Il contraddittorio e la genuinità della prova: il diritto penale a «servizio» dell'attività di accertamento degli organismi giurisdizionali

AutoreMarcella Marcianò
Pagine1265-1276

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@1. Premessa: il principio del contraddittorio nell'attuale assetto normativo

- Il principio del contraddittorio rappresenta uno dei fondamentali pilastri su cui poggia l'intero sistema processualpenalistico italiano1: una frase breve ed incisiva, ma sicuramente già letta, che potrebbe costituire il punto di partenza per una serie infinita di articoli e manuali. Oggi, si tende, infatti, a stendere numerose pagine sul rilievo dei principi del giusto processo e sulla funzione che il metodo epistemologico assume ai fini dell'accertamento del fatto di reato. Nulla di più rilevante per lo studio dell'attuale sistema processuale. Ma sono pagine preziose ed esaustive che portano alla luce un ulteriore problematica, degna anch'essa di uno studio approfondito.

Non può, infatti, non mettersi in evidenza il rilievo che uno studio sistematico di diversi settori del diritto assuma per una analisi proficua di quanto sin qui fatto dai legislatori che si sono susseguiti nel tempo in materia di prova dichiarativa: il diritto penale e il diritto processuale penale, in altri termini, non rappresentano due mondi a parte. Essi si muovono nella stessa direzione e perseguono la medesima finalità.

Ma non ci si può limitare a sottolineare, come il tradizionale studio accademico propone, che il diritto processuale è uno strumento attuativo del diritto sostanziale. Spesso accade il contrario, in quanto il diritto penale deve «porsi a servizio» dell'attività di accertamento degli organismi giurisdizionali.

Una comune consapevolezza è quella per cui la verità non può che conseguirsi se non con l'ausilio degli strumenti conoscitivi della scienza umana2; ora, l'esperienza del processo ha mostrato come, in realtà, la perfetta coincidenza tra verità fattuale e verità processuale, che scaturisce da uno «schema falsificazionista leggibile alla luce del pensiero epistemologico di KARL POPPER», sia una «novella utopia platonica»3.

Quanto detto costituisce, però, solo lo spunto per una serie di problematiche che la legge di riforma sul giusto processo, attraverso l'espresso riconoscimento del principio del contraddittorio nella formazione della prova, ha posto in evidenza.

Una prima questione degna di attenzione è legata alla scelta del legislatore per un processo aperto al contributo delle parti: essa, infatti, non poteva che avere, come logico corollario, un intervento di riforma del diritto penale sostanziale finalizzato a garantire, attraverso la previsione di norme incriminatrici volte a tutelare la testimonianza, la genuinità della prova dichiarativa4.

Riproponiamo, dunque, la questione in pochi tratti essenziali.

La consacrazione assoluta del valore epistemologico del contraddittorio nel sistema processuale penale, e il tentativo della riforma del 2001 (attuativo della legge n. 2 del 1999) di concretizzare una effettiva parità delle «armi» dinanzi ad un giudice «terzo» ed «imparziale» hanno costituito il punto di origine dei numerosi interventi normativi in materia di disciplina sostanziale, volti a garantire il buon funzionamento dell'intero sistema processuale5.

Premesso che le particolarità strutturali dell'incriminazione non possono che avere una influenza importante per il suo accertamento, circoscriviamo, adesso, la questione al singolo obiettivo scelto nel proporre la tematica che ci si accinge ad affrontare, ossia alla questione dei rapporti tra fattispecie sostanziali, previste dagli artt. 377 e 377 bis c.p., e la normativa processuale.

In via di mera anticipazione, evidenziamo che le disposizioni normative da ultimo richiamate, rubricate, rispettivamente, «intralcio alla giustizia» ed «induzione a non rendere dichiarazioni davanti all'autorità giudiziaria», sono norme finalizzate a garantire la tutela della veridicità della testimonianza (presupposto essenziale perché il contraddittorio operi effettivamente)6.

La tematica non può prescindere dunque, in alcun caso, da un riferimento preciso alle soluzioni adottate dal legislatore in riferimento al recupero delle dichiarazioni rese nella fase antecedente quella del giudizio, in tutte quelle ipotesi in cui, il verificarsi di particolari presupposti renda impossibile la ripetizione delle stesse davanti all'organo giudicante nel rispetto del principio del contraddittorio nella formazione della prova.

Il modello processuale penale italiano di stampo accusatorio, infatti, al fine di «massimizzare» la funzione conoscitiva del processo, ammette attualmente la previsione di clausole derogatorie rispettoPage 1266 al principio del contraddittorio nella formazione della prova.

Ritenuto uno strumento in grado di garantire il pieno espletamento del diritto alla difesa dell'indagato-imputato e, conseguentemente, metodologia «meno imperfetta» per il pieno accertamento del fatto di reato7, tale principio ha, infatti, certamente posto non pochi problemi di funzionalità operativa, nella misura in cui, richiedendo la partecipazione attiva di tutti i soggetti processuali alla formazione degli elementi probatori, presuppone, da un lato, l'obbligo del dichiarante di rispondere secondo verità e, dall'altro, la materiale presenza dello stesso, ai fini del concreto svolgimento dell'esame dibattimentale.

