Le mobili frontiere del testimone comune, del testimone assistito e del dichiarante ex art. 210 C.p.p. Dubbi interpretativi e difficoltà applicative

AutoreGiuseppe Luigi Fanuli/Andrea Laurino
Pagine399-410

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    Lo scritto riproduce, con lievi variazioni, la relazione svolta nell'incontro di studio sul tema: «Le figure soggettive del dichiarante dopo la legge sul giusto processo» organizzato dall'Ufficio per la formazione decentrata della Corte di appello di Ancona (Ancona, 6 maggio 2003).

@1. Preliminari considerazioni «di sistema»

Fino a pochi anni orsono la figura del testimone e quella della persona di cui all'art. 210 c.p.p. - identificata, nell'immaginario collettivo, con quella del pentito o del chiamante in correità - apparivano ben stagliate sulla scena del processo penale, con contorni nettamente delineati, tanto che se ne postulava una esistenza, sul piano logico od ontologico, in un certo senso «autonoma» rispetto al processo (anche se, ovviamente, ad esso imprescindibilmente connessa).

Da un lato - in estrema sintesi - il soggetto che, venuto a conoscenza di fatti rilevanti ai fini della decisione, non può sottrarsi all'obbligo penalmente sanzionato, di rispondere secondo verità, dall'altro la persona, che coinvolta quale soggetto attivo nella vicenda criminale oggetto del processo penale, può rendere dichiarazioni nei confronti degli altri imputati, le quali, però, proprio in quanto provenienti da soggetto anch'esso imputato, sono assoggettate a restrittivi criteri normativi di valutazione probatoria (art. 192 comma 3, 4 c.p.p.) 1.

Il quadro si è andato complicando a seguito di alcuni interventi della Corte costituzionale e della elaborazione giurisprudenziale che ad essi ha fatto seguito.

Si pensi, anzitutto, alla nota pronunzia della Corte costituzionale 4-18 marzo 1992 n. 108 2, a seguito della quale si era consolidata la tesi secondo cui l'esame dibattimentale di persona che avesse rivestito la qualità di coindagato o di indagato di reato connesso, nei cui confronti fosse stato pronunciato provvedimento di archiviazione, doveva essere condotto con le forme e con la garanzia previste dall'art. 210, sussistendo anche in queste ipotesi l'incompatibilità a testimoniare prevista dall'art. 197 c.p.p. Secondo lo stesso orientamento, l'incompatibilità a testimoniare doveva estendersi altresì all'indagato di reato collegato nei cui confronti fosse stata pronunciata archiviazione, nonostante la diversa e riduttiva formulazione letterale dell'art. 197, lett. b), nella previgente formulazione 3.

Si pensi, ancora, alla sentenza della Corte costituzionale del 2 novembre 1998 n. 361, che ha assimilato alla persona ex art. 210 anche l'imputato che debba essere sentito sulla responsabilità del coimputato nei confronti del quale si procede congiuntamente, nell'ambito dello stesso dibattimento.

A ciò va aggiunto l'indirizzo giurisprudenziale, tuttora ampiamente maggioritario, secondo cui il criterio decisivo ai fini dell'applicazione delle norme sulla testimonianza o, piuttosto, di quelle riguardanti persone di cui all'art. 210 è rappresentato dall'elemento formale della iscrizione o meno quale indagato, nel registro di cui all'art. 335, del soggetto rispetto al quale si pone il problema della interferenza con la posizione dell'imputato nei confronti del quale si sta procedendo 4.

Alla luce di quanto sopra non può sfuggire ad un attento osservatore l'evoluzione sistemica verso una categoria di persona di cui all'art. 210 c.p.p. (e, «per esclusione», del testimone) affatto eterogenea e con scarso valore definitorio, rispetto a cui le connotazioni formal-processualistiche sembrano prevalere nettamente rispetto a quelle ontologico-sostanzialistiche. Il che è gravido di implicazioni rilevanti ai fini dell'esito del giudizio.

Tale evoluzione sembra essere stata portata a compimento con la legge n. 63/2001 sul c.d. giusto processo che, da un lato, ha introdotto, accanto alle tradizionali fonti di prova orale, la singolare figura del testimone assistito, e dall'altro, ha finito col degradare l'una e le altre da variabili indipendenti del sistema processual-penale a mere variabili dipendenti di complessi meccanismi (endo o inter) processuali.

Le nozioni di testimone comune, di testimone assistito e di persona di cui all'art. 210 c.p.p. perdono, così, il proprio valore evocativo e definitorio, e vanno ad indicare istituti e posizioni soggettive di matrice esclusivamente normativa, dai confini mobili, tanto da rappresentare, ormai, mere sintesi verbali (rectius: da racchiudere in sè una serie di sintesi verbali).

Esse, in realtà, non delineano i contorni di entità preesistenti alla dinamica del processo penale, ma sono figure che nascono, si modificano e muoiono nell'ambito di «quello» specifico processo, secondo una complessa combinazione di criteri e sulla base di singole evenienze ed accadimenti processuali (recte: procedimentali).

