Bonifica e ripristino ambientale dei siti inquinati

AutoreSerenella Beltrame
Pagine711-714

Page 711

    Tratto da Il Codice dei rifiuti (di STEFANO MAGLIA e MASSIMO MEDUGNO), Ed. La Tribuna, 1999.

@1. Profili generali

L'articolata e complessa disciplina inerente la bonifica dei siti contaminati presenta notevoli aspetti innovativi rispetto alle regole previgenti in materia, incidendo sui presupposti e contenuti della responsabilità penale e civile connessa ai fenomeni di inquinamento e di danno all'ambiente nonché sulla normativa amministrativa in precedenza emanata.

Le disposizioni di cui all'art. 17, D.L.vo n. 22/97, completano ed integrano il quadro degli adempimenti e delle misure di ripristino previste dall'art. 14, D.L.vo n. 22/97, posto a tutela del «Divieto di abbandono» - come recita la rubrica di detto articolo - distinto nella duplice accezione di divieto di abbandono o deposito incontrollato di rifiuti e divieto di immissione di sostanze, solide o liquide, nelle acque superficiali e sotterranee. Coloro che violano quest'ultime prescrizioni sono obbligati a «procedere alla rimozione, all'avvio a recupero o allo smaltimento dei rifiuti ed al ripristino dello stato dei luoghi in solido con il proprietario e con i titolari di diritti reali o personali di godimento sull'area, ai quali tale violazione sia imputabile a titolo di dolo o colpa», salva l'applicazione delle sanzioni di cui agli artt. 50 e 51 del citato decreto. Le modalità di esecuzione delle operazioni a tal fine necessarie ed il termine entro cui provvedere vengono determinate con ordinanza sindacale e, una volta decorsa inutilmente la scadenza prefissata, si «procede all'esecuzione in danno dei soggetti obbligati ed al recupero delle somme anticipate».

L'inottemperanza al menzionato provvedimento amministrativo è penalmente sanzionata ex art. 50, comma 2, D.L.vo n. 22/97.

A differenza di detta disciplina, va sottolineato che quella di cui all'art. 17, D.L.vo n. 22/97, in carenza di specifiche indicazioni in tal senso, non è limitata al risanamento delle aree contaminate per effetto di rifiuti, intesi in senso restrittivo, bensì è estesa a tutti i siti inquinati a prescindere dall'origine di fenomeno che ha determinato tali situazioni, assumendo così la valenza di normativa generale per il settore ambientale, conformemente alla natura di legge - quadro caratterizzante il decreto legislativo in esame secondo le prospettazioni e gli obiettivi contenuti nella legge delega.

In proposito, il precedente di pari rilievo nell'ambito del diritto ambientale, inserito nello schema della tutela aquiliana, è quello delineato nell'art. 18, della L. n. 349/1986 1, che configura il danno che l'ecosistema può subire come «compromissione (dell'ambiente) e, cioè, alterazione, deterioramento o distruzione, cagionata da fatti commissivi o omissivi, dolosi o colposi, violatori delle leggi di protezione e di tutela e dei provvedimenti adottati in base ad esse» 2; in virtù di tale norma, l'autore dell'evento di danno è obbligato al risarcimento nei confronti dello Stato (espressamente legittimato ad agire in giudizio congiuntamente agli enti territoriali), ed il giudice con la sentenza di condanna dispone «ove possibile, il ripristino dello stato dei luoghi a spese del responsabile» (art. 18, commi 1 e 7, L. cit.).

Tali criteri sono espressione del più generale principio «chi inquina paga», di matrice comunitaria, in virtù del quale, in materia di inquinamento da rifiuti, il costo dello smaltimento deve essere sostenuto dal detentore che consegna i rifiuti ad un raccoglitore o ad una impresa autorizzata e/o dai precedenti detentori o dal produttore del prodotto che ha generato i rifiuti (art. 15 dir. 91/156/CEE).

Secondo la ricostruzione del giudice delle leggi, «l'ambiente è stato considerato un bene immateriale unitario sebbene a varie componenti, ciascuna delle quali può anche costituire, isolatamente e separatamente, oggetto di cura e di tutela; ma tutte, nell'insieme, sono riconducibili ad unità... L'ambiente è protetto come elemento determinativo della qualità della vita. La sua protezione non persegue astratte finalità naturalistiche od estetizzanti, ma esprime l'esigenza di un habitat naturale nel quale l'uomo vive ed agisce e che è necessario alla collettività e, per essa, ai cittadini, secondo valori largamente sentiti; è imposta anzitutto da precetti costituzionali (artt. 9 e 32 Cost.), per cui esso assurge a valore primario ed assoluto.

Vi sono, poi, le norme ordinarie che, in attuazione di detti precetti, disciplinano ed assicurano il godimento collettivo ed individuale del bene ai consociati; ne assicurano la tutela imponendo a coloro che lo hanno in cura, specifici obblighi di vigilanza e di interventi. Sanzioni penali, civili ed amministrative rendono la tutela concreta ed efficiente.

L'ambiente è, quindi, un bene giuridico in quanto riconosciuto e tutelato da norme.

Non è certamente possibile oggetto di una situazione soggettiva di tipo appropriativo: ma, appartenendo alla categoria dei c.d. beni liberi, è fruibile dalla collettività e dai singoli.

