La contemporanea pendenza del giudizio di merito, dell’appello ex art. 310 C.P.P. e della nuova richiesta di misura cautelare

AutoreClaudia Russo
Pagine368-373

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@1. Premessa

– La sentenza in commento affronta la complessa problematica relativa ai rapporti tra il giudizio di merito, l’appello ex art. 310 c.p.p. e la richiesta reiterata da parte del pubblico ministero di applicazione di una misura coercitiva. Nel caso di specie, essendo stata rigettata dal giudice per le indagini preliminari la richiesta di applicazione di una misura custodiale, il pubblico ministero aveva esperito appello ex art. 310 c.p.p. avverso l’ordinanza di rigetto e, successivamente, aveva reiterato la richiesta ex art. 291 c.p.p. allo stesso giudice per le indagini preliminari con riferimento, però, a reati «in gran parte diversi» da quelli oggetto del gravame. Ciò dopo che lo stesso pubblico ministero aveva esercitato l’azione penale con riferimento anche a questi ulteriori reati.

Dopo l’inizio, dinanzi al giudice dell’udienza preliminare, del giudizio abbreviato richiesto dall’imputato, il giudice per le indagini preliminari, adito dalla nuova domanda cautelare, aveva atteso la definizione del giudizio di merito, che nel frattempo si era concluso con una sentenza di condanna, e aveva conseguentemente disposto la misura della custodia cautelare in carcere. Contro tale provvedimento l’imputato proponeva ricorso per cassazione, rilevando, tra l’altro, l’illegittimità dell’ordinanza custodiale, in quanto emessa dal giudice per le indagini preliminari in pendenza dell’appello del pubblico ministero avverso il provvedimento di rigetto della precedente richiesta, quando, invece, azionato tale tipo di gravame, secondo la giurisprudenza delle Sezioni unite1, sarebbe precluso al giudice che procede di decidere in merito alle eventuali ulteriori richieste del pubblico ministero di applicazione della misura nei confronti dello stesso imputato e per lo stesso fatto.

La Corte di cassazione ha giudicato infondato il ricorso, specificando che la preclusione, individuata dalle Sezioni unite in ordine ai rapporti tra l’appello e la nuova richiesta cautelare – al fine di evitare l’abnorme risultato di evitare un duplice, identico titolo cautelare, l’uno a sorpresa e immediatamente esecutivo e l’altro disposto all’esito del contraddittorio camerale – non possa trovare applicazione nel caso in cui, pur pendendo l’impugnazione cautelare avverso il provvedimento di rigetto e la domanda reiterata di applicazione della misura, sia intervenuta anche una sentenza di condanna ancorché non definitiva. E invero, come la preclusione tra appello cautelare e nuova domanda viene meno quando l’appello del pubblico ministero contro l’ordinanza del giudice per le indagini preliminari di rigetto della richiesta sia «esitato in decisione definitiva», realizzando così una limitata efficacia preclusiva allo stato degli atti2, allo stesso modo, qualora sia stato iniziato anche il giudizio di merito, la preclusione cessa allorché venga emessa la relativa decisione sia pure non definitiva. Infatti, quest’ultima esercita «un’efficacia preclusiva in ordine alle questioni in fatto o in diritto dedotte in quel giudizio e quindi in ordine alla sussistenza della piattaforma probatoria indispensabile per l’adozione del provvedimento coercitivo». Conformemente a questi principi, il giudice cautelare, nuovamente adito dopo l’esercizio dell’azione penale, deve statuire in ordine all’applicazione della misura richiesta solo all’esito «del procedimento penale principale», atteso che la definizione del giudizio di merito, impedendo la riproponibilità, in sede di procedimento incidentale de libertate, della questione concernente la sussistenza o no dei gravi indizi, così come «supera ed assorbe» l’appello proposto al tribunale del riesame, rimuove la preclusione alla decisione del giudice competente in ordine alla nuova richiesta di applicazione del provvedimento cautelare. Oltretutto, la Cassazione nel caso di specie, a conferma della soluzione adottata, ha rilevato che la prima richiesta cautelare avanzata dal pubblico ministero e il relativo appello si riferivano a reati in gran parte diversi rispetto a quelli per i quali successivamente era stata reiterata la domanda ex art. 291 c.p.p., con la conseguenza che la preclusione non poteva comunque trovare applicazione, in quanto essa opera nei confronti del giudice competente ex art. 279 c.p.p. soltanto ove l’appello ex art. 310 c.p.p. penda nei confronti della stessa persona e per lo stesso fatto.

