Sentenza Nº 52025 della Corte Suprema di Cassazione, 06-12-2016

Presiding JudgeFIANDANESE FRANCO
ECLIECLI:IT:CASS:2016:52025PEN
Judgement Number52025
Date06 Dicembre 2016
CourtSeconda Sezione (Corte Suprema di Cassazione di Italia)
Subject MatterPENALE
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
vi/ERNENGO GIORGIO N. IL 12/02/1975
aversf(Jrdinanza n. 992/2016 TR1B. LIBERTÀ'. PALERMO del
18/07/2016
sentita la relazione fatta dal Consigliere Dott. GIOVANNI ARIOI_I.1;
lette/sentite le conclusioni del PG Dott.
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Udit i difensor Avv.;
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Penale Sent. Sez. 2 Num. 52025 Anno 2016
Presidente: FIANDANESE FRANCO
Relatore: ARIOLLI GIOVANNI
Data Udienza: 24/11/2016
Corte di Cassazione - copia non ufficiale
RITENUTO IN FATTO
1. I difensori di fiducia di Vernengo Giorgio, con due distinti ricorsi,
ricorrono per cassazione avverso l'ordinanza del tribunale del riesame di
Palermo, chiedendone l'annullamento, con la quale è stata respinta la richiesta di
riesame avverso l'ordinanza con cui il G.I.P. del medesimo tribunale in data
30/6/2016 applicava all'indagato la misura della custodia cautelare in carcere in
ordine al delitto di estorsione aggravata e continuata in concorso, aggravata
dalla circostanza di cui all'art. 7 d.l. n. 152 del 1992 nella duplice declinazione
del metodo e della finalità.
1.1. Al riguardo, l'avv. Giuseppe Lipera deduce: 1) violazione di legge e
mancanza di motivazione in ordine alla posizione dell'indagato Vernengo Giorgio
(neppure menzionato nell'ordinanza impugnata), avendo il Tribunale del riesame
omesso di indicare gli elementi di segno contrario offerti dalla difesa e le ragioni
per le quali gli stessi non possono trovare accoglimento. Né poteva ritenersi
soddisfatto l'obbligo di motivazione mediante il riferimento integrale all'ordinanza
cautelare del G.I.P., la quale a sua volta ha fatto propria l'ipotesi accusatoria,
sfornita di elementi concreti da integrare la fattispecie criminosa contestata
all'indagato. In particolare, la vicenda attinente al rilascio del bar sito all'interno
della sala Bingo di via Villagrazia n. 79 (che l'imputato gestiva unitamente alla
suocera che era titolare del relativo contratto) andava ricondotta unicamente ad
una vertenza avente carattere civilistico, nell'ambito della quale l'indagato aveva
agito, senza minacce e costrizioni verso le pp.00., quale tramite e nell'interesse
della suocera Paziente Carmela (alla quale era affidata la conduzione del bar in
forza di un contratto di cessione di azienda del 22/4/2009 rinnovatosi
tacitamente alla scadenza), al fine di far valere il suo diritto verso i nuovi titolari
della sala Bingo, i quali lamentavano con la precedente proprietà di non essere
ancora entrati in possesso del bar ubicato all'interno della sala. A conferma
dell'assenza di rilievo penale della vicenda vi era anche il contenuto della
corrispondenza intercorsa tra le parti, nonché i versamenti delle somme
effettuati a mezzo assegni e bonifici bancari (modalità certamente improprie per
una ipotesi di estorsione a carattere mafioso). Né il coinvolgimento dell'indagato
poteva farsi risalire dall'esistenza di un mero rapporto di parentela con il fratello,
condannato per associazione mafiosa, in difetto di elementi a carattere
individualizzante emergenti dal compendio probatorio; 2) violazione di legge e
difetto di motivazione in ordine alle esigenze cautelari, risultando omesso, al
riguardo, qualsiasi concreto riferimento alla posizione dell'indagato e alla
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valutazione degli elementi forniti a prova contraria dalla difesa allo scopo di
smentire la presunzione relativa di cui all'art. 275, comma 3, cod. proc. pen.