Alle varie forme di godimento è accordata una tutela civilistica la quale, peraltro, trova ulteriore supporto nel precetto costituzionale che circoscrive l'iniziativa economica privata (art. 41 Cost.) ed in quello che riconosce il diritto di proprietà, ma con i limiti della utilità e della funzione sociale (art. 42 Cost.)» 3.

Seppur il bene-ambiente non può essere oggetto di appropriazione, il danno che può patire è di natura patrimoniale, in quanto valutabile in termini economici, suscettibile dell'attribuzione di un prezzo 4, qualificabile come «collettivo», se non «pubblico», come sottolineato in dottrina.

La normativa di cui all'art. 18, L. n. 349/86, per varie ragioni pure riconducibili alla formulazione, in parte lacunosa, circa i meccanismi che avrebbero dovuto presiedere ed assicurare l'effettività in concreto degli adempimenti relativi al recupero ambientale dei siti degradati nonché delle azioni di risarcimento ivi indicate, si è rivelata da subito di scarsa applicazione e da più parti è stato sollecitato un intervento legislativo al fine di porre rimedio alle carenze evidenziate.

La principale novità introdotta con la disciplina di cui all'art. 17, D.L.vo n. 22/97, che la differenzia nettamente dall'ipotesi pregressa ora divenuta residuale, è costituita dalla configurazione di una responsabilità civile oggettiva 5 (oltre a quella per dolo o colpa) nei confronti dei soggetti che hanno provocato l'inquinamento o un pericolo attuale di inquinamento (infatti detta disposizione, al comma 2, Page 712 obbliga ai prescritti adempimenti anche coloro che hanno cagionato «in maniera accidentale» tali situazioni), mentre prima l'illecito civile, ex art. 18, L. n. 349/86, poteva trarre origine esclusivamente da fatti dolosi o colposi, secondo il modello delineato nell'art. 2043 c.c. 6.

L'imposizione di misure di ripristino dirette a realizzare la tutela dell'ambiente «in forma specifica» non è nuova nella normativa speciale e si è già avuto modo di variamente sperimentarla sul piano giudiziario, anche in sede esecutiva, con le ipotesi previste dalla legge Galasso (v. art. 1 sexies, L. n. 431/85) e da quella urbanistica (v. art. 7, ult. comma, L. n. 47/85).

In dottrina e giurisprudenza, il dibattito sulla natura e sui contenuti di tali provvedimenti adottati dall'autorità giudiziaria nonché sull'individuazione dell'organo competente ad eseguirli, in carenza di indicazioni legislative, è stato particolarmente ampio, fonte di soluzioni alquanto divergenti (l'obbligo di ripristino è stato inquadrato secondo alcuni come pena accessoria, secondo altri come sanzione penale e, per l'indirizzo prevalente, come sanzione amministrativa) fino alla recente sentenza della Suprema Corte in materia di ordine di demolizione dei manufatti abusivi, inteso nella sua accezione più ampia di riduzione in pristino, che ha posto dei punti fermi su tali questioni 7.

A differenza delle menzionate normative che non prevedono omologhe indicazioni in relazione ai termini utilizzati, il decreto legislativo n. 22/97 reca le definizioni di «bonifica», intesa come «ogni intervento di rimozione della fonte inquinante e di quanto dalla stessa contaminato fino al raggiungimento dei valori limite conformi all'utilizzo previsto dell'area» (v. art. 6, lett. n), D.L.vo n. 22) 8, e di «messa in sicurezza», qualificata come «ogni intervento per il contenimento o isolamento definitivo della fonte inquinante rispetto alle matrici ambientali circostanti» (v. art. 6, lett. o, D.L.vo n. 22).

La messa in sicurezza del sito attiene ad una fase immediatamente precedente alla bonifica, ovvero alle operazioni volte a ristabilire i valori limite compatibile con quanto previsto dagli strumenti urbanistici per l'utilizzo del territorio considerato, ed è costituita dagli interventi urgenti miranti ad impedire in modo definitivo ulteriori diffusioni degli inquinanti e il contatto con le fonti inquinanti presenti nel sito 9.

Come si evince dal dato testuale, la nozione di bonifica assume valenza relativa in quanto è correlata ai limiti di accettabilità della contaminazione del suolo e delle acque stabiliti per la specifica destinazione dell'area e, quindi, a seconda della classificazione d'uso del sito interessato contenuta nei piani urbanistici si potranno avere, come obiettivi da perseguire, valori limite diversificati.

Le «misure di sicurezza» sono quelle operazioni dirette «ad impedire danni derivanti dall'inquinamento residuo, da attuarsi in via prioritaria con l'impiego di tecniche e di ingegneria ambientale»; l'adozione di tali misure segue l'attività di bonifica o, per meglio chiarire, consegue al fallimento di quest'ultima nel senso che rappresenta l'extrema ratio nel momento in cui il rispetto dei limiti di accettabilità di contaminazione «non possono essere raggiunti neppure con l'impiego delle migliori tecnologie disponibili a costi sopportabili» 10 (art. 17, comma 6, D.L.vo n. 22/97).

Nel testo del decreto non si...

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