Abuso d'ufficio: volontà riformatrice, finalità conservatrice

AutoreFerdinando Esposito
Pagine861-864

Page 861

@1. La doppia riforma.

La figura di reato prevista e punita dall'art. 323 c.p. è stata oggetto di una riforma legislativa ad opera della L. 16 luglio 1997, n. 234, intervento normativo che ne ha modificato sia gli elementi strutturali, sia il regime di punibilità. Questo articolo era già stato a suo tempo riscritto dalla L. 86/90, la quale aveva, in generale, riformato varie figure di reati contro la P.A.

L'entrata in vigore della nuova disciplina ha suscitato molto interesse ed è attesa alla prova applicativa con particolare attenzione per gli importanti effetti che potrà avere sulle condotte finora ritenute come sussumibili nell'ipotesi dell'abuso di ufficio. L'intento del legislatore della riforma è stato quello di restringere il campo dell'intervento del giudice penale nel tentativo di liberare la P.A. da ingerenze del potere giudiziario, per scongiurare un blocco dell'attività amministrativa conseguente alla paura dei pubblici funzionari di vedere sistematicamente criminalizzato il proprio operato. Che questa astratta intenzione sia stata concretamente realizzata è tutto da verificare. Ma prima di sottolineare le luci e le ombre che questa novella posta con sé, è forse opportuna una breve cronistoria di questo reato, oggetto, si è detto di un duplice intervento modificativo. Nel testo originario del c.p. Rocco l'art. 323 puniva il fatto del P.U. che, abusando dei poteri inerenti alle sua funzioni, assumesse, per arrecare ad altri un danno o un vantaggio, una condotta che non costituisse figura di reato più grave. In quest'ambito, dato per presupposto il carattere generico e sussidiario del reato, dottrina e giurisprudenza prevalenti avevano precisato che il P.U. abusa del suo ufficio quando provvede su materie per le quali è incompetente oppure quando agisce per uno scopo diverso da quello per cui gli è stato conferito oppure ancora quando viola la legge in senso lato (fuori od oltre i casi stabiliti dalla legge o non osservando determinate formalità; cfr. Cass. 19 gennaio 1976, n. 29). In sostanza si aveva abuso d'ufficio tutte le volte che il P.U. compiva un atto affetto da uno dei vizi di legittimità dell'atto amministrativo per favorire o danneggiare un terzo. La portata applicativa delle ipotesi di abuso era completata inoltre dall'art. 324, che prevedeva il caso specifico del P.U. che abusasse dei propri poteri con il fine ultimo di realizzare un proprio interesse in un atto del suo ufficio. La prima riforma ha come suo momento più rilevante proprio l'abrogazione della figura di interesse privato per atto d'ufficio, con conseguente riformulazione in senso necessariamente più ampio dell'abuso d'ufficio. Questo può dirsi commesso, alla luce del primo intervento modificativo, quando il P.U. incaricato di S.P., abusando del proprio ufficio procura a sé o ad altri un ingiusto vantaggio non patrimoniale oppure arreca ad altri un danno ingiusto. È inoltre previsto un aggravio di pena se il fatto è commesso per far conseguire a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale. Si rileva immediatamente che la prima modifica importante riguarda il possibile soggetto attivo del reato che può essere non solo come in precedenza il P.U., ma anche l'incaricato di un S.P.: ma ciò che più conta è soprattutto che il reato in parola da modello generico e sussidiario diventa la fattispecie centrale la figura più importante per scongiurare le ipotesi di illegittimo esercizio delle funzioni di cui l'agente risulta investito, istituzionalmente o di fatto per il conseguimento di finalità contrarie al carattere di obiettività ed imparzialità a cui deve essere improntato l'esercizio del potere amministrativo. Una modifica quindi questa del 1990 in senso ampliativo del raggio d'azione della norma incriminatrice. Nel testo introdotto dalla L. 6 luglio 1997, n. 234 l'art. 323 c.p., è così formulato: "salvo che il fatto non costituisca più grave reato, il P.U. o l'incaricato di un S.P. che nello svolgimento delle funzioni o del servizio in violazione di legge o di regolamento ovvero omettendo di astenersi in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti, intenzionalmente procura a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale ovvero arreca ad altri un danno ingiusto è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni. La pena è aggravata nei casi in cui il vantaggio o il danno hanno un carattere di rilevante gravità". La Novella, contrariamente alla formulazione della norma come risultante dalla precedente modifica del '90, riduce sensibilmente l'ambito della rilevanza penale delle condotte illegittime, focalizza l'attenzione sull'elemento oggettivo del reato e non su quello soggettivo e richiede per la sua configurazione la violazione di una norma di legge o di regolamento (a parte la violazione dell'obbligo di astensione), comportando così una tipizzazione più precisa delle condotte penalmente sanzionabili.

@2. Effetti delle modifiche legislative del 1997.

Preliminarmente va chiarito che le questioni di diritto transitorio vanno risolte attraverso il principio della specialità reciproca o...

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