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AutoreCasa Editrice La Tribuna
Pagine789-798

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@CORTE DI CASSAZIONE Sez. un., 10 maggio 2006, n. 15983 (ud. 11 aprile 2006). Pres. Marvulli - Est. Marzano - P.M. Ciani (conf.)Ric. Sepe ed altro.

Falsità in atti - In atti pubblici - Falsità ideologica - Foglio di presenza dei dipendenti della P.A. - Allontanamento dal luogo di lavoro - Omessa timbratura del cartellino segnatempo - Insussistenza del reato.

I cartellini marcatempo ed i fogli di presenza dei pubblici dipendenti non sono atti pubblici, essendo essi destinati ad attestare da parte del pubblico dipendente solo una circostanza materiale che afferisce al rapporto di lavoro tra lui e la pubblica amministrazione ( oggi soggetto a disciplina privatistica), ed in ciò esauriscono in via immediata i loro effetti, non involgendo affatto manifestazioni dichiarative, attestative o di volontà riferibili alla pubblica amministrazione. Ove, peraltro, tali attestazioni del pubblico dipendente siano utilizzate, recepite, in atti della pubblica amministrazione a loro volta attestativi, dichiarativi o di volontà della stessa, tanto può dar luogo ad ipotesi di falso per induzione, ai sensi dell'art. 48 c.p. (Mass. Redaz.). (C.p., art. 479) (1).

    (1) Già in passato avevamo illustrato il netto contrasto giurisprudenziale sorto in sede di legittimità sulla problematica affrontata. Si vedano in proposito Cass. pen., sez. V, 19 marzo 2003, Bua e Cass. pen., sez. V, 5 febbraio 2003, Capasso, entrambe pubblicate per esteso in questa Rivista 2003, 873. Per ulteriori approfondimenti giurisprudenziali si rinvia all'apparato motivazionale della sentenza in epigrafe che risulta bene argomentato con ampi riferimenti agli opposti indirizzi interpretativi formatisi sull'argomento.


SVOLGIMENTO DEL PROCESSO. 1. - Il 19 ottobre 2004 la Corte di appello di Palermo confermava la sentenza in data 7 marzo 2002 del Tribunale di Agrigento, con la quale Giuseppa Sepe e Vincenzo Caruso, riconosciute loro le attenuanti generiche prevalenti sulle contestate aggravanti, erano stati condannati a pene ritenute di giustizia per imputazioni, unificate sotto il vincolo della continuazione, di cui agli artt. 61, n. 9, 81, cpv., 640, cpv. n. 1, c.p. e 61, n. 2, 81, cpv., 479, in relazione all'art. 476 c.p.

Si contestava a tali imputati, nella loro qualità di pubblici dipendenti della Soprintendenza ai beni culturali ed ambientali di Agrigento, di avere falsamente attestato la loro presenza al lavoro nell'ufficio regionale presso il quale prestavano servizio, allontanandosene, invece, senza formale permesso e sottoscrivendo fogli di presenza e timbrando il proprio cartellino presso l'apposito orologio marcatempo, facendo così risultare orari di entrata e di uscita non rispondenti a quelli effettivi.

I giudici del merito ritenevano accertato che, in più occasioni, gli imputati avevano timbrato il proprio cartellino presso l'apposito orologio marcatempo all'inizio ed alla fine della giornata di lavoro, ma non avevano fatto risultare, mediante analoga marcatura, i propri allontanamenti dal luogo di lavoro, non dovuti a motivi di servizio; e che tanto integrava gli estremi dei contestati reati di truffa aggravata e di falso.

  1. - Avverso tale sentenza hanno proposto ricorsi gli imputati, per mezzo dei rispettivi difensori.

    2.1. - Giuseppa Sepe denunzia: a) vizi di violazione di legge e di motivazione, in relazione agli artt. 640 e 479 c.p. Quanto alla imputazione di truffa, deduce che i giudici dell'appello avevano omesso di considerare le specifiche censure dell'atto di gravame, con le quali s'era rappresentata la insussistenza sia degli artifici e raggiri sia del danno, posto che le sue assenze dal luogo di lavoro erano da riconnettersi alle «modalità di espletamento dell'attività di ufficio», «il comportamento..., così come sussunto nello schema dell'accusa e quindi della sentenza, era perfettamente noto nell'ambito dell'ufficio...»: in particolare, le sue assenze temporanee dal luogo di lavoro erano da riconnettersi alle sue funzioni di ufficiale rogante di atti pubblici da stipulare presso studi notarili, tanto non avendo consentito «né la realizzazione di un certo ingiusto profitto..., né un danno alla p.a. ...».

