Metamorfosi dell'imputazione e abnormità processuali: un singolare caso di regressione del procedimento a seguito di contestazione suppletiva dibattimentale

AutoreFranco Tetto
Pagine214-223

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  1. La concreta fattispecie processuale e i principi di diritto applicati dalla Suprema Corte. - Con la sentenza in epigrafe (della quale non risultano precedenti specifici) la Corte di cassazione ha ritenuto il carattere abnorme del provvedimento (nella specie adottato nella forma dell'ordinanza) con il quale il Tribunale di Castrovillari in composizione monocratica, riscontrata la propria «incompetenza per materia» in ordine al reato oggetto della contestazione suppletiva operata dal P.M. nel corso (e, per quel che è dato di capire, a seguito delle risultanze) dell'istruzione dibattimentale, disponeva la trasmissione degli atti al tribunale della stessa città in composizione collegiale. Ai fini di una corretta delimitazione del decisum della Corte, appare opportuno dar conto della concreta fattispecie processuale di riferimento. Ed invero, come è dato desumere dalla premessa motivazionale della sentenza, nel caso di specie il P.M. si era limitato, nel corso dell'istruttoria dibattimentale, a contestare (evidentemente, ai sensi dell'art. 517 c.p.p. o comunque ai sensi dell'art. 516 c.p.p.) «l'ipotesi aggravata prevista dal capoverso dell'art. 434 c.p.», in sostituzione dell'originaria imputazione (contenuta nel decreto che dispone il giudizio) concernente la fattispecie delittuosa «semplice» di cui al primo comma del citato art. 434 c.p. Consequenziale all'esercizio del predetto potere di modifica (lato sensu) dell'imputazione da parte del dominus dell'azione penale, si era imposto tuttavia al giudice del dibattimento il rilievo della propria «incompetenza» a decidere nel merito, essendo attribuita infatti - quoad poenam - detta competenza al tribunale in composizione collegiale, ex combinato disposto degli artt. 33 bis comma 2 e 4 c.p.p.: rilievo che induceva il giudice monocratico a trasmettere gli atti direttamente al giudice ritenuto competente, non ravvisando la necessità di una trasmissione degli atti al P.M., la quale avrebbe, di fatto, comportato una (inutile) regressione del processo dalla fase dibattimentale.

    La Corte, con la pronuncia che si annota - seguendo un percorso argomentativo apoditticamente riduttivo (poiché incoerente rispetto al sub-sistema normativo introdotto dalla c.d. «Legge Carotti») - ha accolto le censure mosse dalla difesa di uno degli imputati al provvedimento del giudice monocratico «limitatamente alla disposta trasmissione degli atti al Tribunale di Castrovillari in composizione collegiale», pervenendo ad una declaratoria di annullamento senza rinvio del provvedimento de quo, qualificato abnorme «in quanto si pone per il suo contenuto in contrasto con i principi generali dell'ordinamento processuale sia per quanto concerne la violazione dei diritti di difesa, sia con riferimento all'esercizio dell'azione penale, la cui titolarità spetta esclusivamente al P.M. presso il giudice competente in virtù del principio di cui alla sentenza 76/1993 della Corte costituzionale».

    L'impianto motivazionale adottato dai giudici di legittimità - come emerge dall'espresso richiamo della citata sentenza della Corte costituzionale n. 76/1993 1 (con la quale veniva dichiarata l'illegittimità costituzionale dell'art. 23 comma 1 c.p.p. «nella parte in cui dispone che, quando il giudice del dibattimento dichiara con sentenza la propria incompetenza per materia, ordina la trasmissione degli atti al giudice competente anziché al pubblico ministero presso quest'ultimo») - poggia su una premessa di fondo ancorata al dato «formale» rappresentato dalla operata ricostruzione dei rapporti tra le diverse articolazioni (composizione monocratica o collegiale) del (medesimo) organo giurisdizionale (tribunale) in termini di «(in)competenza per materia» e sulle connesse ricadute, nell'ambito di tali rapporti, derivanti dall'esercizio da parte del P.M. del potere di contestazione «suppletiva» nel corso del dibattimento. In realtà, tale ultimo profilo processuale (attinente, cioè, alla reale portata applicativa delle norme di cui agli artt. 516, 517 e 518 c.p.p.) nella sentenza in commento rimane «in ombra», anche se viene dalla Corte implicitamente valorizzato (v. in parte qua, il richiamo, quale precedente giurisprudenziale, di Cass., sez. VI, n. 3063 del 15 settembre 1995) a fondamento della ritenuta «abnormità» del provvedimento impugnato, sotto il duplice profilo della violazione dei diritti di difesa dell'imputato e del principio della esclusiva titolarità dell'azione penale in capo al P.M. 2.

    Così ricostruito il ragionamento ermeneutico seguito dalla Corte, lo stesso suscita non poche perplessità sia nell'impostazione che nelle conclusioni.