(assenza di modalità violente, finalità lecite perseguite, assenza di precedenti
penali). Inoltre, illogica e contraddittoria era l'ordinanza impugnata anche nella
parte in cui aveva escluso l'idoneità degli arresti domiciliari, al contempo
applicati ad altra coindagata (Durante Paola) che invece rivestiva l'identica
posizione del Vernengo Giorgio; 3) inosservanza di norme di legge (art. 292,
comma 2 c-bis
cod. proc. pen.) e difetto di motivazione in relazione agli elementi
- mancanti - da cui si era tratta la sussistenza dell'aggravante di cui all'art. 7
d.l. n. 152 del 1991 nella duplice declinazione di avere agito avvalendosi delle
condizioni di cui all'art. 416
bis
cod. pen. ed al fine di agevolare l'organizzazione
mafiosa "Cosa Nostra".
1.2. Anche il ricorso proposto dall'altro difensore (l'avv. Antonino Reina)
ribadisce le censure di violazione di legge e difetto di motivazione del
provvedimento impugnato sopra evidenziate (ed alle quali, pertanto, può farsi
integralmente rinvio). Con particolare riguardo alla sussistenza dei gravi indizi di
colpevolezza, rileva come nelle molteplici fonti probatorie richiamate dal
provvedimento impugnato a fondamento della gravità indiziaria (intercettazioni
ambientali, file audio contenenti le registrazioni di incontri, sommarie
informazioni di persone informate sui fatti, documentazione negoziale) non
compaia né sia mai menzionato l'indagato Giorgio Vernengo. Né gli espressi
riferimenti a carico rivolti al fratello Cosimo potevano considerarsi di per sé
evocativi di una sorta di corresponsabilità morale dell'indagato, desunta
"ex
frate",
in assenza di qualunque substrato di carattere causale efficiente tanto a
livello ideativo che preparatorio dell'ipotizzato reato. Inoltre, il Tribunale aveva
omesso la valutazione di molteplici elementi fattuali sia di carattere dichiarativo
che documentale (elencati a pag. 6 e 7 del ricorso e relativi alle mail intercorse
tra la vecchia e nuova gestione, all'esistenza del contratto di affitto di azienda e
alle dichiarazioni "liberatorie" del Boccaccio Sergio, direttore della sala Bingo) -
con ciò incorrendo nel vizio di violazione di legge "per prova omessa o travisata"
- che deponevano nel senso di ricondurre la vicenda ad una controversia di
carattere civilistico ovvero, in estrema ipotesi, al delitto di esercizio arbitrario
delle proprie ragioni aggravato dall'uso della minaccia, fattispecie che non
consentiva l'emissione di provvedimenti cautelari personali. Riguardo, poi,
all'aggravante speciale contestata, il Tribunale non aveva tenuto conto del fatto
che i beni interessati dalle condotte contestate erano da ricondurre all'esclusiva
titolarità dei soggetti agenti e non dell'associazione, con la conseguenza che era
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da escludersi qualunque finalità agevolativa del sodalizio mafioso. Né poteva
ravvisarsi il metodo mafioso, potendo tutt'al più parlarsi di condotta "arbitraria",
come del resto affermato in motivazione dallo stesso Tribunale, concetto non
idoneo ad evocare le condizioni di cui all'art. 416
bis
cod. pen. Illogica, infine,
era la motivazione in punto di esigenze cautelari, tratte soltanto dalla gravità del
titolo di reato, nonché su elementi di tipo "congetturale" od "astratto" che non
ineriscono, in modo individualizzante, alla persona dell'indagato.
1.3. Con memoria in data 24.10.2016, il difensore avv. Reina ha mosso
un'ulteriore censura all'ordinanza impugnata, sotto il profilo dell'apparenza della
motivazione, in quanto meramente riproducente, anche a livello grafico, quella
resa a carico del fratello-coindagato Vernengo Pietro, in difetto dell'indicazione di
elementi di carattere individualizzante nei confronti dell'odierno ricorrente.
CONSIDERATO IN DIRITTO
2. I ricorsi sono inammissibili per essere i motivi manifestamente infondati.
2.1. Quanto alla gravità indiziaria, l'analisi valutativa compiuta dal
Tribunale è senz'altro esauriente e, sul piano logico e giuridico, esente da
contraddizioni, in quanto per un verso si è dato atto degli elementi chiaramente
integrativi della fattispecie delittuosa contestata, nella forma aggravata di cui
all'art. 7 d.l. n. 152 del 1991, e, per altro, di quelli che evocano un concorso
morale e materiale dell'indagato nella commissione del reato.
