Percorso «motivazionale» del giudice. Criteri di valutazione della prova

AutoreGiuseppe Airò
Pagine521-531

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Il momento conclusivo del processo si traduce nella sentenza: acquisite le prove ed ascoltate le ragioni delle parti il giudice valuta il materiale probatorio raccolto e decide sul tema della decisione rappresentato dall'imputazione.

Il giudice deve valutare: 1) se gli elementi materiali (condotta ed evento) descritti nell'imputazione esistono (sussistenza del fatto); 2) se quel fatto è attribuibile all'accusato; 3) se l'imputato lo ha commesso con coscienza e volontà; 4) se quel fatto è previsto dalla legge come reato; 5) se l'imputato è persona imputabile e cioè se al momento del fatto avesse la capacità di intendere e di volere. L'art. 530 c.p.p. pone, infatti, al Giudice una sequenza di interrogativi ai quali si deve dare una risposta e soltanto se la risposta a tutti gli interrogativi è con certezza positiva e non vi sono cause di giustificazione o di non punibilità, il Giudice pronuncia sentenza di condanna; qualora la risposta ad uno solo di questi interrogativi sia negativa il Giudice deve assolvere.

In ipotesi di incertezza, in ossequio al principio costituzionale ex art. 27 secondo comma ed in conformità al principio riconosciuto dall'art. 6, paragrafo 2 Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo («presunzione di innocenza sino ad accertamento legale della colpevolezza»), detta presunzione pone una precisa regola di giudizio che si può così tradurre: «L'imputazione formulata dal P.M. è solo un'ipotesi che va dimostrata nel processo in tutti i suoi elementi senza che sia richiesto all'accusato un onere probatorio, proprio perché è presunto innocente e per questo qualora il P.M. non riesca a provare la sua ipotesi il giudice deve assolvere».

La presunzione di innocenza chiarisce altresì il secondo comma dell'art. 530 c.p.p. che ne ha rappresentato l'attuazione più significativa con l'abolizione della formula dell'insufficienza di prove e ha trovato esplicita applicazione nella nuova statuizione ex art. 533 c.p.p. (come modificata dalla legge 20 febbraio 2006: «se l'imputato risulta colpevole del reato contestatogli al di là di ogni ragionevole dubbio...»).

Fatta questa premessa, si deve affrontare il nocciolo della questione: il percorso decisionale è strettamente connesso ai criteri di valutazione della prova ed ai limiti conoscitivi del giudizio a fronte di una esigenza «etica della certezza».

A tal fine mi pare opportuno (per cogliere il senso di questa fatica) fare un breve raffronto tra i diversi sistemi oggi in vigore nei Paesi evoluti: quello a prova legale e quello a verdetto immotivato della giuria.

Alla valutazione della prova il codice di rito destina solo due articoli: il 192 («valutazione della prova») ed il 546 primo comma lett. e) («requisiti della sentenza»).

Tali articoli sono una risposta ad un problema che ha origini storicamente lontane: giudicare è «un disumano potere» che va in qualche modo inbrigliato.

Si cela un paradosso nell'accertamento del fatto da parte del giudice: vi è un'imperiosa esigenza etica di certezza da un lato e dall'altro lato vi è un insormontabile limite di conoscenza.

Nel giudizio di fatto il giudice non fa altro che compiere un'attività storiografica e cioè ricostruisce un fatto del passato attraverso i segni del presente e a tal fine è inservibile la logica dimostrativa che è l'unico metodo che offre certezza (il sillogismo deduttivo, infatti, trae conclusioni certe da premesse assunte come vere, ma ha il limite costituito dal fatto che le certezze scaturiscono dalle stesse premesse e quindi non accresce la conoscenza non dando ragioni aggiuntive rispetto a quelle vincolate dalle premesse che si danno per certe); nell'accertamento del fatto, invece, il problema sta proprio nell'individuare le premesse e non esiste un unico sillogismo in grado di far discendere dalle sue premesse un accertamento del fatto nella sua globalità, né è ipotizzabile un simile accertamento attraverso una sequenza priva di discontinuità di sillogismi (la conclusione del primo è premessa del secondo e così via e né si può procedere a scomposizione del fatto in singoli elementi da valutare in base a sillogismi autonomi: un sillogismo che dimostri il nesso di causalità, un altro che dimostri il dolo ecc.).

La realtà è invece che la stragrande maggioranza delle regole che vengono utilizzate nel giudizio sul fatto sono generalizzazioni basate sull'induzione sperimentale di casi noti, regole però sempre esposte al rischio di eccezioni.

A questo punto sembra che non si possa sfuggire ad una alternativa: o si pone autoritativamente una premessa maggiore arbitraria e così si mette in moto il sillogismo probatorio; o si rinuncia alla razionalità dimostrativa e ci si affida a quella forma di capacità conoscitiva che è l'intuizione.