    Quanto alla imputazione di falso, lamenta che neppure al riguardo i giudici dell'appello avevano considerato le specifiche censure alla sentenza di primo grado, proposte con l'atto di appello. Rileva che in quella sede si era rappresentato che «è carente... sia l'elemento costitutivo del reato rappresentato dalla specifica condotta della immutatio veri, sia la consapevolezza della concreta e sostanziale immutatio veri»; essendosi «ipotizzata la condotta di falso per non aver indicato nel cartellino segna tempo gli allontanamenti intervenuti nel corso della intera giornata lavorativa, facendo apparire come se questa si fosse svolta con la costante presenza in ufficio, dall'indicato orario di entrata a quello segnato come orario di uscita», si era omesso di considerare che «in questo quadro il reato di falso non sussiste, per carenza di una condotta immutatrice dell'effettivo vissuto». «Il reato di falso - soggiunge la ricorrente - sarebbe stato configurabile solo se l'agente avesse segnato, nell'intermedio della giornata lavorativa, un periodo di allon-Page 790tanamento e di rientro, adducendo insussistenti ragioni di servizio...», circostanza nella specie non sussistente. La sentenza impugnata aveva rappresentato un «quadro assolutamente ed anzi esclusivamente settoriale di valutazione del devolutum», avendo, «in buona sostanza... limitato il proprio esame al solo aspetto della condotta della ricorrente, in relazione alla sua frequenza di uno studio notarile, esaminata come avulsa dal contesto generale della sua attività di ufficio», così individuando «il substrato del reato di truffa», ma «non si è posto il problema, ampiamente profilato nei motivi di appello, della insussistenza di una effettiva condotta fattuale di immutatio veri...»;

    b) il vizio di violazione di legge, in relazione all'art. 62, n. 4, c.p. La sentenza impugnata - lamenta la ricorrente -, dopo aver rilevato che «il danno subito dalla p.a. ... non può considerarsi rilevante», aveva escluso tale attenuante «avuto riguardo alla molteplicità delle violazioni poste in essere dall'odierna prevenuta», non presentando, perciò, il danno «quella caratteristica di esiguità, che costituisce elemento della specifica attenuante in esame», laddove, invece, «in tema di reato continuato il danno va valutato in relazione alle singole violazioni di legge».

    2.2. - Giuseppe Caruso, dal canto suo, denunzia: a) vizi di violazione di legge e di motivazione in relazione agli artt. 429, lett. c), 178, 179 c.p.p. Deduce che illegittimamente la sentenza impugnata aveva disatteso la eccezione difensiva di nullità del decreto di rinvio a giudizio per genericità dell'addebito, sull'erroneo assunto della sua tardiva proposizione, versandosi, invece, in ipotesi di nullità assoluta e non relativa; ed erroneamente aveva, altresì, ritenuto la infondatezza nel merito della proposta eccezione, «con argomenti che, a nostro avviso, hanno poco di giuridico»;

    b) vizi di violazione di legge e di motivazione, in relazione all'art. 640 c.p. «È emerso pacificamente dagli atti processuali - assume il ricorrente - che il comportamento dei dipendenti, cioè quello di allontanarsi dall'ufficio anche senza permesso, era un fatto ben noto al capo dell'ufficio stesso...», che «conosceva il comportamento dei suoi dipendenti, lo autorizzava implicitamente, a fronte di ciò i dipendenti, proprio per questo modo elastico di gestire l'attività lavorativa, producevano molto di più rispetto al momento in cui vigeva l'osservanza rigida dell'orario di lavoro»;

    c) vizi di violazione di legge e di motivazione, in relazione all'art. 476 c.p. Rileva che già con i motivi di appello si era dedotto che «nessun foglio di presenza era stato falsificato, né, del pari, era stato falsificato il nastro dell'orologio segnatempo...», sicché, «mancando qualsiasi documento falsificato, ammesso che i predetti atti possano costituire documento, rectius atto pubblico, era necessario individuare con quale mezzo il falso venne realizzato, non potendosi mai configurare un falso per omissione. Al più l'omissione poteva integrare l'artificio, non mai il falso...». Conclude rilevando che «la Corte di legittimità ha più volte affermato che né il foglio di presenza, né il nastro dell'orologio costituiscono atti pubblici...».

  2. - Il ricorso veniva assegnato alla quinta sezione penale di questa Suprema Corte, la quale, con ordinanza resa all'udienza del 26 gennaio 2006, ne disponeva la rimessione a queste Sezioni unite. Disattesa una eccezione di precedente giudicato proposta in udienza nell'interesse di Vincenzo Caruso, e ritenuti infondati il primo e secondo motivo di ricorso dello stesso Caruso ed il primo motivo di ricorso di Sepe nella parte riguardante il reato di truffa, quanto al terzo motivo di ricorso di Caruso ed al primo motivo di ricorso di Sepe relativamente al reato di falso rilevava la sezione remittente che - premesso che i giudici del merito hanno ritenuto che la falsità addebitata agli imputati consistesse in una omissione, cioè nell'allontanarsi dall'ufficio senza marcare in uscita il cartellino marcatempo -, al riguardo si era determinato un contrasto nella giurisprudenza di legittimità, alcune sentenze avendo ritenuto che la mancata timbratura, da parte del dipendente, del cartellino segnatempo in occasione di brevi allontanamenti dal luogo di lavoro non costituisce il reato di falso ideologico per omissione, altre avendo concluso in senso opposto; pur mostrando i giudici remittenti di aderire al primo di tali indicati orientamenti giurisprudenziali, sull'assunto che «deve ritenersi... che la mancata attestazione dell'allontanamento, dopo aver timbrato in ingresso il cartellino segnatempo, non equivalga all'attestazione di ininterrotta presenza in ufficio...» - sicché «la mancata timbratura del cartellino...

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