Gli obblighi comunitari di tutela penale ambientale alla luce della direttiva 2008/99/CE e del Trattato di Lisbona

AutoreAndrea Satta
Pagine1222-1230

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@1. La competenza della Comunità europea in materia penale e specificamente in materia penale ambientale

Il lento, quanto inesorabile, percorso di integrazione europea sorretto da scelte valoriali proprie dell’ente sovranazionale e condivise dai Paesi membri ha determinato in questi ultimi anni una radicale inversione di tendenza circa l’impianto normativo da utilizzare a livello comunitario per perseguire le finalità di tutela dei beni e valori emersi in sede europea.

Sebbene l’art. 2 del TUE si sia da sempre riproposto l’obiettivo di “conservare e sviluppare l’Unione quale spazio di libertà, sicurezza e giustizia in cui sia assicurata la libera circolazione delle persone insieme a misure appropriate per quanto concerne i controlli alle frontiere esterne, l’asilo, l’immigrazione, la prevenzione della criminalità e la lotta contro quest’ultima”, attribuendo la competenza a perseguire tali finalità al Terzo Pilastro ed alle opzioni normative ivi previste (per tutte le decisioni-quadro), oggi si assiste, anche alla luce di talune sentenze innovative della Corte di Giustizia1, ad un nuovo disegno nei rapporti tra il diritto penale e l’ordinamento comunitario.

Il diritto penale, oggi, non è più inteso quale strumento normativo esterno alla Unione Europea idoneo, quale extrema ratio, a penalizzare condotte contrarie a principi e valori condivisi dai Paesi membri, ma viene inteso quale strumento complementare, fisiologico dell’attività comunitaria di perseguimento e miglioramento dei beni e valori condivisi a livello europeo.

Le scelte di penalizzazione provengono direttamente dalla Comunità Europea emergendo dalla base valoriale fatta propria della Comunità oppure emergendo dalla necessità di tutelare beni di diretta afferenza dell’organismo politico, economico e giudiziario della Comunità Europea, residuando ai Paesi membri della Unione Europea la possibilità, in via di diretta attuazione, di sanzionare adeguatamente e proporzionatamente le condotte stigmatizzate a livello europeo. Il progressivo sviluppo degli obiettivi propri della Comunità Europea, in uno con la politica di cooperazione in materia di sicurezza e giustizia per efficacemente opporsi alla criminalità transnazionale (finalità già adeguatamente perseguita con gli strumenti del Terzo Pilastro) hanno imposto un mutamento radicale nelle scelte normative del legislatore comunitario, il quale ha immediatamente percepito che la diretta penalizzazione di certe condotte offensive di beni particolarmente rilevanti (si pensi alla salubrità ambientale e alle aggressioni da inquinamento) si poneva come l’unica scelta da intraprendere ed in tal senso è stato indotto a far transitare moltissime materie, per competenza, dal Terzo al Primo Pilastro.

Oggi la Comunità Europea assorbe direttamente diverse istanze di tutela: sia quelle legate a doppio filo con la sussistenza del progetto di integrazione a livello europeo legate all’obiettivo del mantenimento e dello sviluppo della Unione Europea quale spazio di libertà, sicurezza e giustizia e quale forma di contrasto alla criminalità transnazionale, sia quelle relative alla tutela dei beni e valori propri della Unione Europea2.

La finalità perseguita dalla normazione comunitaria è pur sempre quella del riavvicinamento e della armonizzazione delle legislazioni penali dei singoli Stati membri della Unione Europea, non più attraverso gli strumenti normativi del Terzo Pilastro, oggetto di scelte operate dalla Politica, ma attraverso un diverso e ben più impositivo obbligo derivante dalla Comunità Europea attraverso i pregnanti strumenti normativi del regolamento e della direttiva.

Prima della sentenza C 176/033 incombeva sugli Stati membri della UE un precipuo obbligo di penalizzazione di rendere la violazione del precetto normativo comunitario, o di quello nazionale condiviso in sede comunitaria o da quella sede proveniente, adeguatamente tutelato attraverso la predisposizione di sanzioni che si era soliti definire appropriate, dissuasive, adeguate, efficaci, concrete etc.. L’attuale art. 10 TCE si poneva, secondo alcuni4, quale fonte per gli Stati membri di centrare il risultato voluto e predefinito dalla Comunità, con particolare riferimento alla predisposizione di sanzioni effettivamente adeguate alla tutela dei valori e beni comunitari. In tali casi la scelta della sanzione continuava a gravare inevitabilmente sul legislatore nazionale, chiamato ad operare la propria, discrezionale ed insindacabile scelta5, circa la sanzione da applicare alla fattispecie concreta. Rimaneva fuori dal controllo comunitario il tipo della sanzione da applicare a livello nazionale alla violazione dell’interesse comunitario o condiviso dai Paesi membri della UE, residuando alla Comunità il potere di intraprendere la procedura di infrazione nei confronti dello stato inadempiente.