2.2. Riguardo al primo aspetto, il Tribunale ha anzitutto evidenziato come
la pretesa di ottenere dalla nuova proprietà della sala Bingo una consistente
somma di denaro a titolo di "buonuscita" fosse, in realtà, del tutto svincolata dal
contratto di affitto di ramo d'azienda del 29/4/2009 che legava la vecchia
proprietà con la gestione del bar all'interno ubicato, costituendo, invece, chiara
espressione di una richiesta di tipo estorsivo. E ciò è stato coerentemente
desunto da diversi indici di carattere logico-fattuale; innanzitutto, dal contesto
ambientale in cui tale pretesa viene avanzata, già caratterizzato da una
pregressa richiesta estorsiva rivolta dal Vernengo Cosimo al Gennuso Riccardo di
assumere, nonostante l'esito negativo del periodo di prova, la nipote del boss
Salvatore Profeta; inoltre, dal chiaro interesse manifestato dalla cosca territoriale
di riferimento riguardo alle utilità che si sarebbero dovute ricavare dalla nuova
gestione della sala Bingo (lucrando sulle forniture, sull'attività di pulizia,
sull'imposizione delle macchinette video-poker, sulla richiesta del "pizzo"
mensile), attraverso soprattutto l'opera di Vernengo Cosimo, quale
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"responsabile" delle imposizioni rivolte ai gestori della sala. Pertanto, la pretesa
di una "buonuscita" si pone in logica continuità con l'azione di condizionamento
già svolta ai danni di tale realtà commerciale e con lo scopo di conseguire un
vantaggio per l'organizzazione criminale.
Inoltre, il Tribunale ha precisato come la pretesa fosse sfornita di valida
giustificazione causale, in quanto nel caso in esame aveva "natura arbitraria"
non tenendo in alcun conto "il dato obiettivo del mancato pagamento dei canoni
mensili previsti dal contratto di cessione di ramo d'azienda". Con la conseguenza
che non potrebbe ritenersi "giusto" il profitto avuto di mira dagli indagati.
L'affermazione risulta corretta in quanto tale pretesa, sia che la si riconduca
all'indennità di avviamento che ad una sorta di risarcimento per la cessazione
anticipata del contratto, presuppone che il conduttore non si trovi in una
situazione evidente di morosità.
Peraltro, a conferma dell'assenza di qualsiasi giustificazione del
quantum
richiesto, rilevano, altresì, anche due ulteriori elementi di fatto passati in
rassegna dal Tribunale. Con il primo, si da atto di come sia stata smentita
l'affermazione difensiva secondo la quale quanto preteso sarebbe dovuto in
ragione di pregresse forniture eseguite anni addietro e a suo tempo pagate dai
fratelli Vernengo. Le dichiarazioni rese dai soggetti che hanno emesso le fatture
e le indagini svolte dai Carabinieri hanno dimostrato come si sia trattato di
prestazioni destinate personalmente ai Vernengo ed estranee alla gestione
dell'esercizio commerciale di cui si discute. Pertanto, le somme di denaro
corrisposte a tale titolo dal Luigi Gennuso (in più soluzioni per un importo
complessivo di euro 6.186,00) risultano del tutto prive di qualsiasi causale
giustificativa e danno conto della natura estorsiva della pretesa. Con il secondo
elemento, come la pretesa della somma fu mantenuta ferma a prescindere dal
fatto che i Vernengo si fossero fisicamente allontanati dal bar ed "andava
eseguita a pena di gravissime conseguenza personali ai danni della nuova
proprietà (nella specie del Gennuso) o sull'attività".
In conclusione, dal Tribunale risultano passati in rassegna una molteplicità
di elementi che rendono plausibile come la pretesa di denaro, lungi dal costituire
espressione di una pretesa tutelata dall'ordinamento, costituisse una delle tipiche
modalità del modus operandi
delle organizzazioni di stampo mafioso e, quindi,
volta a conseguire un profitto ingiusto. Va, pertanto, escluso l'ipotizzato esercizio
arbitrario delle proprie ragioni con violenza alle persone di cui all'art. 393 cod.
pen., anche in ragione comunque dei caratteri di "ingiustizia" che la stessa
pretesa in sé rileva per come formulata e in ragione della sua provenienza (Sez.