    Quanto al primo aspetto, appare non condivisibile il richiamo del (solo) art. 23 comma 1 c.p.p. (come «additivamente» interpretato dal giudice delle leggi con la citata sentenza n. 76 del 1993), senza, per contro, alcun riferimento anche all'art. 521 comma 3 c.p.p.: norma la cui applicazione appariva, in astratto, certamente più pertinente nel caso di specie, in quanto «speciale» (rispetto al citato art. 23) e volta a disciplinare i casi di «illegittimo» esercizio del potere del P.M. di «modifica» e/o «ampliamento» del thema decidendum dibattimentale, con specifico riferimento alla preclusione (a detto esercizio) sancita nel comma 1 dell'art. 516 e nel comma 1 dell'art. 517 e rappresentata dalla eventuale configurabilità di una competenza «di un giudice superiore».

    Al riguardo, è appena il caso di evidenziare come possa ritenersi pacifica, nella giurisprudenza di legittimità 3, l'affermazione secondo cui «il codice di rito, in applicazione della direttiva n. 78 della legge delega ("potere del pubblico ministero nel dibattimento di procedere alla modifica dell'imputazione e di formulare nuove contestazioni inerenti ai fatti oggetto del giudizio") ha limitato la possibilità per il titolare dell'azione penale di ampliare la materia del processo, consentendo soltanto la modifica dell'imputazione, se il fatto risulta diverso da come è descritto nel decreto che dispone il giudizio e non appartiene alla competenza di un giudice superiore (art. 516 c.p.p.: c.d. contestazione "sostitutiva"), ovvero la contestazione di un reato connesso a norma dell'art. 12, lett. b), c.p.p. o una circostanza aggravante, non risultanti nel predettoPage 215 decreto, sempre che la cognizione non appartenga alla competenza di un giudice superiore (c.d. contestazione suppletiva "aggiuntiva", art. 517 c.p.p.). Al di fuori di quest'ultima ipotesi (e di quella, eccezionale perché consentita dall'imputato ed autorizzata dal giudice, di cui all'art. 518 comma 2 c.p.p.), la possibilità dell'ampliamento dell'oggetto del giudizio mediante contestazione di un "fatto nuovo" emerso nel corso del dibattimento e non enunciato nel decreto che dispone il giudizio è espressamente esclusa, dovendo in tal caso il P.M. procedere nelle forme ordinarie (art. 518 comma 1 c.p.p.), richiedendo cioè la trasmissione di copia degli atti compiuti nell'istruttoria dibattimentale che tale fatto hanno evidenziato ed iscrivendo la relativa notitia criminis nel registro di cui all'art. 335 c.p.p.». In altri termini, «nel sistema processuale vigente, l'esercizio dell'azione penale rientra nella esclusiva titolarità del P.M., che è dominus esclusivo dell'azione e che, secondo la specifica direttiva della legge delega, nel corso del dibattimento, ha l'autonomo potere di procedere alla modifica dell'imputazione e di formulare nuove contestazioni inerenti ai fatti oggetto del giudizio... L'esercizio del potere di contestazione è attribuito direttamente al P.M. e al giudice è inibito ogni controllo preventivo sulla nuova contestazione, salva l'ipotesi di cui all'art. 518, comma 2, là dove si prevede, però, una deroga alla regola posta al P.M. (art. 518 comma 1) di procedere nelle forme ordinarie, cioè con azione separata, nei casi in cui non è ammessa la contestazione suppletiva "ordinaria" di cui all'art. 517. Il rimedio all'inosservanza del dovere del titolare dell'azione penale di osservare i limiti posti dagli artt. 516, 517 e 518 c.p.p. alla sua possibilità di ampliare il thema decidendum, in assenza di un filtro giudiziale alle contestazioni dibattimentali che alla sua iniziativa restano pur sempre riservate, è la restituzione degli atti all'ufficio di procura, secondo quanto espressamente dispone l'art. 521 comma 3 c.p.p.

    Quest'ultima disposizione, che funge da norma di chiusura della disciplina delle contestazioni dibattimentali, deve essere coordinata con l'art. 23 del codice di rito (incompetenza dichiarata nel dibattimento di primo grado), la cui applicabilità "ove necessario" in caso di nuove contestazioni è richiamata espressamente nella selezione ministeriale al progetto preliminare del nuovo codice di procedura penale. Il giudice, dunque, non ha alcun potere sull'oggetto dell'imputazione e sulle autonome determinazioni del P.M. circa le modalità di esercizio dell'azione penale, se non quelli previsti dai tre commi dell'art. 521».

  2. La corretta impostazione della tematica relativa ai rapporti tra giudice monocratico e collegiale alla luce della c.d. «riforma Carotti». - Disegnata, nei termini sopra richiamati, la cornice normativa cui rapportare i casi di sopravvenuta - nel corso del dibattimento di primo grado ed in conseguenza delle contestazioni modificative e suppletive operate dal P.M. - incompetenza «per materia» del giudice (con estensione, in virtù della sentenza della Corte cost. n. 70 del 1996, della medesima regola della trasmissione degli atti al P.M. anche all'ipotesi di incompetenza per territorio), non può non evidenziarsi come il predetto tessuto normativo (già di per sè non di agevolissima lettura) abbia subito profonde innovazioni a seguito dell'entrata in vigore del D.L.vo 19 febbraio 1998, n. 51 (nota come «Legge sul giudice unico») a sua volta modificato dalla L. 16 dicembre 1999, n. 479 (c.d. «Legge Carotti»): innovazioni, inspiegabilmente ignorate dalla Suprema Corte nella...

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