Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale. Legge ed atti equiparati - Decreto-legge - Presupposti di necessita' e urgenza - Sindacabilita' da parte della Corte costituzionale solo in caso di mancanza evidente - Diversita' di tale accertamento rispetto alla valutazione politica espressa dal Governo e dal Parlamento in sede di con...

LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori:

Presidente: Franco BILE;

Giudici: Francesco AMIRANTE, Ugo DE SIERVO, Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Sabino CASSESE, Maria Rita SAULLE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO;

ha pronunciato la seguente

Sentenza nel giudizio di legittimita' costituzionale dell'art. 7, comma 1, lettera a) del decreto-legge 29 marzo 2004 n. 80 (Disposizioni urgenti in materia di enti locali), convertito, con modificazioni, dalla legge 28 maggio 2004, n. 140, promosso dalla Corte di cassazione, sul ricorso proposto da G. B. ed altri contro R. A. P. ed altri, con ordinanza del 6 aprile 2005, iscritta al n. 321 del registro ordinanze 2005 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 26, 1ª serie speciale, dell'anno 2005.

Visti gli atti di costituzione di R. A. P. ed altri, di A. B., di G. R., di A.N. ed altri nonche' l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

Udito nell'udienza pubblica del 6 febbraio 2007 il giudice relatore Francesco Amirante;

Uditi gli avvocati Graziella Colaiacomo per A. B., Carmelo Matafu' per A. n. ed altri e l'avvocato dello Stato Giuseppe Fiengo per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

  1. - La Corte di cassazione, prima sezione civile, con ordinanza del 6 aprile 2005, ha sollevato, in riferimento all'art. 77, secondo comma, della Costituzione, questione di legittimita' costituzionale dell'art. 7, comma 1, lettera a), del decreto-legge 29 marzo 2004, n. 80 (Disposizioni urgenti in materia di enti locali), convertito, con modificazioni, dalla legge 28 maggio 2004, n. 140.

    Premette il giudice a quo che, con sentenza del 13 dicembre 2002, il ricorrente era stato condannato dalla Corte di appello di Messina alla pena di mesi sei di reclusione ed alla temporanea interdizione dai pubblici uffici, con i benefici di legge, per i delitti di cui agli artt. 81, 314, secondo comma, e 323 del codice penale, e che la Corte di cassazione, con sentenza del 5 giugno 2003, aveva rigettato il ricorso proposto dall'imputato avverso detta sentenza di condanna. Nel frattempo, il ricorrente si era candidato alle elezioni del 25--26 maggio 2003 ed il 29 maggio era stato proclamato sindaco del Comune di Messina. Erano state, quindi, proposte diverse azioni popolari per ottenere la declaratoria di decadenza dell'eletto dalla carica di sindaco, a seguito della sopravvenuta suddetta sentenza penale irrevocabile di condanna. I relativi ricorsi riuniti erano stati respinti dal Tribunale di Messina, con sentenza del 21 luglio 2003, sull'assunto che le norme di cui agli artt. 58, 59, 68 e 70 del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267 (Testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali), non consentissero di affermare che la condanna definitiva per il delitto di peculato d'uso - con irrevocabilita' acquisita dopo la nomina a sindaco del candidato - costituisse causa di decadenza dell'eletto e che, per converso, detta decadenza non potesse conseguire alla interdizione dai pubblici uffici, con sospensione della pena.

    Tale decisione era stata, tuttavia, riformata dalla Corte di appello di Messina che aveva dichiarato la decadenza dalla carica di sindaco, con sentenza del 3 dicembre 2003.

    Avverso detta sentenza era stato proposto ricorso per cassazione ma, prima dell'udienza di discussione, era stato pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del 30 marzo 2004, il d.l. n. 80 del 2004, il cui art. 7, comma 1, lettere a) e b), aveva modificato l'art. 58, comma 1, lettera b), del d.lgs. n. 267 del 2000 (nel senso che dopo il numero "314" erano inserite le parole "primo comma") e l'art. 59, comma 6, dello stesso decreto legislativo (nel senso che dopo le parole "sentenza di condanna" erano inserite le parole "per uno dei reati previsti dal medesimo comma"). Con il decreto-legge era stato, quindi, escluso che la condanna per il peculato d'uso costituisse causa di incandidabilita' alla carica di sindaco e, poi, di decadenza dalla stessa.

