Prescrizione del reato e confisca dei beni del corrotto: dopo la sentenza delle S.U. n. 38834/08 il dibattito è ancora aperto

AutoreAntonia Giordano; M. Gabriella Imbesi
Pagine1144-1150

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@1. Superate le incertezze giurisprudenziali persiste un monito per il legislatore

– L’istituto della prescrizione – nella fattispecie del reato corruzione – che perennemente ripropone il difficile rapporto dialettico tra affermazione del diritto e legge morale, torna sovente nelle pronunce della Suprema Corte di Cassazione che rappresentano ormai uno scrigno di memoria storica dei molteplici tentativi di espungere, spesso con argomentazioni torrenziali, elementi di riflessione sulla ratio iuris di monito per il legislatore chiamato al compito impegnativo di delimitarne (ovvero estenderne) l’applicazione a determinati illeciti.

La sentenza della Suprema Corte n. 38834/08 del 10 luglio 2008, depositata il successivo 20 ottobre, è, ancora una volta, reiterativa di un orientamento consolidato rinnovato dall’invocazione dell’intervento normativo, richiesto, oltre che alla valutazione della manifesta opportunità di interpretare la coscienza sociale collettiva vulnerata (fattore che basterebbe da solo a mobilizzare l’inerzia), dalla necessità di non abdicare la presenza del paese nell’ambito giuridico sopranazionale.

La vexata quaestio sottesa sta nel chiarire in via interpretativa quale nesso intercorra tra l’art. 210 (rubricato come «Effetti dell’estinzione del reato e della pena»)1 c.p. e il successivo citato art. 240, comma 2, n. 1, c.p.

Le Sezioni Unite penali, rigettando il ricorso proposto dalla Procura della Repubblica2 presso il Tribunale di Napoli avverso l’ordinanza del Gip del tribunale stesso in un procedimento riguardante un caso di corruzione, risolvono la questione di diritto sostenendo che la confisca delle cose costituenti il prezzo del reato, prevista obbligatoriamente dall’art. 240, comma 2, n. 1, c.p.3 non può essere disposta nel caso di estinzione del reato.

Il principio giuridico affermato è inconfutabile se dedotto in virtù della ricostruzione delle norme, che i giudici di legittimità puntualmente richiamato farcendole con le pronunce non sempre allineate succedutesi negli anni. Tuttavia – e in ciò si ravvisa la novità addotta nel dispositivo – la Corte, sferzando il retorico richiamo al contenuto della misura di sicurezza, giunge alla conclusione che la rigorosa applicazione delle norme vigenti conduce di fatto a conclusioni che si rivelano anacronistiche rispetto all’evoluzione del tessuto sociale (di cui il legislatore dovrebbe farsi interprete) e distorsive rispetto ad altri livelli di cognizione più sensibili.

La Cassazione non a caso introduce le proprie valutazioni di opportunità facendole precedere dall’avversativa per sottolineare la crisi tra coerenza giuridica e logica legislativa, anche alla luce di una giurisprudenza autorevole, oltre che della Convenzione europea e delle risultanze offerte dall’Alto commissario per la lotta contro la criminalità organizzata, di cui si parlerà di seguito.

Si consideri al riguardo che, come peraltro affermato nella sentenza delle Sezioni Unite n. 5 del 25 marzo 1993, il giudice per poter disporre la confisca, nel caso di estinzione del reato, deve svolgere accertamenti che lo portano a superare i limiti della cognizione connaturati al sistema processuale.

L’accertamento prescinde da generiche preclusioni valutative di carattere discrezionale connesse alla presenza o assenza di sentenza di condanna ai fini della sua adozione e privilegia, come unico criterio valutativo, quello di verificare se vada disposta una confisca obbligatoria ovvero una confisca facoltativa (sempre nel rispetto delle modifiche legislative e delle evoluzioni giurisprudenziali «incisive»).

Ove si aderisce ideologicamente al rigido dettato normativo si addiverrebbe alla conclusione di accettare pacificamente ed acriticamente anche l’ingiustificabile scollamento presente tra il potere limitato del giudice penale rispetto a quello ampio riconosciuto al giudice civile nell’accertamento del fatto ai fini del giudicato. Nel processo civile (art. 576 c.p.c.), infatti, il convenuto può impugnare, solo limitatamente al riconoscimento della responsabilità civile, la sentenza di proscioglimento, lasciando impregiudicata la possibilità che l’organo giudicante dichiari (con sentenza di condanna alla restituzione e al risarcimento del danno) l’addebito di responsabilità a carico del convenuto medesimo nei cui confronti venga dichiarata l’estinzione del reato per prescrizione.

Le perplessità sono legittime e trovano un ulteriore supporto corroborante nella posizione assunta con oculata lungimiranza anche dalla Corte costituzionale fin dai primi anni sessanta, ossia fin da quando il dilagare del fenomeno della corruzione assumeva proporzioni pandemiche.