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2, sent. n. 44476 del 3/7/2015, Rv. 265320; Sez. 2, sent. n. 34147 del
30/4/2015, Rv. 264628). Peraltro, questa Corte ha più volte sottolineato come
ricorra la fattispecie dell'estorsione patrimoniale allorché al soggetto passivo sia
imposto di porsi in rapporto negoziale di natura patrimoniale con l'agente o con
altri soggetti; in tal caso l'elemento dell'ingiusto profitto con altrui danno è
implicito nel fatto stesso che il contraente-vittima sia costretto al rapporto in
violazione della propria autonomia negoziale, impedendogli di perseguire i propri
interessi economici nel modo e nelle forme ritenute più confacenti ed opportune
(Sez. 6, sent. n. 48461 del 28/11/2013, Rv. 258168).
2.3. Sufficientemente evocati, anche mediante il rinvio all'ordinanza
cautelare del G.I.P., risultano gli elementi di diretto coinvolgimento del Vernengo
Giorgio nella vicenda illecita, di tal ché risultano manifestamente infondate le
censure volte a dedurre il difetto di adeguata motivazione ovvero la mancanza o
l'apparenza della motivazione, sul rilievo anche dell'assenza, nel compendio
indiziario, di elementi di tipo individualizzanti (sulla possibilità di integrazione
dell'ordinanza del tribunale del riesame con quella del G.I.P., con la conseguenza
che eventuali carenze di motivazione dell'uno possono essere sanate con le
argomentazioni utilizzate dall'altro, vedi Sez. 3, sent. n. 8669 del 15/12/2015,
Rv. 266765).
2.3.1. Nell'ambito dell'ordinanza impugnata viene, infatti, precisato come la
richiesta estorsiva deve ricondursi anche al Vernengo Giorgio, indicato dal
Gennuso Giuseppe come colui che rivolse al figlio Riccardo ed al collaboratore
Boccaccio la richiesta dei 50.000,00 euro per lasciare la gestione del bar interno
alla sala Bingo, proponendo anche di emettere degli assegni a fronte della
consegna di denaro contante, giustificando l'operazione con fatture per
operazioni mai eseguite (vedi sul punto anche pag. 53 dell'ordinanza cautelare).
E tale intento sarebbe stato mantenuto fermo dall'indagato nonostante diversi
incontri finalizzati a trovare un possibile "compromesso" ed anche
successivamente alla decisione del figlio Riccardo di allontanarsi, per paura di
ritorsioni, da Palermo. Che la richiesta formulata dal Giorgio costituisse, poi,
chiara espressione di un intento estorsivo si ricava anche dal fatto - di cui il
Tribunale da specifico conto - che l'intenzione dei Vernengo era mantenere la
gestione esclusiva del bar con una società loro riferibile e senza corrispondere il
canone di affitto e/o il pagamento delle utenze. Ciò in aderenza a quanto era in
precedenza avvenuto con la precedente gestione che, nonostante anni di
inadempimenti nel pagamento dei canoni, non aveva mai adito le vie legali
(circostanza riferita dal Burgio Leonardo). Tale elemento - per come rilevato dal
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Tribunale - "conferma la tipologia mafiosa della gestione del bar come dimostra
il fatto che i Vernengo - per loro stessa ammissione gli unici veri titolari del bar
- si sono insediati nel bar e sono rimasti indisturbati per anni senza pagare alcun
canone previsto dal contratto". Il ricorrente, pertanto, unitamente al fratello, era
parte sostanziale dell'operazione estorsiva, in quanto direttamente interessato a
mantenere fermo quel "privilegio" di posizione (illecita) derivante dalla situazione
antecedente all'ingresso della nuova proprietà nella sala Bingo ovvero a
conseguire quella sorta di "buonuscita" non dovuta.
