L’appello del P.M. tra incostituzionalità e giusto processo

AutoreLuigi Favino
Pagine153-155

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@1. Considerazioni sulla legge 46/2006 parzialmente dichiarata incostituzionale

– Ha avuto vita brevissima l’avveniristica legge n. 46/2006, sulla inappellabilità da parte del P.M. delle sentenze di assoluzione dell’imputato, falcidiata dalla Corte Costituzionale con sentenza del 6 febbraio 2007, n. 261, che, tuttavia, ne ha lasciato in piedi buona parte riguardante l’esame dei ricorsi avanti alla Suprema Corte.

Ciò malgrado, quando ancora era in vigore, si era creata una giurisprudenza restrittiva, specie nell’ambito della VII Sezione della Cassazione, capace di limitarne in modo evidente il campo di applicazione.

Una di queste sentenze, in particolare (sez. VII, 11 maggio 2006, Pres. Pioletti – Rel. Davigo – Ric. Palma – n. 27518/06, dep. 2 agosto 2006), ha sostanzialmente escluso dal beneficio della declaratoria dell’inappellabilità del P.M. contro la sentenza assolutoria dell’imputato, sanzionando con l’inammissibilità il ricorso con cui il prevenuto si doleva della inaspettata condanna in appello. La legge sull’inappellabilità del P.M., quando era pienamente in vigore, è stata in sostanza dimezzata in Cassazione dalla sanzione di inammissibilità. La Suprema Corte ha motivato sul punto testualmente: «Il fumus dei motivi nuovi è manifestamente infondato poiché la disciplina transitoria non ha previsto, se non nell’ipotesi di annullamento con rinvio di una sentenza di condanna conseguente ad appello del P.M. avverso sentenza di proscioglimento, che tale gravame sia dichiarato inammissibile». Orbene riteniamo, al contrario, che è proprio questa la ragione per cui la sentenza e l’indirizzo giurisprudenziale seguito dalla Suprema Corte non sia esatto.

Quando la legge Pecorella sull’inappellabilità è stata finalmente pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n. 44 del 22 febbraio con il n. 46 del 2006 ha segnato subito un punto di riferimento essenziale, visto che la nuova disciplina che stabiliva l’inappellabilità delle sentenze di proscioglimento, con qualsiasi formula siano state emesse, è retroattiva e si applica a tutti i procedimenti in corso, anche in Cassazione, e con effetti immediati, addirittura anche ai giudizi di rinvio nei quali è stata annullata dalla Suprema Corte una sentenza di condanna in appello che abbia riformato un’assoluzione in primo grado. Salvo il caso in cui l’annullamento della sentenza di appello riguardi esclusivamente i capi relativi alla pena o ad una misura di sicurezza.

Tale norma costituiva l’immediata conseguenza del principio della formazione del giudicato di cui all’art. 624, co. 2, c.p.p. e più volte ribadito dalla Cassazione (v. Cass., sez. I, ud. 6 maggio 2000, in CED n. 215949).

È parso ragionevole escludere un effetto tanto dirompente nel caso in cui la «tenuta» della pronunzia di appello in punto di responsabilità sia stata già verificata dalla Cassazione, con la conseguente formazione del giudicato sui relativi capi.

La disciplina transitoria non affrontava il problema dell’eventuale inammissibilità del ricorso proposto avverso la sentenza di condanna in grado di appello. Se ne deve dedurre che, anche in questo caso, la dichiarazione d’inammissibilità dell’appello del P.M. avesse natura preliminare rispetto ad ogni ulteriore questione, ivi compresa quella dell’ammissibilità dell’ulteriore mezzo di impugnazione esperito. Infatti, finché la Corte di Cassazione non si pronunziava sull’inammissibilità del ricorso, il procedimento era, a tutti gli effetti, pendente; conseguentemente il giudicato non poteva dirsi maturato; il vizio...

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