L’affermazione di tali principi prende la stura dal famoso caso del mais greco6, in cui la Corte ha il meritoPage 1223 di definire una primordiale forma di obbligo per gli Stati membri di adottare le sanzioni maggiormente dissuasive, proporzionate ed effettive per la fattispecie concreta, pena la violazione e la inottemperanza alla fedeltà comunitaria7. La base valoriale condivisa nell’argomentazione della sentenza de quo risultava essere la assimilazione degli interessi comunitari da parte del legislatore nazionale che doveva prevedere per quegli interessi una appropriata tutela.

Subito dopo con l’ordinanza Zwarteld8 viene sostenuta la possibilità che gli Stati membri possano prevedere anche sanzioni di natura penale per garantire la efficacia del diritto comunitario e la salvaguardia dei suoi interessi diretti o derivati9. Similmente la sentenza Unilever10 prevede un primo nucleo di previsione diretta della sanzione penale per la violazione della normativa comunitaria imponendo uno stringente vincolo agli Stati membri di adottare sanzioni di natura penale per le violazione ad interessi comunitari. Si trattava, in ogni caso, di una competenza comunitaria puramente indiretta e subordinata alla remissione allo Stato membro della scelta circa la “appropriatezza” della tutela: ne derivava una assoluta, e come detto insindacabile, scelta del legislatore nazionale circa lo strumento sanzionatorio applicabile al caso concreto prodotto dalle istanze di tutela di origine comunitaria11.

Con la sentenza della Grande Sezione della Corte di Giustizia del 13 settembre 2005 nella causa 176/03 si delineano nuovi equilibri tra ordinamento comunitario e ordinamento nazionale. La competenza comunitaria ad imporre agli Stati membri obblighi di prevedere sanzioni penali passa dall’essere indiretta, sotto forma di scelte di appropriatezza della tutela, ad essere direttamente pregnante per il Paese membro tanto che la mancata previsione della sanzione penale diviene causa di inadempimento per lo Stato12. In sostanza con la sentenza in questione la valutazione circa la necessità di apprestare una tutela penale all’ambiente proviene direttamente dalle scelte di politica ambientale proprie della Comunità, mentre nella diversa ipotesi del caso Unliver la scelta proviene in sede giurisdizionale da parte della Corte di Giustizia la quale si limita a definire per quel caso specifico la necessità della tutela di carattere penale.

La portata della sentenza in questione incide fortemente anche sulla metodica di normazione comunitaria sino ad allora vigente. Se prima si prevedeva il contestuale ricorso al diritto comunitario ed al diritto della Unione europea per da un lato prevedere il tipo di violazione e l’interesse da tutelare e dall’altro prescrivendosi dei vincoli agli Stati membri nella scelta di penalizzazione13, oggi lo schema appare superato dalla possibilità che già in sede di primo pilastro si possa effettuare la scelta di incriminazione e prevedere il tipo di sanzione “adeguata” applicabile, e cioè, nel caso in questione quella penale.

La diretta competenza comunitaria in materia penale deriva, in altri termini, dalla procedura decisionale posta a base delle scelte di tutela dei valori e beni: poiché tale scelta è operata dal legislatore comunitario costui si porrà, sul piano della tecnica costruttiva del precetto penale, sullo stesso piano, se non gerarchicamente sovraordinato, rispetto al legislatore nazionale risultando essere colui che predetermina le basi del futuro precetto penale. Costui sarà concorrente con il legislatore nazionale ad individuare le singole modalità aggressive al bene giuridico da tutelare, divenendo la norma penale comunitaria, come acutamente sostenuto14, una “legge penale in bianco inversa” dove viene rimesso al legislatore nazionale il compito di descrivere nel dettaglio e sanzionare penalmente una condotta il cui disvalore penale le viene ad essere assegnato direttamente dalla norma comunitaria.

Il fenomeno in questione ha trovato un primo germe applicativo nella direttiva 2008/99/CE, diretta conseguenza normativa dell’annullamento della decisione quadro 2003/80/GAI deciso dalla Corte di Giustizia nella causa 176/03.

@2. La Direttiva 2008/99/CE e gli obblighi di penalizzazione

Il Parlamento europeo ed il Consiglio della Unione europea, deliberando secondo la procedura dell’art. 251 del TCE15, avendo tenuto conto delle disposizioni a tutela dell’ambiente contenute negli artt. 174 e 175 TCE, sostanzialmente dirette ad elevare i livelli di tutela per l’ambiente, hanno adottato la direttiva 2008/99/CE in data 19 novembre 2008 “sulla tutela penale dell’ambiente”. Come detto, l’adozione di tale direttiva è il portato giuridico della sentenza C 176/03 e del conseguente annullamento della decisione quadro 2003/80/GAI. La direttiva segue la proposta di direttiva presentata dalla Commissione europea il 9 febbraio 2007 ed aggiunge alla stessa alcuni argomenti che ne rafforzano le capacità di penalizzazione.

La Comunità mostrandosi particolarmente preoccupata per l’aumento dei reati ambientali e delle forme di criminalità ambientale...

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