2.3.2. Peraltro, ulteriori elementi evocativi di una diretta compartecipazione
dell'indagato si cogliono nell'ordinanza cautelare, laddove questi, con tono
minatorio avrebbe anche palesato al Boccaccio Sergio (colui che era stato
lasciato a dirigere la sala dopo la fuga del Gennuso Riccardo per timore di
ritorsioni) di essere in grado di rintracciare entrambi i Gennuso allorché questi,
esasperati dalle intimidazioni ricevute, decisero di allontanarsi e/o di passare la
mano nella diretta gestione della sala Bingo nominando direttore il Boccaccio
(vedi pag. 18 dell'ordinanza del G.I.P. del Tribunale di Palermo). L'indagato,
pertanto, lungi dallo svolgere un ruolo di mero intermediario per far valere la
pretesa di cui si faceva portatrice la suocera, ha invece agito allo scopo di
realizzare un proprio diretto e personale interesse, quale parte sostanziale della
vicenda illecita perché direttamente interessato nella conduzione e gestione del
bar. A conferma di ciò, il Tribunale del riesame richiama anche le dichiarazioni di
Giuseppe e Riccardo Gennuso, i quali nel segnalare ai Carabinieri l'esistenza di
problemi con i gestori del bar ubicato all'interno della salala Bingo, riconducono
ad entrambi i fratelli i proventi derivanti dalla gestione dell'attività (cfr. pag. 6).
Ciò del resto, risulta trovare ulteriore conferma anche nel contenuto di un file
audio relativo ad una conversazione intervenuta tra il Riccardo Gennuso e gli altri
coindagati Paola Durante e Cosimo Vernengo, ove quest'ultimo chiariva in modo
perentorio al primo che il bar era sempre stato suo fin dall'avvio dell'attività e
che il precedente gestore (Leonardo Burgio) ne era consapevole (cfr. pag. 11).
2.3.3. Né, infine, la valutazione di gravità del corredo indiziario compiuta
dai giudici della cautela risulta scalfita dalle diverse fonti di prova indicate dalle
difese, posto che lo stesso Tribunale da conto delle ragioni per cui alle stesse
deve negarsi valenza a discarico. Quanto alle dichiarazioni "liberatorie" del
Boccaccio Sergio, il Tribunale precisa come esse siano la conseguenza dello stato
di forte intimidazione in cui questi si era venuto a trovare, per come emerge dal
contenuto della conversione dal medesimo intrattenuta con il giornalista La
Vardera Ismaele e riportata a pag. 15 dell'ordinanza impugnata. Quanto alla
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documentazione costituita dal contratto di affitto di azienda del bar, il Tribunale
ne ha escluso la diretta rilevanza ai fini della giustificazione della pretesa
avanzata, per come si è osservato
supra
(vedi paragrafo 2.2.). Parimenti non
decisive ai fini del supporto della tesi difensiva sono le mail intercorse tra i nuovi
e vecchi gestori, in quanto da un lato danno conto di quanto affermato dalle
stesse persone offese, ovvero dei problemi legati al subentro della nuova
proprietà in ragione della presenza dei Vernengo all'interno dalla sala Bingo e
dell'assenza di validi titoli giustificativi in capo a questi ultimi, e, dall'altro, per
come evidenziato dal G.I.P., sarebbero dimostrative del fatto che i Vernengo si
consideravano proprietari del bar a prescindere dalla vicenda relativa al tacito
rinnovo del contratto (vedi pag. 32 dell'ordinanza cautelare ove si riportano le
dichiarazioni del Burgio e quelle da costui apprese dal legale rappresentante
della società subentrante).
2.3.4. Infine, corre l'obbligo di rilevare che la censura mossa dal ricorrente
in ordine alla gravità indiziaria, in rapporto al concorso nel reato di estorsione,
muove anche dall'errato presupposto che la motivazione addotta dal giudice di
merito possa essere sottoposta al sindacato di legittimità dal punto di vista della
persuasività e condivisibilità. Così invece non è, atteso che il controllo sulla
motivazione esercitabile in questa sede verte soltanto sulla consequenzialità
logica della linea argomentativa adottata, per cui non è compito della Corte di
cassazione quello di stabilire se la decisione di merito proponga effettivamente la
migliore possibile ricostruzione dei fatti, né di condividerne la giustificazione, ma
soltanto quello di limitarsi a verificare se tale giustificazione sia compatibile con il
senso comune e con i limiti di una plausibile opinabilità di apprezzamento (Sez.