    La Corte di cassazione, con ordinanza del 17 aprile 2004, ha sollevato, in riferimento all'art. 77, secondo comma, Cost., questione di legittimita' costituzionale del citato art. 7, per palese insussistenza del requisito del "caso straordinario di necessita' e urgenza".

    Questa Corte, con ordinanza n. 2 del 2005, ha disposto la restituzione degli atti al giudice a quo, essendo, medio tempore, intervenuta la legge di conversione n. 140 del 2004 che ha apportato modifiche al testo del decreto-legge ed ha enunciato le ragioni dell'emanazione della norma censurata.

    La Corte di cassazione ritiene di dover nuovamente sollevare la questione - nell'anzidetta formulazione - assumendo che il denunciato vizio si e' trasferito sulla legge che, pur nella manifesta carenza dell'anzidetto requisito, ha ugualmente provveduto alla conversione del decreto-legge.

    In punto di rilevanza, la Corte remittente, richiamando la propria precedente ordinanza, dopo aver affermato l'applicabilita' nella Regione siciliana degli artt. 58 e 59 del d.lgs. n. 267 del 2000, osserva che il secondo, terzo e quarto motivo del ricorso per cassazione hanno carattere assorbente nella disamina dell'impugnazione principale e che le suddette disposizioni devono essere applicate per la decisione dei motivi stessi. In particolare, con il secondo motivo si fa questione della latitudine della previsione inabilitante dell'art. 314 cod. pen. contenuta nel menzionato art. 58, comma 1, lettera b), sostenendosi, in antitesi con la decisione della Corte territoriale, che il peculato d'uso non sarebbe da comprendere nella previsione inabilitante del peculato. Con il terzo e quarto motivo, dato per ammesso che la previsione inabilitante includa l'ipotesi del peculato d'uso, si censura l'opzione interpretativa adottata dalla Corte di appello di Messina, per la quale vi sarebbe perfetta corrispondenza tra previsioni inabilitanti (in termini di ostativita' alla carica e di nullita' della elezione avvenuta) e previsioni disabilitanti (in termini di decadenza dell'eletto per la sopravvenienza del giudicato ostativo).

    Da quanto si e' detto deriva, ad avviso della Corte remittente, la necessaria e ineludibile applicazione delle norme sopravvenute nel giudizio di cui si tratta, in quanto l'art. 7 del d.l. n. 80 del 2004, alla lettera a), modificando l'art. 58, comma 1, lettera b), ha escluso dal novero delle cause ostative alla candidatura la condanna definitiva per il delitto di peculato d'uso (salva l'ipotesi contemplata dall'art. 58, comma 1, lettera c, non modificato, in cui la pena irrogata superi i sei mesi), mentre lo stesso art. 7, alla lettera b) - modificando l'art. 59, comma 6, del testo unico nel senso di prevedere esplicitamente che la decadenza dalle cariche elencate al comma 1 dell'art. 58, per effetto di sentenza di condanna definitiva, operi soltanto ove la condanna sia intervenuta "per uno dei reati previsti dal medesimo comma" - ha escluso che la sopravvenuta condanna definitiva a pena non superiore a sei mesi di reclusione per il delitto di peculato d'uso possa valere come causa di decadenza dalla carica. Conseguentemente, per effetto del censurato art. 7 si e' escluso che l'indicato tipo di condanna definitiva - corrispondente a quella irrogata nel caso di specie - possa operare tanto come causa ostativa alla candidatura quanto come causa di decadenza dalla stessa.

    Dopo aver negato il carattere di interpretazione autentica delle norme in argomento - posto che in esse non e' dato rinvenire ne' riferimenti a pregresse alternative ermeneutiche, ne' la imperativa opzione per una di esse, ma soltanto la volonta' (esplicitata in rubrica e nel testo) di modificare le norme previgenti - la Corte remittente osserva che l'applicabilita' della censurata normativa al caso di specie come ius superveniens deriva dal fatto che essa incide sul regime dei requisiti legali di mantenimento della carica pubblica elettiva "e quindi sulla sua idoneita' a mutarlo con immediata efficacia tanto in malam quanto, come nella specie, in bonam partem".

    A sostegno di tale argomento, il giudice a quo richiama la giurisprudenza di legittimita' circa la sopravvenienza di condizioni "disabilitanti"...

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