Nel primo caso si ha il sistema delle prove legali. Nel secondo caso il sistema della convinzione intima. Il primo, fondato sull'arbitrio del legislatore, privilegia il valore della certezza rispetto alla giustizia del caso singolo; il secondo, fondato sull'ar-Page 522bitrio del giudice, privilegia il valore della giustizia rispetto a quello della certezza.

Prova legale altro non vuol dire che valutazione legale della prova che non tollera eccezioni.

In questo contesto il diritto probatorio è mero diritto di formazione della prova: ad es. dall'esperienza giudiziaria risulta che chi confessa in genere dice la verità; si trae allora la regola legale secondo cui tutti quelli che confessano dicono la verità (premessa maggiore), ma poi tutto sta nel cercare la premessa minore e quindi vedere nel singolo processo se l'imputato è reo confesso o no (sillogismo probatorio).

Nel secondo sistema fondato sul verdetto immotivato della giuria si abbandona la logica deduttiva e l'idea di un controllo ex post del ragionamento del giudice attraverso la motivazione delle sue scelte: si privilegia eticamente l'unicità del caso singolo rispetto alla soffocante uniformità generale e mancando affidabili criteri di controllo non si richiede in quest'ottica una motivazione come freno al suo arbitrio (si privilegia invece il controllo ex ante per garantire una corretta formazione del convincimento del giudice: da qui gli accorgimenti minuziosi nella scelta della giuria ed una fitta trama di regole di esclusione probatoria per evitare che sul verdetto premano i pregiudizi del giudice ed occorre impedire che la maturazione del convincimento sia fuorviata da prove o da forme di acquisizione potenzialmente insidiose).

Al di là delle macroscopiche differenze, vi è un'analogia di fondo tra i due sistemi: entrambi immettono nel processo regole legali di prova e cioè in entrambi i casi il diritto probatorio si limita a disciplinare la formazione della prova:

- nel primo, la regola legale interviene al momento della valutazione laddove il materiale probatorio da valutare è virtualmente illimitato;

- nel secondo, la regola legale interviene nella selezione del materiale probatorio da valutare laddove la valutazione è libera da vincoli legali.

Entrambi hanno costi sociali rilevanti proprio perché infittire il processo di regole di valutazione della prova o di regole legali di esclusione significa disancorare il processo dalla verità; infatti la regola di valutazione nel sistema di prova legale può nel caso di specie essere erronea e così, nel sistema a verdetto immotivato, le regole di esclusione possono portare ad escludere informazioni rilevanti e non assicurano affatto che i pregiudizi non filtrino nella giuria e non lavorino inconsapevolmente al verdetto sotto la spinta di tecniche di argomentazione meramente persuasive.

@1. Motivazione e metodo legale di prova. Il procedimento induttivo di controllo dell'ipotesi

Bisogna partire da una constatazione valida per qualsiasi modello conoscitivo: una verità oggettiva, unica, indubitabile, non è attingibile nelle vicende umane e quindi è arduo pensare che la ricerca storiografica del Giudice abbia una oggettività ed una capacità conoscitiva idonea a garantire una simile verità, ed allora occorre sostituire all'idea della verità oggettiva l'idea dell'approssimazione alla verità, all'idea della certezza quella della probabilità da raggiungere con la razionalità argomentativa piuttosto che la razionalità dimostrativa propria della logica deduttiva.

Il ragionamento del Giudice non deve avere il carattere dell'inconfutabilità logica, bensì quello meno cogente dell'accettabilità razionale: una razionalità, si badi, che risponde a delle regole e le cui procedure siano suscettibili di controllo; in questo contesto, libero convincimento non sta ad indicare il fenomeno psicologico di una coscienza che si autodetermina liberamente, piuttosto un fenomeno conoscitivo che si svolge libero da pregiudizi legali e individuali, ma vincolato alle regole proprie della razionalità discorsiva.

Se così non fosse, non avrebbe senso l'obbligo della motivazione che riguarda un discorso razionale, non un fenomeno psichico (un processo psichico si spiega, non si motiva). Libero convincimento e motivazione vanno visti in un'interazione reciproca, anche se spesso si dice: «Il Giudice prima decide e poi motiva», come dire: la motivazione non rispecchia fedelmente le ragioni della decisione, ma cerca di imbastire un discorso plausibile che valga a giustificare una decisione presa per motivi a volte sconosciuti allo stesso Giudice.

In realtà i contesti sono strettamente collegati: il giudice sceglie e decide nell'ambito del motivabile, decide ciò che riesce a motivare. La motivazione è il vero limite alla libertà del Giudice e la vera garanzia contro ogni arbitrio. Ma c'è di più: la motivazione non solo protegge la collettività dal Giudice, ma protegge il Giudice da pregiudizi extralegali che promanano dalla collettività.

Il diritto probatorio rinviene il proprio asse portante nella motivazione: le parti offrono tesi motivate, il Giudice sceglie quella ricostruzione del fatto che sia sorretta da una motivazione in grado di resistere agli assalti.

Da questa...

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