Il libretto casa tra amicus curiae, prestazione imposta ed irrazionalità

AutoreRiccardo Maia
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@1. Il contesto

I crolli di taluni edifici in varie città italiane hanno offerto l'occasione, ma forse meglio sarebbe dire il pretesto, per iniziative politiche improvvisate a differenti livelli, tra le quali si colloca l'approvazione della L.R. Campania n. 27 del 2002.

Sul ricorso proposto in via d'azione dal Governo contro questo testo legislativo la Corte costituzionale ha recentemente pronunciato la sentenza n. 315 del 2003, in questa Rivista 2003, 785, chiudendo, forse definitivamente, la strada all'attivismo degli enti locali che, dapprima attraverso strumenti amministrativi e poi attraverso leggi regionali, hanno tentato a più riprese di imporre la creazione del c.d. «libretto casa».

Un attivismo, conviene chiarire fin d'ora, forse animato da buone intenzioni ma assai mal costruito sul piano costituzionale.

Seppur brevemente è utile qui richiamare i passaggi della vicenda che hanno condotto alla pronuncia della Corte.

La L.R. Campania n. 27 del 2002 1 non è in effetti che l'ultimo passaggio di una vicenda per la verità piuttosto complessa e la pronuncia della Corte in commento, inserita nel contesto che l'ha originata, pare assumere un rilievo (e dar luogo a conseguenze) tale da superare per portata le norme puntualmente dichiarate incostituzionali.

All'origine di tutto, va collocato un luttuoso episodio di crollo di edificio nella città di Foggia, seguito da diverse ordinanze sindacali ed atti comunali istitutivi di «fascicoli», variamente denominati, volti a raccogliere informazioni riguardanti le condizioni di sicurezza dell'immobile 2; «fascicoli» da predisporre ed aggiornare periodicamente a cura dei proprietari di fabbricati.

Sui provvedimenti amministrativi richiamati si è a più riprese pronunciata la giurisprudenza amministrativa che, dopo qualche iniziale tentennamento, ha da ultimo ricondotto il c.d. «libretto casa» alla categoria delle «prestazioni imposte ai cittadini» e pertanto, ai sensi dell'articolo 23 Cost., illegittime in assenza di una specifica previsione legislativa 3.

La L.R. n. 27/02 Campania 4 configura in questo quadro un vero tentativo di salvataggio operato dalla Regione; essa ha riprodotto con fonte primaria, seppure regionale, il contenuto sostanziale di quella «prestazione imposta» che gli enti locali da soli non potevano creare proprio per la rilevata violazione dell'articolo 23 Cost.

@2. La decisione

Le censure mosse dal Governo col ricorso n. 96 del 31 dicembre 2002 5 investivano, per la verità, non l'insieme del testo ma i «soli» artt. 2, 4, 5, 7 e 8 e su questi la Corte ha conseguentemente pronunciato. La nettezza degli argomenti utilizzati è tuttavia tale da far ritenere che sia l'impianto complessivo della legge ad essere stato travolto.

La legge regionale prevedeva che per ogni fabbricato, pubblico o privato, ubicato nel territorio regionale, venisse istituito un «registro storico-tecnico-urbanistico», al dichiarato fine «di tutelare e salvaguardare la pubblica e privata incolumità» (art. 1).

Una pluralità di «tecnici erariali» avrebbero dovuto essere nominati (ingegneri, architetti, geologi, geometri, periti edili) tra gli iscritti ai rispettivi ordini professionali «nel rispetto delle competenze proprie di categoria» (art. 2).

Nel registro avrebbero dovuto essere riportate «tutte le informazioni riguardanti la sicurezza, la situazione progettuale, urbanistica, edilizia, catastale, strutturale, impiantistica, di smaltimento acque, geologica del sottosuolo, autorizzativa, l'esistenza di vincoli, con le modificazioni e gli adempimenti

intervenuti nel tempo», con l'ulteriore obbligo di redigere annualmente una scheda di sintesi da trasmettere all'ufficio tecnico comunale competente per territorio (art. 3).

Dettagliati obblighi di comunicazione verso l'amministrazione venivano poi previsti tra i doveri del «tecnico incaricato» e del notaio che si fosse trovato a rogare il trasferimento di diritti reali sul fabbricato (artt. 4 e 7), prevedendo anche un apparato sanzionatorio che poteva giungere alla sospensione dell'abitabilità dell'edificio (art. 5).

La Giunta regionale, infine, «sentiti gli ordini ed i collegi professionali tecnici interessanti», avrebbe dovuto emanare un regolamento di attuazione comprensivo delle tariffe imperativamente determinate per le prestazioni dei professionisti (art. 8).

Il ricorso del Governo, di formulazione assai sintetica, si limitava a rilevare il contrasto della disciplina regionale con gli artt. 117 lettera L, 3, 42 e 97 della Costituzione. In particolare perché:

a) gli artt. 2, 4, 7 ed 8 della legge alterano le norme del codice civile in tema di autonomia privata, di disciplina dei rapporti contrattuali e dei diritti reali, nonché le disposizioni statali in tema di amministrazione dei beni pubblici appartenenti allo Stato ed agli enti nazionali;

b) i commi 2 e 3 dell'articolo 5 della legge prevedono sanzioni che, oltre ad invadere la materia "ordinamento civile" possono causare disuguaglianze e turbare il buon andamento delle attività amministrative

.