Così, il soggetto indicato nella lista di cui all'art. 468 come testimone comune può immediatamente «mutare» tale qualifica per effetto di una denunzia presentata a suo carico - anche strumentalmente o addirittura per effetto di er- Page 400 rore di persona - per concorso nel reato oggetto della regiudicanda o per altro reato connesso e collegato.

Il fatto che l'assoluta estraneità del soggetto in questione venga, poi, accertata - persino con sentenza di assoluzione divenuta irrevocabile - non potrà mai valere a far rivivere la perduta qualità di testimone comune (al massimo il soggetto potrà «ambire» ad acquisire la veste di testimone assistito, con l'obbligo di pagarsi l'avvocato e con il marchio normativo della semiplena affidabilità).

Per converso, una persona imputata per reato connesso o collegato per il quale si proceda separatamente, «entra» nel processo come persona di cui all'art. 210 c.p.p., ma può poi vedersi «promossa» al rango di testimone assistito perché nelle more del giudizio è passata in giudicato la sentenza che lo vede a sua volta imputato (e, quindi, per una questione di tempi della macchina processuale). Salvo poi acquisire nuovamente l'originaria qualifica ex art. 210 nel caso in cui venga successivamente denunziato per favoreggiamento od altro reato.

Tale mobilità delle frontiere tra le diverse vesti formali di dichiarante non è certamente priva di conseguenze.

Trattasi, indubbiamente, di uno snodo cruciale del processo penale, atteso che il diverso «ritaglio» delle rispettive figure soggettive processuali delimita l'ambito di applicazione dei rispettivi statuti, finendo per «condizionare» pesantemente l'esito del giudizio.

In particolare, la rimarcata volatilità dello status di testimone comune - definitivamente dissolto per effetto della mera iscrizione del soggetto nel registro degli indagati per reati in rapporto di interferenza con quello rispetto a quello per cui si procede - è gravida di implicazioni processuali, alcune delle quali letteralmente «devastanti» sotto il profilo della formazione della prova e, più in generale, dell'accertamento della verità.

Tali conseguenze derivano, anzitutto, dal fatto che l'assunzione della qualità di «persona sottoposta ad indagini» scaturisce da circostanze spesso arbitrarie, senza un preventivo filtro da parte dell'autorità giudiziaria. Persona sottoposta ad indagini è la «persona alla quale il reato è stato attribuito» (cfr. art. 335 comma 1 c.p.p.), tanto nella denunzia del comune cittadino, che nella informativa di polizia giudiziaria o, infine, nella notitia criminis acquisita d'iniziativa dal pubblico ministero.

Ne consegue che alla nozione di «persona sottoposta ad indagini» sono riconducibili fattispecie affatto eterogenee: quella del soggetto denunziato per errore di persona o vittima di calunnia, quella della persona a carico della quale esistono indizi di colpevolezza tali da giustificarne la successiva richiesta di rinvio a giudizio; quella della persona a carico della quale indizi di reità sono insussistenti o sono tali da non consentire di sostenere l'accusa in giudizio (cfr. art. 125 att.); quella del soggetto indagato per reato (poi) estinto. A tale eterogeneità si aggiunge l'inesistenza di un sistema generale di certificazione della assunzione della qualità di «indagato», contrariamente a quanto previsto per quella di «imputato» (cfr. art. 110 comma 1 lett. c, att.) 5.

Orbene, se - come emerge in modo inequivocabile dal sistema di norme che si andranno ad esaminare - un soggetto, solo per il fatto di avere assunto, a qualsiasi titolo, la qualità di «persona sottoposta ad indagini» per il reato per cui si procede, o per un reato connesso o «collegato», anche se tale «qualità» sia venuta meno, non può più essere sentito come testimone comune, si corre il rischio di veder ripristinata l'antica regola unus testis, nullus testis.

Si pensi a tutti i casi in cui l'unica fonte di prova a carico dell'imputato sia rappresentata dalla testimonianza della persona offesa (ad es.: tentativi di concussione o di estorsione, a reati di violenza sessuale nei casi in cui non si producano «segni» sul corpo della vittima, alle minacce, ingiurie, ecc.): l'imputato avrebbe buon gioco denunziando per calunnia o falsa testimonianza il suo accusatore. Quest'ultimo non potrà più essere sentito come testimone comune ma, a seconda dello stato o degli esiti della denunzia, come testimone assistito o come dichiarante ex art. 210 c.p.p.: con la medesima conseguenza che, qualora manchino elementi di riscontro esterno 6, l'imputato non potrà essere condannato (e, per la stessa ragione, andrà esente da responsabilità anche in ordine all'eventuale delitto di calunnia strumentale).

Tutto ciò senza considerare la possibilità che, a causa di modus operandi diversi da parte della polizia giudiziaria e dell'autorità giudiziaria si possono creare evidenti ed irrazionali disparità di trattamento.

Due esempi pratici possono essere eloquenti. a) Un tossicodipendente viene colto in possesso della «dose» di stupefacenti.

Dinanzi a questa situazione alcune forze di polizia procedono fin dall'inizio a segnalare il soggetto al prefetto ex art. 75 D.P.R. n. 309/1990, e da parte sua il pubblico ministero iscrive il procedimento...

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