5, sent. n. 40677 del 7/6/2012, Rv. 253714; Sez. 5, n. 1004/00 del 30/11/1999,
Moro, Rv. 215745). Ciò è quanto si riscontra pienamente nella motivazione
adottata dal Tribunale del riesame.
3. Parimenti manifestamente infondata è la censura in punto di sussistenza
dell'aggravante speciale di cui all'art. 7 d.l. n. 152 del 1991.
3.1. In tema di estorsione, questa Corte ha, infatti, affermato che la
circostanza aggravante di cui all'art. 7 D.L. n.152 del 1991 conv. nella L. n. 203
del 1991 è configurabile qualora si siano accertati un'attività intimidativa
caratterizzata da "mafiosità" e l'esplicamento di condotte che, al di là degli
interessi personali dei soggetti che le attuano, siano altresì riconducibili agli
interessi del clan mafioso che ha il controllo sul territorio ovvero siano rese
possibili con l'ausilio degli appartenenti al sodalizio (Sez. 1, sent. n. 12882 del
17/12/2007, Rv. 239846).
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3.2. Il Tribunale, per come sopra si è osservato, ha dato puntualmente
conto dei molteplici indici fattuali e degli elementi probatori da cui risulta che la
pretesa impositiva sia stata avanzata con il tipico metodo mafioso e
nell'esclusivo interesse della locale famiglia mafiosa. Ciò anche in ragione della
matrice soggettivamente mafiosa delle pretese avanzate, in quanto il Profeta
Salvatore ed il Vernengo Cosimo sono uomini d'onore definitivamente condannati
per il reato di associazione mafiosa, nonché del chiaro effetto intimidatorio con
cui sono state formulate le richieste estorsive, tanto da indurre le persone offese
ad effettuare il pagamento di parte della cifra illecitamente richiesta dagli
estorsori e ad allontanarsi da Palermo per non correre pericoli alla propria
incolumità [v. al riguardo il contenuto della telefonata registrata nel corso della
quale Riccardo Gennuso esprime forte preoccupazione per la propria incolumità
personale, dando espressamente conto delle conseguenze alle quali sarebbe
andato incontro laddove non si fosse piegato alla volontà degli indagati ("non ti
ci puoi mettere a compromessi con questi "mafiosi" .. non è che sono persone
normali .. questi .. sono gente mafiosi .. questi ti ammazzano .. ti bruciano tutte
cose.."), di come la situazione fosse divenuta pesante tanto che le visite al bingo
erano divenute meno frequenti e più rapide ("ci sto andando lo stesso.., ho fatto
andare e tornare veloce .. sempre veloce perché ho paura.. ma non è che possa
abbandonare la sala .."), ribadendo i timori già patiti ("ti posso dire che la cosa
qua è divenuta pesante.. e se non mi difendono mi ammazzano..")].
3.3. Né l'aggravante in esame è esclusa dalla circostanza che il ricorrente
non faccia parte dell'organizzazione mafiosa e agisca anche con l'intento di
perseguire un interesse proprio. Al riguardo, questa Corte ha affermato che la
circostanza aggravante del cosiddetto metodo mafioso è configurabile anche a
carico di soggetto che non faccia parte di un'associazione di tipo mafioso, ma
ponga in essere, nella commissione del fatto a lui addebitato, un comportamento
minaccioso tale da richiamare alla mente ed alla sensibilità del soggetto passivo
quello comunemente ritenuto proprio di chi appartenga ad un sodalizio del
genere anzidetto (Sez. 2, sent. n. 38094 del 5/6/2013, Rv. 267065). Inoltre, che
l'aggravante in parola si realizza anche nel caso in cui l'agente persegua
l'ulteriore scopo di trarre un vantaggio proprio dal fatto criminoso, purché ad
esso si accompagni la consapevolezza di favorire l'interesse della cosca
beneficiata (cfr., Sez. 5, sentenza n. 11101 del 04/02/2015, Rv. 262713).
3.4. Quanto all'estensibilità soggettiva dell'aggravante al ricorrente, tratta
dal Tribunale dall'essersi prestato come latore di una tipica pretesa estorsiva
immotivata e connessa unicamente alla matrice mafiosa da cui proviene, va poi
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sottolineato che secondo la giurisprudenza di questa Corte, la circostanza ha
comunque natura oggettiva, riguardando una modalità dell'azione rivolta ad
agevolare un'associazione di tipo mafioso e, pertanto, si trasmette a tutti i
concorrenti nel reato (Sez. 6, sent. n. 19802 del 22/1/2009, Rv. 244261 e Sez.
