Il risarcimento del danno non patrimoniale

AutoreEdgardo Colombini
CaricaIspettore assicurativo
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L’interpretazione dell’art. 2059 c.c. non è mai stata cosa semplice, ma nel frattempo si andava ampliando via via il suo campo di applicazione. Basta porre a confronto quello che risulta essere il suo ambito attuale con le valutazioni di un tempo per renderci conto di quanto cammino sia stato percorso.

Si legge invero in una lontana sentenza della Corte di Cassazione (n. 2531 del 31 ottobre 1961) che i danni non patrimoniali sono i danni morali puri, quelli cioè che non arrecano né direttamente, né indirettamente conseguenze patrimoniali economicamente valutabili e che si identifi- cano nell’ingiusto perturbamento delle condizioni d’animo del soggetto leso, concetto ribadito ancora tempo dopo quando si scriveva in una decisione della III Sez. della Suprema Corte (n. 1646, in Arch. Civ. 1979, 782) che il danno morale è l’ingiusto turbamento dello stato d’animo del danneggiato in conseguenza di un atto illecito.

Ma già allora non mancavano sfumature e discrepanze rispetto ad una annunciazione sufficientemente chiara ed esaustiva. Il Tribunale di Venezia, nella sentenza 11 novembre 1978 (in Resp. civ. e prev. 1979, 230), scriveva infatti che i danni morali sono quelli che incidono sulla sfera psichica del soggetto passivo identificandosi con quelle sofferenze fisiche e morali rispetto alle quali il pagamento non costituisce una funzione reintegrativa: qui rientravano cioè fra i danni morali le sofferenze fisiche. È esatto dire che una lesione fisica abbia ripercussioni psichiche o morali, ma se si è nel campo dei danni morali non vediamo come si possa ritornare a menzionare le sofferenze fisiche - e non soltanto le loro conseguenze psichiche - dichiarando che rispetto a queste (sofferenze fisiche, si noti) il pagamento di un risarcimento non costituisce funzione reintegrativa: il che è un non senso mentre è logico se riferito all’esclusiva sfera dei danni morali.

Meglio quindi, per i danni morali, già allora il puro e semplice riferimento all’ingiusto perturbamento dello stato d’animo della persona offesa in conseguenza dell’illecito, così come si legge nella sentenza della Cassazione Civile, Sez. III, del 26 novembre 1977 (in Arch. civ. 1978, 501).

Comunque, a prescindere da queste sfumature e sottigliezze interpretative, allora fondamentale appariva la distinzione esistente nel nostro ordinamento giuridico tra danni morali e danni che ci limiteremo a considerare genericamente caratterizzati da conseguenze economiche per il danneggiato.

Il danno morale - secondo la terminologia invalsa e mutuata dalla similare espressione della dottrina francese che parla di “dammage moral” - o danno non patrimoniale, secondo la terminologia ufficiale del nostro codice civile (art. 2059 c.c. e art. 185 c.p.), poteva essere inteso come quello consistente nell’ingiusto turbamento dello stato d’animo del danneggiato in conseguenza di un atto illecito, conformemente quindi anche alle enunciazioni dellanostra Corte Suprema (vedi Cass. civ., sez. III, 22 marzo 1979, in Arch. civ. 1979, 782).

Non che tutto fosse facile su questo punto, come potrebbe in apparenza sembrare, tanto è vero che dottrina e giurisprudenza avevano per lo più elaborato la nozione di danno non patrimoniale in contrapposizione al danno suscettibile di valutazione economica (vedi in proposito Cass. civ., 31 ottobre 1961, n. 2531): è cioè danno non patrimoniale il danno morale puro e cioè quello che non ha né direttamente né indirettamente conseguenze patrimoniali economicamente valutabili.

Anche considerando che il danno non patrimoniale o morale si traduce in somme di denaro - quando ne sia previsto il riconoscimento - sarebbe stato forse bene già allora tentare un inquadramento in positivo anziché in negativo.

Non ci nascondiamo la difficoltà di una definizione, specie considerando che il criterio seguito era stato quello di una enunciazione a contrario.

Incominceremo allora col ricordare che ognuno di noi ha una struttura psicologica, più o meno complessa, a seconda della propria personalità, della propria preparazione culturale (piaccia o meno ai cultori dell’appiattimento ugualitaristico), della propria condizione sociale, della stessa età: questi elementi (personalità, cultura, ecc.) sono un po’ come il guscio in cui è racchiusa l’essenza di ognuno di noi.

Su questa struttura psicologica lasciano la loro traccia - lieta o no - i fatti della vita di ogni giorno arricchendola o impoverendola, arrecando sensazioni gioiose o sconforto e dolore: sono tracce irreversibili, in alcuni casi, mentre in altri se ne può verificare l’assorbimento col trascorrere del tempo. Su questa struttura - che è influenzata dalla materia ma che materia non è - possono agire negativamente anche gli ingiusti comportamenti di altri individui.

