Liquidazione della società e tecniche di controllo del capitale sociale: la responsabilità penale dei liquidatori per la indebita ripartizione dei beni sociali

AutoreDavide Romano
Pagine7-21

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@1. La tutela penale del capitale sociale nella riforma dei reati societari

Nelle ´linee generali dell'interventoª della Relazione governativa al D.L.vo 11 aprile 2002 n. 61 si legge che ´l'esigenza di razionalizzazione si traduce, in sede di attuazione, in primo luogo nella riduzione drastica del numero di reati. Basti pensare [...] alla contrazione del numero di fattispecie criminose previste a tutela dell'integrità del capitale sociale, unificando quelle caratterizzate da una sostanziale omogeneità tra le condotte ed un identico contenuto offensivo, a cui razionalmente corrisponde oggi un medesimo trattamento sanzionatorioª.

Sennonché, alla ´programmaticaª declaratoria di tutela del bene giuridico-capitale sociale, segue nei fatti 1) una riduzione dell'originario tessuto normativo ed una netta sterzata della protezione del patrimonio della società più che del capitale nominale.

La riforma dei reati societari, infatti, non ha inciso soltanto sul sistema dei controlli dell'informazione societaria ma, come avremo modo di dimostrare, ha profondamente ridimensionato anche il tessuto normativo di tutela penale del capitale sociale, rendendolo assolutamente inefficace.

La premessa non sembri oltremodo perentoria. Ed infatti, nonostante il diffuso riconoscimento della ´funzione globale di garanziaª 2) e la conseguente centralità dell'esigenza di tutela, anche penale, del capitale sociale, la recente modifica dei reati societari è, viceversa, connotata da una forte riduzione dei livelli sanzionatori e dalla previsione di una clausola di non punibilità e di una condizione di procedibilità. A ciò si aggiunga la scelta del legislatore di configurare, a tutela del capitale sociale, tipologie penali di reato di danno, che mal si conciliano con la ´peculiare caratteristica del bene protetto: capitale e riserve (legali) sono infatti soltanto grandezze contabili, come tali prive di un'attitudine satisfattoria, che può essere riconosciuta soltanto ai beni reali, costitutivi del patrimonio socialeª 3).

Se esula dall'economia del presente lavoro l'analisi delle posizioni culturali che, nella dottrina commercialistica ed aziendalistica, si sono succedute sul capitale sociale 4), è, in ogni caso, indispensabile delimitare sinteticamente la valenza interpretativa del concetto de quo, ai fini della necessaria distinzione tra capitale sottoscritto e capitale versato da un lato, e capitale sociale e patrimonio sociale 5) dall'altro, che utilizzeremo nelle pagine seguenti.

L'avvio non può che essere individuato nelle conclusioni della dottrina commercialistica: la modulazione del concetto di capitale sociale in capitale sociale nominale, inteso cioè come somma dei conferimenti - in danaro o in natura - effettuati dai singoli soci al momento della costituzione della società o in sede di trasformazione della società 6). Di qui la necessità di riconoscere che il capitale sociale costituisce l'unico vincolo di indistribuibilità dell'attivo 7), in quanto ´ il capitale nominale [...] rappresenta un dato rigido, destinato a rimanere immutato, indipendentemente dal concreto andamento della gestione socialeª 8) e può mutare esclusivamente a seguito di operazioni straordinarie con atti particolarmente solenni ed a determinate condizioni poste dal legislatore 9).

Il concetto per cui la rigidità del capitale sociale, intesa quale indistribuibilità dell'attivo, è già di per sè garanzia atta a tutelare gli interessi dei creditori sociali è presente nel codice di commercio del 1865 e nel codice di commercio del 1882, dove la garanzia per i creditori è ampliata dall'obbligo dell'accantonamento del fondo di riserva 10). La riforma del 1942 riprende la tradizione legislativa anteriore e trasfonde nel codice civile il concetto di capitale sociale e di riserva legale, la cui tutela e integrità costituisce garanzia per i creditori sociali 11). Va pertanto considerato come a detta rigidità del capitale sociale (nominale) il legislatore abbia da sempre attribuito una funzione conservativa dell'attivo patrimoniale 12), assoggettandolo ad una serie di vincoli che si traducono nell'indisponibilità da parte degli stessi soci a distrarre i beni che formano il capitale sociale nominale, non consentendo operazioni di ripartizione dell'attivo sociale se non per la parte eccedente il valore capitale nominale e disponendo all'art. 2424 c.c. di considerare in bilancio il capitale nominale come posta del passivo.

Il capitale sociale, quindi, riveste la duplice funzione di garanzia dei soci e dei creditori, conservando i connotati di integrità e di effettività. Il capitale sociale è, infatti, ´il necessario punto di Page 8 riferimento della partecipazione dei soci alla società. (...) La partecipazione dei soci alla società è una partecipazione per quote di capitale: si è soci in ragione del fatto di avere sottoscritto, o di avere successivamente acquistato, almeno una quota di capitale; ed è il numero delle quote sottoscritte od acquistate che dà la misura della partecipazione di ciascun socio alle societઠ13). Il capitale sociale è contemporaneamente garanzia della effettività del rapporto tra capitale e patrimonio sociale: ´il valore del patrimonio sociale non deve scendere (...) al di sotto di un terzoª 14) del capitale sociale.