5, sentenza n. 10966 dell'8/11/2012, Rv. 255206).
4. Inammissibili risultano, infine, le censure in punto di esigenze cautelari.
4.1. Con riferimento a quella secondo la quale il Tribunale non avrebbe
motivato in punto di esigenze cautelari, il Giudice del riesame, lungi dal limitarsi
al mero richiamo della gravità del titolo di reato o dal riferirsi ad elementi di tipo
"congetturale" o "astratto", ha puntualmente evocato, anche mediante il rinvio
all'ordinanza applicativa della misura, gli indici fattuali da cui ha ricavato
l'esistenza dei diversi
pericula
posti a fondamento del provvedimento restrittivo,
correttamente collocati nell'ambito della pregressa descrizione delle modalità
della condotta e dell'origine mafiosa della pretesa estorsiva, per come specificato
nella parte attinente alla gravità indiziaria, ove si da conto dell'apporto causale
dell'indagato, la cui posizione di rilievo non consente di soddisfare le esigenze
cautelari con altre misure.
4.2. Parimenti inammissibile è l'ulteriore censura mossa all'ordinanza
impugnata "sotto il profilo dell'apparenza della motivazione, in quanto
meramente riproducente, anche a livello grafico, quella resa a carico del fratello-
coindagato Vernengo Pietro, in difetto dell'indicazione di elementi di carattere
individualizzante nei confronti dell'odierno ricorrente". Trattasi, anzitutto, di
deduzione sfornita di adeguato riscontro probatorio, in quanto l'ordinanza
"gemella" non risulta allegata al presente ricorso, né è nella diretta disponibilità
di questa Corte, essendo per il ricorrente stato formato un fascicolo a parte
rispetto all'altro coindagato, per l'esame della cui posizione risulta fissata altra
udienza. Il ricorso sul punto è, pertanto, privo della necessaria autosufficienza.
Inoltre, la natura strettamente connessa delle posizioni dei due ricorrenti, alla
luce dell'imputazione di concorso formulata, ne rende logica una trattazione
pressoché unitaria, con la conseguenza che l'asserita "simmetria" motivazionale
non risulta illogica, considerato che l'ordinanza impugnata contiene comunque
specifici riferimenti alle condotte ed ai ruoli svolti da ciascuno dei due fratelli
Vernengo.
4.3. Inammissibile per mancanza di autosufficienza è, infine, l'ulteriore
deduzione con la quale si censura l'ordinanza impugnata per disparità di
trattamento tra l'odierno ricorrente e la coindagata Durante Paola, la quale,
originariamente destinataria della misura della custodia in carcere, sarebbe stata
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posta in regime di arresti domiciliari dal Tribunale del riesame. La mancata
allegazione di tale provvedimento rende la censura, peraltro genericamente
formulata sul mero rilievo dell'asserita identità delle posizioni, del tutto
aspecifica.
5. I ricorsi, pertanto, debbono essere dichiarati inammissibili. Ai sensi
dell'art. 616 cod. proc. pen., con il provvedimento che dichiara inammissibile il
ricorso, la parte privata che lo ha proposto deve essere condannata al
pagamento delle spese del procedimento, nonché - ravvisandosi profili di colpa
nella determinazione della causa di inammissibilità - al pagamento a favore della
cassa delle ammende della somma di C 1.500,00 così equitativamente fissata in
ragione dei motivi dedotti.
Non conseguendo dall'adozione del presente provvedimento la rimessione
in libertà dell'indagato, deve provvedersi ai sensi dell'art. 94, comma 1
ter,
disp.
att. cod. proc. pen.
P.Q.M.
Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna il ricorrente al pagamento delle spese
processuali e della somma di C 1.500,00 in favore della Cassa delle ammende.
Manda alla Cancelleria per gli adempimenti previsti dall'art. 94, comma
1
ter,
disp. att. cod. proc. pen.
Così deciso il 24/11/2016
Il Consigliere estensore
Il Presidente
Giovanni ri
ranco Fian anese
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Corte di Cassazione - copia non ufficiale

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