Querela e prescrizione. Risarcimento danni

AutoreEdgardo Colombini
Pagine199-207

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Una decisione relativamente recente della Corte di Cassazione (sez. III, 8 settembre 2006 n. 19297, in questa Rivista 2007, 538) in materia di prescrizioni brevi ci ha portato a riflettere ancora una volta su una disputa che può sembrare definitivamente risolta con la sentenza n. 5121 del 10 aprile 2002 delle Sezioni unite (in questa Rivista 2002, 457), atteso che qualche Corte territoriale pare invece essere ancora orientata in senso contrario applicando «la prescrizione penale, se più lunga di quella civile, qualora in astratto sussista il reato di lesioni colpose», come è dato di leggere in una decisione del Tribunale civile di Roma (sez. XII, n. 20600 del 29 settembre 2005, in questa Rivista 2006, 177), che fa espresso riferimento - non condividendola - alla pronuncia ridetta delle Sezioni unite che aveva affrontato il problema di un fatto illecito che integri gli estremi di un reato perseguibile a querela di parte quando questa non sia stata proposta.

Questo richiamo - in opposizione - al pronunciamento delle Sezioni unite ci appare invero come la spia di un mancato generalizzato convincimento su un argomento in relazione al quale la decisione dei Supremi Giudici dà comunque adìto a qualche perplessità con l'auspicio di un ripensamento.

In quest'ottica partiremo allora dall'esame dell'istituto della prescrizione del diritto al risarcimento del danno per arrivare ad individuarne le connessioni, nel nostro ordinamento giuridico, con le norme penali quando il fatto che quel danno ha prodotto costituisca reato perseguibile tanto d'ufficio quanto a querela di parte.

Acquisita dalla dottrina giuridica appare la definizione della prescrizione come «quell'evento (più propriamente noi parleremo di "circostanza" atteso che il termine "evento" si ricollega ad un fatto mentre qui siamo proprio di fronte a un non facere) che è il modo o il mezzo col quale, mediante il decorso del tempo, si estingue (e si perde) un diritto soggettivo - capace di reiterato o prolungato esercizio - per effetto del mancato esercizio (MESSINEO, Manuale di diritto civile e commerciale, Vol. I, Giuffrè 1950, pag. 178); decorso del tempo, più o meno lungo - a seconda dei casi - fissato dalla legge». Definizione, questa, lontanissima del MESSINEO, che ritroviamo nella letteratura giuridica successiva, atteso che anche TORRENTE-SCHLESINGER (Manuale di diritto privato, Giuffrè 1981, pag. 144) afferma produrre la prescrizione «l'estinzione del diritto soggettivo per effetto dell'inerzia del titolare del diritto stesso che non lo esercita (art. 2934 c.c.) o non ne usa (artt. 954 ultimo comma, 970, 1014, 1073 c.c.) per il tempo determinato dalla legge».

Anche la giurisprudenza si è orientata in questo senso fin dal lontano 1949 (vedi Cass. civ. 15 marzo 1949, n. 532, in Foro it. Mass. 1949, 109) omogeneamente affermando che «il fondamento della prescrizione è nell'estinzione di un diritto che, per inerzia del titolare, si presume abbandonato, mentre, a base della decadenza, sta la necessità obiettiva che particolari atti siano compiuti entro un termine perentorio, senza riguardo alle circostanze subiettive che abbiano determinato l'inutile decorso del termine» (così, ad esempio, ancora Cass. civ. 21 agosto 1972, n. 2960, in Giust. civ. 1972, I, 1930).

Quale sia la ragion d'essere della prescrizione pare altrettanto pacifico: consisterebbe cioè nella aspirazione alla certezza dei rapporti giuridici a che un diritto sia esercitato, onde, per cui se non è esercitato per un certo tempo notevolmente lungo, mentre poteva essere esercitato, deve considerarsi come rinunciato dal titolare, per cui presupposto della prescrizione e del suo effetto è un contegno di inattività del titolare del diritto che di regola è dovuto a negligenza o ad incuria, ossia a fatto volontario (dormientibus iura non succurrunt) (MESSINEO, ibid. pag. 183).

Su questa esigenza di fondo che si individua in tutte le molteplici situazioi in cui si realizza l'istituto della prescrizione, troviamo innestate le particolari disposizioni dell'art. 2947 c.c. in materia di risarcimento danni derivanti da fatto illecito. In questi casi la prescrizione - che è normalmente di dieci anni (art. 2946 c.c.) - è contenuta nel più breve termine dei cinque anni dal giorno in cui il fatto si è verificato, mentre scende a due anni per i danni prodotti dalla circolazione dei veicoli di ogni specie (art. 2947 c.c. primo e secondo comma).