Pur non disconoscendo che l'iniziativa della Regione Campania potesse, in linea di principio, rispondere ai fini di interesse generale si stigmatizzava quindi la pretesa di imporre l'obbligo di stipulare contratti civilistici e porre limiti alla utilizzazione e circolazione delle proprietà.

La decisione della Corte, nel sancire l'illegittimità costituzionale della gran parte delle norme impugnate, sembra però sorvolare su altri profili del ricorso del Governo per concentrarsi, con icastica sintesi, sull'irrazionalità-irragionevolezza della legge regionale: «se nessun dubbio può sussistere riguardo alla doverosità della tutela della pubblica e privata incolumità, che rappresenta lo scopo dichiarato della legge, [...] non è neppure contestabile che la previsione di siffatto obbligo e dei conseguenti oneri economici deve essere compatibile con il principio di ragionevolezza e proporzionalità e che le relative modalità di attuazione debbono essere adeguate allo scopo perseguito dal legislatore».

La motivazione è tutta qui ed i sintomi dell'irrazionalità vengono individuati in tre elementi precisi: Page 8

1) a dispetto della formulazione testuale dell'art. 2 della legge, la tenuta del «libretto casa» imponeva l'individuazione non di un solo «tecnico incaricato» bensì di una pluralità di professionisti abilitati, determinando così, nel combinato disposto dell'art. 2 con l'art. 4, una disciplina «intimamente contraddittoria e, quindi, irragionevole»;

2) le informazioni richieste al tecnico sono già in possesso delle amministrazioni ed alcune di esse risultavano ultronee rispetto al fine perseguito della pubblica e privata incolumità;

3) le forme di controllo apparivano affette da manifesta genericità ed indeterminatezza.

La decisione, pur nell'apparente chiarezza si presta ad alcune osservazioni sia sul piano processuale che su quello degli effetti sostanziali.

@3. Un amicus per la Corte?

Con due distinti atti sono intervenuti nel giudizio instaurato dal Governo alcune associazioni di inquilini e la Confedilizia in rappresentanza dei proprietari immobiliari 6.

Quest'ultimo intervento, in particolare, presenta profili d'interesse essendo stato fatto a sostegno delle posizioni del Governo ma contenendo argomentazioni ben più articolate di quelle introdotte dall'Avvocatura dello Stato.

La Corte, con un facile richiamo ai propri precedenti, ha escluso l'ammissibilità di entrambi gli interventi in conformità all'orientamento ormai tralatizio della giurisprudenza costituzionale che, con particolare rigidità nei procedimenti in via principale, non ammette la presenza di soggetti diversi dalla parte ricorrente e dal titolare della potestà legislativa il cui esercizio è oggetto di contestazione 7.

Un'osservazione tuttavia s'impone ove si consideri che, implicitamente, nello stesso atto d'intervento la Confedilizia aveva riconosciuto la propria carenza di legittimazione scegliendo, fin dalla forma, di non depositare un atto di costituzione bensì una «memoria a valere come apporto spontaneo all'istruttoria ex art. 12 Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale (16 marzo 1956)».

Non si trattava quindi di intervento nel giudizio in senso tecnico ma di «apporto spontaneo all'istruttoria» ed alla luce di questa precisazione la Corte avrebbe forse dovuto dedicare qualche parola in più alla motivazione dell'esclusione che invece è stata disposta facendo ricorso alla formula di rito.

Invero, benché parte della dottrina abbia da molto tempo affrontato il tema della presenza dell'amicus curiae nella giustizia costituzionale italiana, 8 e la figura già sia ben nota negli ordinamenti anglosassoni, 9 la Corte, nel silenzio della legge, ne ha sempre escluso l'ammissibilità.

Gli stessi argomenti richiamati dalla memoria della Confedilizia a sostegno della ricevibilità della memoria appaiono non del tutto concludenti:

a) la richiamata eccezione introdotta dalla sent. n. 31 del 2000 10 in materia di referendum, dove memorie provenienti da soggetti terzi furono ammesse, resta ad oggi, appunto, un'eccezione, giustificata in motivazione dalla Corte con la peculiarità del giudizio di ammissibilità del referendum, nel quale l'esistenza stessa di una forma di contraddittorio è frutto dell'elaborazione giurisprudenziale 11;

b) il richiamo fatto dalla Corte, nella sent. n. 31 del 2000, alla circostanza che il giudizio di ammissibilità sia «teso a far valere limiti obiettivi [...] e non a giudicare su posizioni soggettive di parte» non giova alla tesi di chi auspica un'estensione del modello anche ai giudizi in via principale, tradizionalmente considerati come giudizi di parte (e perciò coerentemente rinunciabili) dove più complessa appare l'individuazione dell'interesse generale di cui l'amicus potrebbe essere portatore 12;

c) un ulteriore ostacolo testuale poi si oppone all'utilizzabilità dell'art. 12 delle Norme integrative nei giudizi in via principale: è tutt'altro che...

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