Il danno morale pare pertanto, ancor oggi, poter consistere nella incidenza del comportamento ingiusto del terzo sulla struttura psicologica dell’individuo, sulla struttura stessa dell’”io”, sulla propria identità personale: qualche cosa quindi di più alto e di più caratterizzante del semplice stato d’animo, cui si è spesso fatto riferimento dalla giurisprudenza quando ha voluto saggiamente porsi sul terreno di una enunciazione in positivo, e non a contrario, del danno morale, praticamente ab inizio esclusiva ipotesi di danno non patrimoniale di cui finiva con l’essere sinonimo.

La struttura della propria identità personale è forse il riferimento che più si attaglia alla nostra problematica, anche perché consente elasticità di apprezzamenti nella

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determinazione del danno morale arrecato ed anche perché ha consentito di affacciarsi ad una nuova prospettiva in questo campo ricordando che non ogni reato dà diritto al risarcimento di un danno non patrimoniale a favore del danneggiato (lo stesso art. 185 c.p. stabilisce l’obbligo del risarcimento “per ogni reato che abbia cagionato un danno patrimoniale o non patrimoniale”: con il che si ipotizza la possibile esistenza di un reato senza danno, specialmente nel campo dei danni non patrimoniali), ma anche che un danno non patrimoniale dovrebbe poter essere riconosciuto all’infuori della sussistenza di un reato: il che non si è andato giustappunto progressivamente evidenziando.

Questo è il punto di partenza che - come vedremo - si è tramandato portandoci a una definizione attuale - nel complesso simile - del danno morale che non è però più inteso come equivalente della dizione “danno non patrimoniale”, tante essendo risultate le voci via via sussunte nel danno non patrimoniale, voci che ora le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno cercato di ricondurre all’unità con sentenza da taluni considerata confusa, e che - come apparirà chiaro - va a sbattere contro un ben diverso attuale orientamento del legislatore creando nuova incertezza.

L’altra grande e complessa questione sulla quale si è a lungo dibattuto è rappresentata dall’ambito entro il quale il danno non patrimoniale può essere risarcito. L’art. 2059 c.c. concisamente fa riferimento ai soli casi previsti dalla legge e la risposta univoca sin dall’inizio fu rappresentata dal richiamo all’art. 185 c.p. (“ogni reato, che abbia cagionato un danno patrimoniale o non patrimoniale, obbliga al risarcimento il colpevole).

Ne conseguiva che il danno non patrimoniale era caratterizzato da tipicità poiché era risarcibile solo nei casi determinati dalla legge. Si è poi ampliato il ristretto iniziale orizzonte incominciandosi a parlare di danni consistenti nella lesione di specifici diritti inviolabili della persona (vedasi Sezioni Unite n. 26973 dell’11 settembre 2008, inviolabili della persona (vedasi le Sezioni Unite n. 26973 dell’11 settembre 2008, in questa Rivista 2009, 27 e segg.).

Di contro il risarcimento del danno patrimoniale da fatto illecito è sempre stato connotato da atipicità postulando l’ingiustizia del danno di cui all’art. 2043 c.c. la lesione di qualsiasi interesse giuridicamente rilevante (Cass. civ. n. 500/1999). Ma a quella enunciazione sul danno non patrimoniale - cui dianzi abbiano accennato - si è pervenuti soltanto con il trascorrere del tempo dal momento che in pratica il riferimento era stato sin dall’inizio esclusivamente all’art. 185 c.p.. Ne troviamo conferma in Cass. civ., 12 maggio 2003, n. 7283, in questa Rivista 2003, 1063, ove è giustappunto dato di leggere: “All’epoca della emanazione del Codice civile (1942) l’unica previsione espressa del risarcimento del danno non patrimoniale era racchiusa nell’art. 185 del codice penale del 1930.

Ritiene il Collegio che la tradizionale restrittiva lettura dell’art. 2059 c.c., in relazione all’art. 185 c.p. come diretto ad assicurare tutela soltanto al danno morale soggettivo, alla sofferenza contingente, al turbamento dell’animo transeunte determinati da fatto illecito integrante reato (interpretazione fondata sui lavori preparatori del codice del 1942 e largamente seguita dalla giurisprudenza), non può essere ulteriormente condivisa. Nel vigente assetto dell’ordinamento, nel quale assume posizione preminente la Costituzione - che all’art. 2 riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo -, il danno non patrimoniale deve essere inteso come categoria ampia, comprensiva di ogni ipotesi in cui sia leso un valore inerente alla persona. Tale conclusione trova sostegno nella progressiva evoluzione verificatasi nella disciplina di tale settore, contrassegnata dal nuovo atteggiamento assunto, sia dal legislatore che dalla giurisprudenza, in relazione alla tutela riconosciuta al danno determinato dalla lesione di interessi inerenti alla persona non connotati da rilevanza economica (in tal senso vedi già Corte cost. n. 88/79). Nella legislazione successiva al codice si rinviene un cospicuo ampliamento dei casi di espresso riconoscimento del risarcimento del danno non patrimoniale anche al di fuori dell’ipotesi di reato, in relazione alla compromissione di valori personali (art. 2, L. 13 aprile 1998, n. 117: risarcimento anche dei danni non...

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