Lo spazio del libero convincimento

AutoreGiuseppe Daquì
Pagine649-654

    Intervento svolto al Seminario Nazionale organizzato presso l'Istituto Superiore Internazionale di Scienze Criminali su «La prova scientifica nel processo penale» (Siracusa, 12-14 Maggio 2006).

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Il progresso scientifico, specie negli ultimi anni, pone l'attenzione di molti sulle influenze che talune scienze e metodologie connesse possono esercitare sul terreno spesso impantanato (e perché no?) talvolta incolto della giustizia penale.

La questione di fondo, più che mai attuale, è sino a che punto il fatto-reato con l'ausilio della scienza può essere provato oltre ogni ragionevole dubbio. Ma le perplessità o le questioni sono molteplici: l'affidabilità del principio scientifico, la correttezza del metodo, l'esatta applicazione del metodo stesso, la capacità del giudice di comprendere il percorso scientifico e di trarne le conclusioni, il grado di certezza.

Nei casi più gravi la ricostruzione dell'evento delittuoso è quasi sempre difficoltoso specie quando vi è assenza di testimoni o quando il materiale probatorio è scadente, insufficiente o di difficile lettura.

Sul piano dell'ammissibilità di una prova scientifica e/o atipica, la struttura dell'impianto processual-penalistico italiano non pone limiti se non quello del pregiudizio per la libertà morale della persona o dei limiti ex art. 193 c.p.p.

Cosicché tutte le volte che al giudice viene rappresentata l'opportunità di essere soccorso nell'accertamento del fatto dal mezzo scientifico, egli se lo ritiene idoneo ed indispensabile, può serenamente disporlo.

E ciò normalmente avviene per gli accertamenti medico-legali, per le questioni balistiche, per gli infortuni sul lavoro, per gli incidenti stradali.

Quid iuris quando la prova scientifica è totalmente innovativa, non totalmente accettata dalla comunità scientifica?

La prova scientifica si sposa ineluttabilmente con il principio dell'«al di là di ogni ragionevole dubbio».

Certezza della prova=certezza del verdetto. «È impossibile specificare un particolare grado matematico di probabilità che deve essere raggiunto affinché possa essere emesso un verdetto di colpevolezza in un processo penale. Nondimeno, nella natura delle faccende umane, l'assoluta certezza è raramente (se non mai) raggiungibile»1.

E si può affermare o negare un fatto sulla base di un mero calcolo di probabilità?

E poiché la tradizionale cultura processuale anglo-americana, come ha acutamente osservato Giovanni Canzio,2 è meno attrezzata di quella italiana che offre più spazi alla nuova metodologia e tecnologia moderna per l'accertamento dei fatti (artt. 190, 494, 227 comma 5, 501 comma 2, 121 comma 1, 190 comma 2, 195 comma 2, 441 comma 5, 507 c.p.p.), si può, senza azzardo, affermare che il giudice italiano possiede degli strumenti più ampi per ricercare la verità.

Il nostro sistema penale processuale mal digerisce gli ostacoli per la formazione, sia pure con metodo dialettico, della prova ai fini della conoscenza dei fatti.

Ma è soprattutto la non tassatività delle prove penali che porta ad orizzonti non definiti e ciò in linea con i principi dettati dal giudice delle leggi che sanciscono che il giudice deve accertare la verità3.

Ma se l'apporto scientifico è innovativo, rivoluzionario, non riconosciuto universalmente quale spazio di decisione nell'ambito del libero convincimento giuridico è riconosciuto al decidente?

Si potrebbe rispondere che il giudice non ha limiti se il verdetto dà conto nella motivazione dei risultati acquisiti e dei criteri adottati (ex art. 192, 1º comma c.p.p.).

Certo questo è già codificato. Ma la questione è che talvolta la decisione è giusta, ma la motivazione è stringata, non congrua: in una parola «scritta male». Altre volte la decisione è sbagliata e la motivazione apparentemente logica: in una parola «scritta bene».

E quindi tutto dipende da come si sa esprimere per iscritto l'estensore.

Qui non si discute se il giudice ha interpretato male il materiale probatorio ma se egli è in grado di valutare, con estremo rigore, i risultati della prova. E cosa è la valutazione di una prova scientifica per un soggetto che è sulla carta peritus peritorum ma per alcune materie specialistiche imperitus imperitorum?