Vengono così evidenziati i concetti di integrità, come ´disciplina diretta a salvaguardare il vincolo di indistribuibilitઠ15) del capitale e di effettività di quest'ultimo, inteso quale rigido rapporto di dipendenza tra capitale reale e patrimonio effettivamente esistente 16).

È in questo senso che il FORTUNATO individua una funzione atecnica di garanzia del capitale sociale, costituita dalla indistribuibilità dell'attivo 17) che ben si concilia con la duplice esigenza di tutela dell'esercizio regolare dell'impresa (con conseguente tutela dei diritti dei soci) e di garanzia del pagamento dei debiti sociali (con conseguente tutela dei creditori).

Da queste premesse appare subito evidente - e lo sarà ancora di più attraverso lo studio del reato di indebita ripartizione dei beni sociali da parte del liquidatore - che l'inversione degli interessi del legislatore della riforma nella prospettiva di una patrimonializzazione della tutela 18), degrada l'importanza del capitale sociale, rendendo inefficaci il tessuto normativo posto a protezione dello stesso e la sua funzione.

Il banco di prova dell'intenzione del legislatore di non focalizzare la tutela penale sull'integrità del capitale sociale, quanto sul patrimonio della società, è chiaramente fornito dal disposto dell'art. 2633 c.c., che prevede la sanzione della reclusione da sei mesi a tre anni, di gran lunga più rilevante di quanto non lo siano altre disposizioni che pure proteggono il capitale sociale. Da ciò il conseguente rischio che la tutela dell'integrità del capitale sociale venga poi concretamente rimessa alla interpretazione giurisprudenziale 19).

La tutela della fase di formazione del capitale sociale è assicurata dall'art. 2632 c.c. che dovrebbe presidiare ´nella fase costitutiva e in quella evolutiva l'effettività del capitale sociale inteso in senso tecnicoª 20); tale tutela è fornita da una ipotesi delittuosa che prevede la reclusione sino ad un anno. Durante la attività societaria, le norme a tutela del capitale sociale sono quelle di illegale ripartizione degli utili e delle riserve 21) (la cui previsione normativa ex art. 2627 c.c. è rappresentata nella contravvenzione punita con l'arresto sino ad un anno), nonché quelle delittuose di illecite operazioni su azioni o quote della società o della società controllante (la cui previsione sanzionatoria ex art. 2628 c.c. è quella della reclusione sino ad un anno), di indebita restituzione dei conferimenti [la cui previsione sanzionatoria ex art. 2626 c.c. 22) è quella della reclusione sino ad un anno] e di operazioni in pregiudizio dei creditori (con punizione da sei mesi a tre anni di reclusione ex art. 2629 c.c.).

A parte, quindi, la previsione normativa di cui all'art. 2629 c.c., è evidente come, già dal momento di formazione, il capitale sociale abbia avuto con la riforma del 2001-2002 una minore tutela legislativa. In questa cornice di minore tutela può anche essere spiegata la previsione normativa dell'art. 2629 c.c., che potrebbe sembrare in controtendenza. A ben guardare, infatti, la tutela del bene giuridico preveduta nel reato delle operazioni in pregiudizio dei creditori, pur apparentemente ricollegabile all'effettività ed integrità del capitale sociale, è da rinvenirsi soprattutto nelle problematiche connesse alla fusione ed alla scissione delle società, i cui effetti giuridici possono pregiudicare seriamente il patrimonio della società debitrice 23). Sicché l'effettivo dispiegarsi della norma di cui all'art. 2629 c.c. non è la tutela dell'integrità del capitale sociale, quanto della ´consistenza patrimoniale della societઠ24).

Nella fase liquidatoria della società, allorquando, cioè, il capitale sociale perde la sua funzione atecnica di garanzia, per rimanere esattamente individuabile solo ed esclusivamente come patrimonio sociale, si ravvisa una tutela penale di gran lunga più pregnante, quantomeno dal punto di vista sanzionatorio, rispetto a quella prevista per l'effettività e l'integrità del capitale sociale 25). Infatti, l'attuale art. 2633 c.c. sanziona il divieto di ripartizione dei beni sociali a detrimento dei creditori con la reclusione da sei mesi a tre anni, così di fatto conservando (almeno nel massimo edittale, ed a parte la sanzione pecuniaria soppressa) la sanzione reclusiva del previgente art. 2625 c.c. 26).

Di fronte ad una sostanziale riduzione delle sanzioni penali contenute nella riforma 27), e ad una degradazione della tutela del capitale sociale 28), appare evidente il segnale del legislatore del 2002 che ha voluto conservare la medesima pena afflittiva preveduta dalla normativa previgente. Infatti, nella sostanziale ottica della diminuzione di tutte le previsioni...

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