato, quindi, conosce le conseguenze delle sue scelte, tra le quali vi è anche «la impossibilità di contestare l’accusa disciplinare fondata sui medesimi fatti oggetto dell’imputazione penale “patteggiata”». È ben vero, poi, che dibattimento e “patteggiamento” sono assai diversi fra loro; ma per il giudice resta sempre la possibilità di pronunciare il proscioglimento ex art. 129 cod. proc. pen., così come uguale è la conoscenza...

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