@2. Il precedente intervento delle Sezioni unite

– Il sistema dei rimedi cautelari, come è noto, è stato oggetto di grande interesse sia in dottrina sia in giurisprudenza, attesa la rilevanza che assumono in un ordinamento, fondato sulla presunzione di non colpevolezza3, gli strumenti di controllo per quella “necessaria ingiustizia” costituita dall’applicazione della misura cautelare4. L’esistenza di tali rimedi ha la sua ragione di esistere nella necessità di trovare un giusto equilibrio tra le esigenze di garanzia della persona e le istanze di tutela sociale. Ciò è stato tenuto in considerazione dalla direttiva n. 59 della legge delega per l’emanazione del nuovo codice di procedura penale (L. n. 81 del 1987), in conformità alla quale il legislatore – continuando nella scelta operata con la legge 12 agosto 1982, n. 532 (istitutiva del tribunale de libertate) – ha introdotto nel sistema processuale un organico sistema di impugnazioni de libertate, che consente di tutelare il diritto di libertà in modo tale da bilanciarlo con le esigenze di tutela della collettività5. Ha previsto, infatti, diversi mezzi di impugnazione: per quanto concerne il controllo sul merito, il riesame6 e l’appello7; per i profili di legittimità il ricorso per cassazione8. In particolare, l’appello de libertate assume la fisionomia di uno strumento residuale rispetto all’ambito oggettivo e soggettivo proprio della richiesta di riesame, permettendo di controllare tutti quei provvedimenti adottati dal giudice in tema di misure cautelari, che non sono sottoponibili aPage 369 riesame9. Al riguardo si è affermato che l’appello cautelare si sostanzia in un rimedio dalla «doppia personalità», perchè attivabile sia nei confronti dei provvedimenti che incidono direttamente sulla libertà dell’imputato, quali quelli che dispongono misure cautelari interdittive o che «variano sfavorevolmente la gradualità delle limitazioni imposte», sia contro le ordinanze di revoca o modifica in melius o di reiezione delle richieste cautelari del pubblico ministero10.

A fronte della previsione sia di un unico rimedio per situazioni differenti sia di una disciplina inadeguata alle complesse problematiche poste dall’appello, sono sorte notevoli e complesse questioni interpretative in ordine a tale gravame. Uno dei problemi maggiormente dibattuti ha riguardato la possibilità (espressamente sancita per il riesame dall’art. 309, comma 9, c.p.p. non richiamato dall’art. 310, comma 2, c.p.p.) di acquisire e utilizzare da parte del tribunale della libertà elementi probatori sopravvenuti all’adozione del provvedimento impugnato e addotti dalle parti11. Secondo un primo indirizzo giurisprudenziale, il giudice d’appello, nell’ambito dei motivi prospettati e quindi nel rispetto del principio devolutivo, ha il potere di decidere su elementi diversi e nuovi rispetto a quelli utilizzati dall’ordinanza impugnata, dovendosi riconoscere, da una parte, l’opportunità ex art. 299, commi 2 e 3, c.p.p. di assicurare la costante attualità delle condizioni legittimanti il trattamento cautelare e, dall’altra, la possibilità di applicare in via analogica, a tal fine, la disciplina dettata per le prove sopravvenute nell’appello cognitivo dall’art. 603, comma 2, c.p.p.12. Di contro, un secondo orientamento giurisprudenziale sostiene che, nel procedimento d’appello avverso provvedimenti in materia di misure cautelari personali, l’oggetto risulta delimitato dai motivi e dagli elementi su cui è stata fondata la richiesta al giudice e su cui questi ha deciso, per cui il giudice dell’impugnazione non può assumere, a sostegno della propria decisione, elementi acquisiti dalle parti successivamente all’adozione del provvedimento cautelare e addotti nell’udienza camerale, atteso il mancato richiamo nell’art. 310, comma 2, c.p.p. dei commi 6 e 9 dell’art. 309 c.p.p., ed escludendosi l’applicazione analogica della disposizione eccezionale dell’art. 603 c.p.p. In questo caso gli elementi nuovi possono essere posti a base di una nuova richiesta del pubblico ministero ex art. 291 c.p.p., ovvero fatti valere dall’indagato o dal pubblico ministero ai sensi dell’art. 299 c.p.p.13. Una posizione intermedia distingue, invece, a seconda che l’appello cautelare sia attivato dall’imputato o dal pubblico ministero. In quest’ultimo caso viene esclusa la possibilità da parte del giudice dell’appello di valutare elementi indiziari sopravvenuti alla formulazione dell’atto di impugnazione, sebbene fatti pervenire tempestivamente, potendo il pubblico ministero portarli alla cognizione del giudice della cautela mediante una nuova richiesta ex art. 291 c.p.p., «mentre nell’ipotesi in cui l’appellante sia l’imputato tale preclusione non opererebbe in ossequio al principio del favor libertatis»14.

Su tale questione sono intervenute le Sezioni unite, con la citata decisione, che hanno preso posizione a favore della prima soluzione interpretativa, sulla base di argomentazioni differenti rispetto a quelle comunemente adottate dalla giurisprudenza delle sezioni semplici. Si è così affermato che, stante la medesimezza di natura tra l’appello di cognizione e il proprio omologo cautelare, è possibile acquisire nell’udienza camerale elementi nuovi, perché non dedotti o non scoperti in precedenza, producibili da entrambe le parti nel rispetto del contraddittorio, precisando che lo stesso possa essere garantito anche mediante la concessione di un congruo termine a difesa e purché gli elementi di novità riguardino lo stesso fatto contestato nella richiesta cautelare presentata al giudice per le indagini...

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