Il Dolo Tentativo e il Difficile Apprezzamento della Rilevanza Sintomatologica degli Elementi Fattuali

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@1. L'elemento soggettivo del tentativo e la sua armonizzazione strutturale con il requisito della univocità degli atti

- Il presente contributo trae alimento dalla sentenza di legittimità sopra riportata, la quale ritorna ad affrontare la spinosa problematica relativa al peculiare atteggiarsi dell'elemento psicologico nello stampo della fattispecie anticipatoria della punibilità per eccellenza: il delitto tentato 1.

Sia pure attardarsi per diverso tempo sugli aridi lidi della mera speculazione teorica, la tematica dell'elemento soggettivo del tentativo ha finito, nel tempo, per innervare la giurisprudenza di merito e di legittimità.

Ma procediamo con ordine.

Muovendo dalla considerazione che il dolo che supporta la figura autonoma del delitto tentato è un dolo di consumazione, si tratta di stabilire se vi sia una perfetta corrispondenza con l'elemento psicologico doloso che supporta il delitto consumato.

In altri termini, occorre verificare se il delitto tentato sia compatibile o meno con tutte le forme di dolo operanti nell'ambito della consumazione, ivi compreso il dolo eventuale, vale a dire quella particolare forma di dolo che si manifesta allorquando il soggetto agente, ponendo in essere una condotta diretta ad altro risultato, si rappresenta la possibilità concreta di verificazione di una conseguenza accessoria penalmente rilevante e, ciononostante, agisce, a costo di cagionarlo e, quindi, accettando il rischio che la medesima si verifichi.

Orbene, un primo orientamento dottrinale ammette la compatibilità del dolo eventuale con la figura criminosa del tentativo, facendo leva sull'assenza di specifiche previsioni normative che distinguono il dolo del delitto tentato dal dolo del delitto consumato. Secondo tale impostazione dommatica, infatti, la differenza strutturale tra le due autonome figure delittuose sarebbe da ravvisarsi nella sola struttura oggettiva 2.

La teorica sopra richiamata trova un ulteriore conforto nella concezione oggettiva della univocità degli atti. In particolare, è stato osservato che la direzione non equivoca degli atti costituisce una caratteristica che inerisce esclusivamente al protocollo della tipicità oggettiva della fattispecie tentata, senza che alcuna ricaduta sia riscontrabile sul piano dell'elemento soggettivo doloso: ragion per cui non si richiede che il dolo si manifesti, sempre e comunque, sotto forma di intenzione (o volontà) 3 diretta a commettere il reato. 4

I riflessi di un simile argomentare sul piano processual-probatorio appaiono di immediata evidenza: allorquando ci si trovi al cospetto di elementi fattuali «muti» sotto il profilo della intenzionalità, il giudice avrà gioco facile nell'affermare la penale responsabilità dell'imputato a titolo di tentativo, potendosi adagiare sulla mera supposizione che l'agente fosse ben consapevole, al momento della realizzazione della condotta, del rischio di cagionare eventi lesivi più gravi di quelli direttamente voluti. Non a caso sono numerose le, sia pur risalenti, pronunce giurisprudenziali che si sono espresse in senso favorevole alla compatibilità del dolo eventuale con il tentativo. 5

Secondo un approdo dottrinale ormai maggioritario 6, di contro, il dolo eventuale risulterebbe assolutamente incompatibile, sotto il profilo strutturale, con la figura autonoma del delitto tentato.

Un primo argomento posto a sostegno di tale teo- rica si rinveniva, illo tempore, nella ormai tramontata concezione probatoria o soggettiva del requisito dell'univocità degli atti. In tale orizzonte concettuale, la nota strutturale dell'univocità, scolpita nella fattispecie di cui all'art. 56 c.p., attenderebbe la funzione precipua di indiziare l'esistenza dell'intenzione criminosa del soggetto agente: con la conseguenza che il requisito oggettivo della direzione non equivoca degli atti finirebbe per tramutarsi nella prova di una volontà intenzionalmente diretta alla realizzazione del reato consumato.

Più convincentemente, è stato sostenuto che quand'anche si accogliesse la c.d. concezione oggettiva dell'univocità degli atti, non potrebbe comunque sottacersi l'incompatibilità ontologica tra la direzione non equivoca degli atti e il dolo eventuale. Ciò in quanto, se è vero che il concetto di tentativo, secondo il significato comune, riecheggia una tensione comportamentale, o meglio, una condotta orientata verso uno scopo e se è altresì vero che tale tendenza risulta ulteriormente enfatizzata dalla nota strutturale della univocità degli atti, la mera accettazione del rischio di verificazione di un evento lesivo, preveduto come meramente probabile o, addirittura, solo possibile (sia pure in concreto), non pare trovare quartiere nella costellazione del delitto tentato.

In altri termini, anche se il requisito della non equivocità degli atti inerisce al protocollo della tipicità oggettiva, la necessaria osmosi strutturale cui va incontro la figura del delitto tentato nel suo complesso deter- mina l'armonizzazione del comportamento materiale con il dato psicologico sottostante agli atti idonei e diretti in modo non equivoco a commettere un delitto deve necessariamente corrispondere la volontà diretta a conseguire il risultato criminoso preso di mira. 7

Alla luce di tali considerazioni appare di tutta evidenza che, attribuendo cittadinanza alla figura del dolo eventuale nell'ambito del tentativo, si finirebbe per legittimare un'arbitraria ed inaccettabile interpretazione analogica in malam partem, consentendo l'operatività della clausola di estensione della punibilità di cui all'art. 56 c.p. rispetto a fattispecie realizzate con atti idonei ma non diretti in modo univoco a commettere il delitto.

La teorica della incompatibilità del dolo eventuale con il delitto tentato condivisa, del resto, dalla giurisprudenza maggioritaria, appare senza ombra di dubbio quella preferibile, avuto riguardo al fatto...

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