Scrive Francesco Zacchè, a commento di una sentenza della Corte di legittimità Sez. IV n. 9274, richiamando Amodio: «Nell'accezione comune, travisare significa svisare, alterare, e, in senso figurato interpretare male. In ambito processuale, si ricorre generalmente all'espressione "travisamento del fatto" per segnalare quei casi in cui il giudice ha motivato la propria decisione sulla base di un "atto processuale... mai venuto ad esistenza" (travisamento degli atti) o le cui "proposizioni probatorie" sono in contraddizione con "le proposizioni probatorie assunte come base argomentativa del discorso giudiziale" (travisamento delle risultanze)».

Ci è stato insegnato dal Supremo Collegio che quando l'apparato argomentativo è logico, la sentenza è salva.

Dalla sentenza innanzi citata: «... è stato affermato in dottrina che il corretto accertamento del fatto costituisce una condizione necessaria della legalità della decisione e la giurisprudenza ha ribaditoPage 650 (v. sez. IV, 15 dicembre 1993, Romano, per est. in Foro it., 1994, II, c. 443) che «per esercitare il controllo di legittimità sull'adeguatezza, congruità e logicità della motivazione del provvedimento impugnato, la Corte deve rifarsi, dandola per inattaccabile, alla ricostruzione storica della vicenda processuale fornita dal giudice di merito.., nonché ai giudizi sul fatto circa l'attendibilità, o no, delle fonti... sicché, ove tale ricostruzione e giudizi manchino o risultino frammentari - tanto da non rendere intelleggibili gli esatti contorni e comprensibile la valenza accertativa - la Corte viene posta nella impossibilità di esplicare correttamente il suo ruolo di pura legittimità. E il requisito minimo perché l'accertamento del fatto possa ritenersi corretto è che si fondi su elementi di prova esistenti e non inventati».

Parte della dottrina5 ritiene che, nel nostro ordinamento, sono preclusi sia il verdetto immotivato (come per il sistema giudiziario anglo-americano imperniato sulla giuria), sia il riconoscimento senza limiti del principio del libero, arbitrario, soggettivo e insindacabile convincimento, inteso come intime conviction del giudice.

Mi permetto di dissentire. Nella pratica quotidiana assistiamo il più delle volte a procedimenti penali che si concludono con sentenze dettate più dall'intimo convincimento che dalla certezza della prova.

Sul piano della norma vigente ha perfettamente ragione. Sul piano delle cose di cui noi operatori del diritto siamo quotidianamente testimoni talune volte, così non è.

Cito un esempio tra i mille che ognuno di noi può ricordare: - Sentenza n. 5/02 Reg. Sent. emessa dalla Corte d'assise d'appello di Caltanissetta in data 18 marzo 2002:procedimento a carico di Riina Salvatore + altri, c.d. «Strage Via D'Amelio» - (la circostanza riguardava la valutazione dell'attendibilità intrinseca ed estrinseca di alcuni collaboratori di giustizia «Brusca, Cancemi, La Barbera, Di Matteo» che asserivano di non aver mai partecipato ad una riunione precedente la strage di Via D'Amelio insieme a tale Scarantino Vincenzo, collaboratore di giustizia, che invece ne affermava l'esistenza).

Su tale circostanza la Corte di assise di appello di Caltanissetta ha così motivato (pp. 600-603): «Si può, peraltro, anticipare la conclusione cui questa Corte è pervenuta, sul piano logico, nella valutazione degli effetti di questo contrasto sulla credibilità di ciascuno rispetto alle indicazioni probatorie che essi forniscono nei confronti degli imputati.

Ebbene l'inconciliabilità delle posizioni di Brusca e Cancemi (nonché di La Barbera e Di Matteo) da un lato, di Scarantino dall'altro, in ordine alla partecipazione dei primi alla riunione nella villa di Calascibetta, non elide sul piano logico la possibilità che la riunione vi sia effettivamente stata, così come ha riferito Scarantino. Ove si dovesse ammettere che i collaboratori chiamati da Scarantino non abbiano effettivamente partecipato alla riunione (o, il che è lo stesso, in mancanza di prove...

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