La Corte costituzionale, pur riconoscendo l’evidente difficoltà di elaborare principi uniformi per tutte le ipotesi di confisca dei beni strumentali alla consumazione del reato, sostenne che superare i ristretti confini della norma generale di cui all’art. 240 c.p. – il cui obiettivo resta quello di privare l’autore del reato dei vantaggi economici che da esso derivano – non significa depotenziare la portata quanto, piuttosto, adattarla ad un processo legislativo evoluto in materia; ciò nell’intento di mettere a punto armi più incisive di contrasto alla criminalità che hanno messo in crisi le costruzioni dommatiche del passato.

A lume di quanto addotto, la Suprema Corte arriva alla conclusione di sferzare il legislatore richiamandone l’attenzione, proprio quando il sentimento collettivo avverte con maggiore inesistenza la forza moralizzatrice dell’azione di governo.

La valutazione dei giudici, è evidente, va oltre il giudicato di legittimità che impone la riconduzione della fattispecie nell’alveo normativo cogente. Il principio di diritto viene formalmente rispettato allorquando si dichiara la estinzione di un reato per decorso dei termini di prescrizione e con essa l’applicabilità della confisca intervenuta sulle cose, che servirono oPage 1145 furono destinate a commetterlo ovvero di quelle cose che ne sono il prodotto o il profitto. Ciò che vulnera la coscienza sociale destabilizzandola sono gli effetti dell’inerzia legalizzata, relativamente a talune fattispecie delittuose ad alto potenziale inflazionistico (come, per l’appunto la corruzione) che mettono in crisi l’intero sistema di giustizia penale (e non solo) in tempi come quello attuale in cui l’azione moralizzatrice viene ventilata come impellente dai governi e la gente reclama insistentemente maggiori certezze. È proprio la sete di certezza che stride con le conseguenze prodotte dalla prescrizione su illeciti del tipo di quello oggetto del contenzioso in esame. Istituto presente negli ordinamenti giuridici moderni, la prescrizione deporta il reato nell’oblio per effetto del decorso del tempo sovvertendo, di fatto, i termini di priorità della tutela/certezza dell’azione penale, in quanto essa si traduce in concreto – e la fattispecie in commento è un esempio eclatante – nella tutela dell’interesse alla certezza processuale dell’imputato. Questi, infatti, viene «sottratto all’incertezza» derivante dalla condizione di appeso sine die in attesa di un provvedimento giurisdizionale. Tale situazione, che potrebbe apparire in assoluto aberrante, trova la propria giustificazione nella ratio del sistema processuale penale imperniato sulla funzione preventiva della pena. Infatti, decorso un certo lasso di tempo, da un lato, viene meno l’interesse della società ad accertare un reato non avvertito più come reale minaccia e la cui punizione non svolgerebbe alcuna funzione di deterrente; dall’altro, verrebbe comminata la pena nei confronti di un soggetto per il quale, dato il lungo periodo di tempo intervenuto dopo la commissione del reato, non sarebbe più utile un’opera di rieducazione. In buona sostanza si vuole affermare che la prescrizione può essere un istituto valido in un sistema di civiltà giuridica, ossia ha un senso in ordinamenti – organizzati nel rispetto di una chimerica deontologica in cui accusa e difesa si confrontino in un fair play, in un contraddittorio leale, basato sulla parità delle armi, senza colpevoli inerzie da una parte, né illegittimi abusi dall’altro – nei quali il principio del giusto processo non riposa in vacue petizioni di principio che possono trasformarsi in un disvalore con il rischio di creare un sistema che incentiva iniziative dilatorie, attraveso la cultura del rinvio e del c.d. «oltranzismo forense». Parlare della prescrizione significa evocare lo spettro del rapporto problematico con l’attività difensiva in generale. Infatti, impugnazioni, istanze di ricusazione, questioni di legittimità costituzionali, rinvii pregiudiziali certamente possono essere utilizzati a proprio interesse da una difesa che punti ad un’improcedibilità per prescrizione, lasciando aperto il dubbio sull’effettiva funzione di tali strumenti.

Qual è il punto di equilibrio in un sistema di rapporti così precario ed instabile per natura? L’art. 111 Cost. ha la funzione di assicurare la ragionevole durata del processo, quando si arrivi ad una decisione rapida nel merito o all’improcedibilità per ragioni processuali. La prescrizione non è strumento che consente la ragionevole durata del processo ma, al contrario, è proprio la ragionevole durata del processo che dovrebbe evitare la scadenza dei termini di prescrizione.

La prescrizione ha una rilevanza tanto maggiore quanto più la macchina giudiziaria funziona su tempi lunghi. Se per l’imputato e il suo difensore rappresenta un successo legittimo, per la pubblica accusa, al contrario, costituisce una chiara defaillance. Tutto ciò per affermare che essa finisce con l’essere un istituto dalla natura incerta: una sanzione nei confronti dell’apparato giudiziario che ha mostrato scarsa sollecitudine o vera e propria inerzia nel perseguire un reato ovvero uno strumento premiante per una pubblica accusa che propenda all’abuso strumentale della decorrenza dei tempi d’indagine e assuma un atteggiamento dilatorio...

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