Notazioni (minime) in tema di interesse ad impugnare sentenza assolutoria piena motivata sul rilievo di prova contraddittoria. Una decisione tesa all'attuazione innovativa di una logica accusatoria.

AutoreCarlo Dell'Agli
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@1. Note introduttive

Il percorso compiuto dal giudice di legittimità, chiamato a pronunciarsi sul ricorso dell'imputato avverso la decisione di assoluzione emessa dal giudice di merito ex art. 530, comma 2 c.p.p. per assoluta inadeguatezza probatoria acquisita a suo carico, appare - sulla pronunciata declaratoria di inammissibilità per carenza di interesse - invero, tecnicamente corretta e, nel dilungarsi in una diligente ricerca in ordine alle posizioni assunte dalla prevalente giurisprudenza sul tema in commento, senza dubbio scrupolosamente meditata non esitando, in tal senso, di porre rigorosamente l'accento sull'asserita non sussistenza dell'interesse ad impugnare dell'imputato 1.

È da riconoscere, dunque, al tenore del provvedimento, un espresso giudizio strettamente diretto ad una valutazione analitica e metodica, ritenuto che il soggetto, nel proporre impugnazione al gravame, intende conseguire un fine volto alla mera rimozione del decisum con la formula del dubbio, in modo armoniosamente corrispondente ai compiti pertinenti ad un ambito particolare che esso è deputato a svolgere in un pubblico dibattimento provando, così, in modo chiaro la mancanza di validità effettiva della formula dubitativa con il conseguente esito statuitivo di cui al comma 1 dell'art. 530 c.p.p.

Osserva, infatti, la Corte che «la pronuncia assolutoria per insussistenza del fatto o perché l'imputato non lo ha commesso (pur a fronte di una prova insufficiente o contraddittoria), dunque, priva il destinatario di ogni concreto ed apprezzabile interesse al conseguimento di una sentenza più favorevole, in quanto la statuizione conclusiva già adottata non può essere modificata, anche qualora sia stata aquisita la prova positiva della sua innocenza».

La chiarezza ermeneutica dell'apparato decisionale, sul punto, consente sostanzialmente di individuare, come ribadito, i termini del problema de quo: il diniego dell'interesse dell'imputato alla proposizione del gravame avverso una pronuncia espressa dalla previsione dell'art. 530, secondo comma, c.p.p.

La ratio di tale itinerario argomentativo, quindi, da intendere non nel senso di rifiuto ad atteggiamenti contrari all'interesse ad impugnandum ex art. 530 comma 2 c.p.p., bensì di ritenere nullo l'aspetto configurativo nella sola ipotesi nella quale l'imputato, assolto oramai con una delle due formule assolutorie piene, sia nella unica possibilità propria e pretestuosa di conseguire una decisione che, benché l'adozione della medesima formula liberatoria, risulti chiaramente dal corpus motivazionale l'assoluto elemento probatorio della sua non colpevolezza.

Si tratta, in concreto, di una valida formula processuale peculiare della Suprema Corte che si colloca, indubbiamente, nel solco dell'orientamento delle Sezioni Unite con la pronuncia n. 2110/96: si chiosa, infatti, che l'interesse all'impugnazione benché non «debba essere confinato nell'area dei soli pregiudizi penali derivanti dal provvedimento giurisdizionale [...] neppure si può concepire l'interesse all'impugnazione come un'aspirazione soggettiva al conseguimento di una pronuncia dalla cui motivazione siano rimosse tutte quelle parti che possono essere ritenute pregiudizievoli, perché esplicative di una perplessità sull'innocenza dell'accusato».

In realtà, come osserva il giudice di legittimità, l'impugnazione viene a configurarsi «come un rimedio a disposizione della parte per la tutela di posizioni soggettive giuridicamente rilevanti e non già di meri interessi di fatto, non apprezzabili dall'ordinamento giuridico». (Nella fattispecie la Corte non ha stimato la sussistenza dell'interesse al gravame da parte dell'imputato il quale era stato assolto con la formula di cui all'art. 530, comma 2, c.p.p.).

La Corte Suprema, in passato, aveva affrontato la norma in questione affermando, nel dictum della sentenza, l'impossibilità di configurare l'interesse dell'imputato: una volta che sia stata pronunciata assoluzione a mente dell'art. 530, comma 2, a seguito dell'abolizione della formula dubitativa, avendo il giudice, stimate le prove insufficienti previa loro acquisizione, viene meno qualunque apprezzabile interesse dell'imputato teso a conseguire una più favorevole sentenza, posto che la conclusiva statuizione racchiusa in essa risulta non più suscettibile di modifica, tanto nell'ipotesi di acquisizione di prova che acclari la sua innocenza, tanto che la prova della sua colpevolezza si sia palesata legittimamente insufficiente.

Alla corretta soluzione prospettata dal giudice di legittimità, nel suo più autorevole consesso, cioè nel delineare e sostenere una tesi argomentativa strettamente «tecnico-pro- Page 439cessuale», segue un indirizzo ermeneutico, di segno opposto, inclina all'affermazione che l'interesse ad impugnare dell'imputato, assolto con la formula «per non aver commesso il fatto» a mente dell'art. 530 comma 2, è configurabile laddove la prova non sia stata stimata sufficiente.