Al riguardo, si deve rilevare che l'art. 111 comma 5 della Costituzione demanda alla legge di regolare i casi in cui la formazione della prova non ha luogo in contraddittorio8.

Tra le ipotesi elencate dalla richiamata disposizione costituzionale vi è quella della «comprovata condotta illecita». Si tratta di un caso in cui è ammessa una deroga al contraddittorio nella formazione della prova che trova poi una sua espressa disciplina nell'art. 500, commi 4 e 5, c.p.p.

L'attuale formulazione della norma prevede, in

fatti, che nel caso in cui «anche per le circostanze emerse nel dibattimento, vi sono elementi concreti per ritenere che il testimone è stato sottoposto a violenza, minaccia, offerta o promessa di denaro.., affinché non deponga ovvero deponga il falso, le dichiarazioni contenute nel fascicolo del pubblico ministero precedentemente rese dal testimone sono acquisite al fascicolo del dibattimento e quelle previste dal comma 3 possono essere utilizzate»9.

Spesso può verificarsi che il corretto svolgimento dell'attività giudiziaria venga impedito da condotte che ostacolano l'accertamento della verità. Orbene, quanto fin qui detto evidenzia pienamente come la tutela della legalità del dibattimento rappresenti un valore fondamentale del processo penale, giacché solo un procedimento di raccolta di informazioni probatorie che abbia ad oggetto dichiarazioni veritiere può poi tradursi nella stessa di una sentenza conforme ai principi sul giusto processo10.

In ogni caso, ciò che rileva è individuare l'obiettivo più proficuo: quello cioè di concretizzare un fenomeno di «interdipendenza funzionale» tra concetti di diritto sostanziale e loro dimensione probatoria, al fine di far sì che gli elementi fattuali utilizzati per l'accertamento del fatto di reato finiscano per riempire di contenuto i concetti di diritto penale sostanziale che vengono, di volta in volta, in rilievo.

Ci si interrogherà, dunque, nel prosequio della presente analisi, se possa ancora considerarsi condivisibile l'assunto proposto da autorevole dottrina, secondo il quale, oggi, «tutto punta proprio sul procedimento»11, o se, invece, non debba darsi rilievo alla esigenza che la prospettiva processuale sia inscindibilmente legata al diritto penale sostanziale, se è vero che lo sviluppo di quest'ultimo «è la base su cui il diritto processuale deve poggiare»12.

@2. Il nuovo sistema probatorio: profili penalistici per uno studio del rapporto interfunzionale tra diritto penale e diritto processuale

- Il sistema probatorio costruito dalla legge 1 marzo 2001, n. 63 nel valorizzare la funzione conoscitiva del processo attraverso il riconoscimento del «principio del contraddittorio nella formazione della prova», sancisce un «ritorno» all'uso essenzialmente critico delle dichiarazioni pre-dibattimentali. Tale soluzione costituisce una scelta normativa che dimostra un inaccettabile disinteresse per quelle che sono le problematiche connesse ai processi di mafia, dove gli interventi di inquinamento delle fonti di prova da parte dei sodalizi criminali costituiscono la regola. Il recupero probatorio di contributi conoscitivi raccolti in sede di indagine è, infatti, soggetto ad una serie di limitazioni che non consentono pienamente di evitare i «condizionamenti» dei dichiaranti e che penalizzano la possibilità di una valutazione complessiva dei contenuti narrativi da parte del giudice.

La fisionomia del sistema probatorio risulta, dunque, inappagante: la riduzione dell'area del diritto al silenzio del testimone erga alios e l'operazione di bilanciamento tra diritti dell'imputato, privilegio contro l'autoincriminazione ed esigenza conoscitiva del processo, non possono certo considerarsi operazioni «ben riuscite». Queste soluzioni manifestano, in raltà, una certa ritrosia del legislatore italiano per l'adozione di soluzioni nette. Da qui, un sistema «farraginoso» che intralcia la speditezza dell'esame dibattimentale introducendo diverse figure di dichiaranti, alimentando contenziosi sull'obbligo di rispondere e che consente inammissibili «dichiarazioni parziali» inidonee a predisporre sostrati probatori sui quali il giudice deve basarsi per la decisione finale.

Tale premessa si rende indispensabile per introdurre il tema della ratio che presiede le incriminazioni in parola.

Il settore processuale penale è caratterizzato da una continua «tensione tra verità reale, materiale o assoluta, e verità formale, relativa o giuridica»13. L'oggetto specifico della tutela penale è, dunque, «l'interesse concernente il normale funzionamento dell'attività giudiziaria, in quanto conviene assicurare a questa attività la sincerità e la completezza delle prestazioni inerenti al contenuto dei doveri di testimonianza, di perizia... di interpretazione»14.

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