Quale sia stato il motivo di questa drastica riduzione, ebbe a ricordarlo l'ALIBRANDI, (Appunti sull'art. 2947 c.c., secondo comma, in Arch. giur. circ. e sin. strad. 1987, pag. 833) rifacendosi alla Relazione del Guardasigilli al Codice civile, ove era dato di leggere che «nella molteplicità dei casi la prova del fatto illecito si fonda sulle deposizioni dei testimoni; col decorso del tempo il ricordo delle circostanze su cui questi sono chiamati a deporre svanisce o si attenua, e si accrescono così i pericoli ine-Page 200renti a siffatto mezzo di prova», mentre, per la specifica situazione dei danni derivanti dalla circolazione, si osservava che «un termine di prescrizione superiore a quello biennale avrebbe reso difficile al convenuto, nel caso di sinistri derivanti dalla circolazione dei veicoli senza guida di rotaie, di vincere la presunzione di colpa sancita dall'art. 2054 c.c. primo comma, né sarebbe stato opportuno introdurre un'ulteriore distinzione e stabilire un termine diverso per il diritto al risarcimento del danno derivante dalla circolazione dei veicoli con guida di rotaie (par. 1206)».

Questa giustificazione della norma sulla prescrizione dei danni derivanti da fatto illecito in genere e di quelli conseguenti alla circolazione dei veicoli, che «va individuata nella difficoltà di conservazione dei mezzi di prova del fatto da cui trae origine il diritto al risarcimento del danno» (ALIBRANDI, ibid. pag. 833), ci appare peraltro superata - quanto meno in buona parte - dall'evolversi delle situazioni nel tempo e, quindi, ora parzialmente inattuale.

A tanto, pensiamo si debba pervenire, soffermandoci un momento proprio sulla portata del terzo comma dell'art. 2947 c.c.

Le disposizioni di base del primo e del secondo comma dell'art. 2947 c.c. trovano - come si sa - una deroga nel terzo comma ove si dispone che «in ogni caso, se il fatto è considerato dalla legge come reato e per il reato è stabilita una prescrizione più lunga, questa si applica anche alla sanzione civile. Tuttavia, se il reato è estinto per causa diversa dalla prescrizione o è intervenuta sentenza irrevocabile nel giudizio penale, il diritto al risarcimento del danno si prescrive nei termini indicati dai primi due commi, con decorrenza dalla data di estinzione del reato o dalla data in cui la sentenza è divenuta irrevocabile». Questa deroga, secondo un'accurata individuazione delle intenzioni del Legislatore operata in tempi lontani dalla Corte Suprema (vedi Cass. civ., sez. III, 29 gennaio 1957, n. 313, in Arch. resp. civ. 1958, pag. 154, voce Prescrizione) sarebbe stata introdotta per «ovviare» ad un inconveniente, altrimenti facilmente verificabile di fronte ai due predetti ristretti termini prescrizionali: che, cioè, pur non essendo ancora stata iniziata l'azione penale, o pur essendo ancora in corso il processo penale, si consumi la prescrizione del diritto della parte lesa al risarcimento del danno; in altri termini, si è voluta accomunare la sorte della pretesa riparatoria del privato danneggiato e della pretesa punitiva dello Stato, in guisa da evitare che l'autore di un reato dichiarato responsabile e condannato in sede penale resti esente dall'obbligo del risarcimento verso la vittima del reato in conseguenza dell'avvenuta più breve prescrizione civile. Con la disposizione del terzo comma si è supplito così, non importa se nel modo tecnicamente più adeguato, alla mancanza, nel sistema legislativo, di una norma generale, la quale importi l'interruzione, la sospensione o la non decorrenza del termine di prescrizione dell'azione civile fino a quando è in vita l'azione penale o è in corso il processo penale, sempre, s'intende, che in essa non sia stata innestata la pretesa di risarcimento mediante la costituzione di parte civile.

Se raffrontiamo invero ora il momento storico ed economico in cui è entrato in vigore il nostro codice civile a quello attuale, ci rendiamo subito conto del fatto che, mentre allora la circolazione dei veicoli era un fenomeno alquanto limitato e che gli stessi danni derivanti da fatto illecito di qualsiasi altro genere (artt. 2047-2053 c.c.) rappresentavano percentuale modesta nel panorama del contenzioso giudiziario, oggigiorno l'aumentato volume della circolazione veicolare, l'intensificarsi delle attività lavorative con rischi connessi, dei rapporti, dei contatti interindividuali con i conseguenti casi di collisione reciproca dei diritti dei singoli hanno praticamente trasformato il rapporto numerico succitato allora esistente fra i danni determinati da fatti costituenti reato e tutte le altre situazioni di conflittualità. Ne consegue che, quella che nell'anteguerra sembrava rappresentare un'eccezione alla impostazione di base dei primi due commi dell'art. 2947 c.c., oggi appare essere un fenomeno ben più consistente. E se così è, appare praticamente incongrua ormai, la spiegazione che in partenza si poteva dare ut supra al particolare contenimento del periodo prescrizionale previsto dall'art. 2947 c.c. nei suoi primi due commi.

Con termini allungati - per un ben più elevato numero di casi - in aderenza alla più lunga prescrizione del fatto considerato dalla legge come reato, finisce praticamente con il modificarsi l'approccio alla normativa di cui all'art. 2947 c.c. nel suo complesso. Cade invero, nella conseguente realtà concreta, la possibilità di porre l'accento sul timore di incerte deposizioni testimoniali (con conseguenti difficoltà anche nell'ottica del superamento della presunzione di colpa di cui all'art. 2054 c.c. ricordata...

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