Appare evidente, dall'affermazione di tale orientamento, come il corpus motivazionale rappresenti una mera funzione di complemento necessario alla sentenza e la valutazione prognostica negativa in essa racchiusa, sussistendone la condizione pregiudizievole (eventuale condizione di causa di danno alla parte impugnante), costituisca, a fortiori, la legittima proposizione al relativo gravame da parte dell'imputato 2, il fine del quale sarà teso al conseguimento di provare, concretamente, il giustificato interesse ad un provvedimento che sia a lui più favorevole e avendo cura di prendere in considerazione, previa valutazione, non soltanto le conclusioni del dispositivo - sebbene sia un po' difficile, prima facie, recepirne la trasparenza del fondamento valutativo negativo - ma (anche) l'apparato motivazionale.

Si afferma, inoltre, come l'ordinamento - in maniera preminente - tuteli il diritto all'opinione della persona che, coinvolta in una circostanza fondata sulla natura del dubbio intimamente radicata nell'assoluzione in questione a norma dell'art. 530 c.p.p., comma secondo, avrebbe per una simile decisione (id est di proscioglimento), seri riflessi pregiudizievoli sulle eventuali facoltà di scelta del soggetto nell'ambito della pubblica amministrazione 3.

Interpretazione, quindi, da disattendere proprio perché non possono trarsi argomenti a favore della stessa sulla scorta dell'elemento letterale concepito nel corretto ambito applicativo dei criteri ermeneutici ben illustrati nel corpus motivazionale del decisum del giudice di legittimità secondo cui non offrono elementi idonei a risolvere la problematica de qua.

La disamina della questione - prestandosi a diversi interessanti aspetti problematici - che ha dato luogo e continua a dar luogo, sia nella giurisprudenza che nella dottrina, a contrastanti orientamenti nell'ambito operativo induce, invero, ad una attenta considerazione di riflessione 4.

@2. La ratio dell'interesse ad impugnare.Profili generali

La chiara ed inequivocabile lettura del citato comma 4 di cui all'art. 568 c.p.p., secondo la perentoria voluntas legislatoris, impone, come necessaria condizione di ammissibilità al beneficio del gravame, che la parte impugnante vi abbia interesse.

Ed in relazione, proprio, al dettato di cui al comma 4 del citato articolo e al comma 1, lettera a) di cui all'art. 591, tale interesse ad impugnandum si sostanzia a pena di inammissibilità.

Il previgente codice abrogato, testualmente sanciva che «per proporre un mezzo di impugnazione è in ogni caso necessario avervi interesse» mentre il dato normativo secondo il rito di nuovo conio statuisce che «per proporre impugnazione è necessario avervi interesse».

Il legislatore, a prescindere dalla distinzione tra vecchio e nuovo codice di rito, ha voluto essere - secondo il dettato degli artt. 568 comma 4 e 591 comma 1 lett. a) del codice di procedura penale - piuttosto tassativo e perentorio statuendo la pena dell'inammissibilità.

Tuttavia, la eliminazione della espressione locutoria «in ogni caso» - nel testo normativo previsto nel comma 4 di cui all'art. 190 dell'abrogato codice di rito - come intellegibilmente si desume dalla relazione, è connaturata al carattere di mera superfluità di tale inciso che non priva, in modo assoluto, di pregio la natura del contesto dispositivo della norma, attesa l'acclarata tassatività della stessa in esame 5.

Nell'analisi dispositiva attuale, disegnata dal legislatore, il comma 4 assolve ad un compito meramente rigoroso posto che l'interesse ad impugnare riveste un concetto a carattere «concreto» nel senso che esso non si prefigura soltanto con l'insorgere dell'esatto momento giuridico della pronuncia e deve distendere, quindi, ogni proposito processuale al fine di rimuovere un tangibile preconcetto che il soggetto è stato costretto a sopportare, a subire con l'impugnato provvedimento. Pertanto esso (interesse) non si prefigura quando si presenta, come precipuo aspetto e fondamento, in una chiara richiesta all'esattezza giuridica della pronuncia e, quindi, a conseguire un concreto pregiudizio che il soggetto prevenuto abbia, dal provvedimento impugnato, passivamente accettato l'acclarata ingiustizia della pronuncia stessa 6.

È noto, nel chiaro delineato propositivo pensiero del legislatore, che l'interesse ad impugnare si manifesta all'atto attributivo della titolarità del diritto (legitimatio ad causam) volto ad innescare, come contemplato dal comma 1 di cui all'art. 568 c.p.p., l'attività giurisdizionale protesa alla direzione esecutiva della norma nei suoi gradi di giudizio immediatamente dopo il primo.

Di detta problematica, infatti, si fa notevole carico il comma 4 dello stesso articolo ove testualmente recita che «per proporre impugnazione è necessario avervi interesse».

Orbene la ratio di tale testuale dato normativo, per tale fattispecie, nella letteratura giurisprudenziale è agevolmente individuabile. Esso si...

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