L’art. 507 C.P.P.: illusione e realtà, passato e futuro

AutoreLuca Marafioti

    Versione aggiornata e con l’aggiunta di note essenziali della Relazione tenuta al Convegno “A vent’anni dal Codice del 1989. Riforme organiche per rilanciare il processo di parti”, organizzato dall’Unione Camere Penali Italiane e tenutosi a Roma il 16 ottobre 2009.

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1. Attualità del punto sull’art. 507 c.p.p.

A più di venti anni dall’entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale, una riflessione su un tema di grande rilievo, come quello del rapporto tra i poteri delle parti e quelli del giudice dibattimentale in materia di prova, non può che muovere da una premessa generale, suggerita da tendenze che sembrano oggi prevalere in molti settori istituzionali. Anche in materia di giustizia penale - così come avviene per ordinamenti istituzionali diversi -accade, infatti, sempre più di frequente, che la pressione indotta da fattori e problemi contingenti allontani la ricerca di soluzioni efficaci e durature. Gli interventi normativi, così come, talvolta, gli stessi indirizzi della dottrina, sembrano, invero, privilegiare adattamenti e correzioni tecniche nella logica della fattibilità immediata e della minore resistenza.

Si tratta, con tutta evidenza, di scelte per lo più miopi, spesso inutili se non dannose, imposte dalla implicita consapevolezza delle difficoltà che si frappongono a riforme politico-istituzionali e organizzative di grande impegno, che comporterebbero un ripensamento strutturale e radicale degli assetti esistenti, al fine di eliminare lacune e disfunzioni che l’esperienza concreta ha posto in evidenza.

Non sfugge ad una simile tendenza, il tema oggetto di questo intervento, ossia il rapporto tra giudice e parti e tra prova e giudizio. Una materia che ha generato incertezze e distorsioni interpretative, come confermato dalla travagliata vicenda giurisprudenziale dell’art. 507 c.p.p., sul quale, in questa sede, si vorrebbe tentare qualche rilievo “a vent’anni dal codice e in una prospettiva di riforme organiche”. Insomma, si tratta di un contributo che si atteggia come una sorta di Giano bifronte: guardare al futuro dell’art. 507 c.p.p., ma con un occhio rivolto al passato.

Vista la centralità della tematica in esame, una premessa metodologica appare, tuttavia, doverosa: i principi essenziali del sistema processuale implicati rendono inadeguato un approccio al tema di tipo “tecnico”, imponendo, piuttosto, una riflessione ben più ampia sugli stessi valori ideali cui il nostro modello di giustizia penale appare ispirato. In particolare, occorre evitare atteggiamenti semplicistici, pensando magari di affidare a “micro-norme” di procedura penale modesti aggiustamenti nei confronti di una disposizione che rappresenta la norma-chiave nella disciplina dei rapporti che, in tema di prove, si instaurano tra giudice e parti.

Del resto, se la lettura oltranzista dell’art. 507 c.p.p., oltre ad essere avallata dai supremi organi giurisdizionali, non ha conosciuto sostanziali ripensamenti nell’arco di questi venti anni, il problema va al di là della ricerca di una praticabile soluzione normativo-interpretativa, investendo fattori più profondi e tenaci che hanno a che fare, piuttosto, con una solidissima tradizione culturale in campo giudiziario.

Nel corso di questo ventennio, infatti, la vicenda del rapporto tra giudice e parti in materia di prova ha indubbiamente subito un percorso interpretativo di segno “revisionistico” rispetto all’impianto originario. Un rovesciamento che, peraltro, non è confinato in aspetti tecnici e “meramente” procedurali, ma ha ribaltato il segno innovatore del codice, riproponendo interrogativi sui valori fondanti del modello di processo penale prescelto: principio dispositivo e correlativi limiti alla conoscenza del giudice.1

Come noto, la scelta operata nel 1989 dal legislatore rappresentava una vera e propria “rivoluzione strutturale”2 dell’assetto preesistente, largamente imperniato sull’iniziativa probatoria del giudice istruttore. Nell’ottica inquisitoria del sistema misto, infatti, l’obiettivo prioritario era inevitabilmente costituito dalla ricerca della verità e, pertanto, i compiti di accertamento assegnati al giudice risultavano difficilmente sottoposti a vincoli o limitazioni consistenti. In tale assetto, è logico che il ruolo delle parti restasse necessariamente in ombra e di secondo piano rispetto all’ampiezza dei poteri riconosciuti al giudice in materia di acquisizione della prova.3

Con l’entrata in vigore del nuovo codice, per converso, l’iniziativa probatoria in ordine all’istruzione dibattimen- tale, che si sostanzia nella ricerca, selezione e presentazione delle fonti di prova, spetta in via del tutto principale alle parti. Il pubblico ministero e il difensore ricercano e selezionano il materiale utilizzabile ai fini della decisione, confinando, così, l’operato dell’organo giurisdizionale sul

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terreno residuale riservato a singoli interventi di supplenza dell’(in)attività di parte.4

Una simile valorizzazione dell’iniziativa probatoria delle parti assegna a queste ultime inedite responsabilità, estese non solo all’apporto di mezzi conoscitivi ed alla elaborazione dialettica della prova, ma anche alla definizione del thema probandum. Specularmente, il giudice penale risulta ora vincolato al tema decisionale fissato dalle parti (alligata) e ai mezzi probatori a sostegno delle ipotesi ricostruttive argomentate dalle stesse (probata).

Tale opzione in favore di un sistema processuale improntato al principio dispositivo5 e al contraddittorio prefigura le condizioni ottimali per garantire adeguatamente l’imparzialità del giudice. Non si tarda, invero, a comprendere che il rafforzamento dei poteri probatori delle parti ed il simmetrico depotenziamento dell’organo giurisdizionale costituiscono un’unica trama del disegno inteso a valorizzare una dialettica cognitiva dalla quale scaturiscono le condizioni per una effettiva neutralità metodologica del giudicante e, dunque, per la sua imparzialità.6

Sotto questo profilo, la nozione di imparzialità fatta propria dal codice, nel misurarsi con lo specifico tema dei limiti probatori del giudice dibattimentale, si salda ad una necessaria condizione di ignoranza dello stesso in ordine alle attività compiute dalle parti nelle fasi precedenti.7 E ciò nella consapevolezza che tale situazione gnoseologica costituisca il presupposto per evitare ogni condizionamento pre-giudiziale, che derivi dalla conoscenza preventiva sia della posizione delle parti, sia di elementi in grado di orientare l’organo della decisione verso una personale ipotesi ricostruttiva.8

Strumentale all’obiettivo di limitare il più possibile la conoscenza giudiziale delle attività preliminari mirate alla ricostruzione del fatto sono, da un lato, il principio di separazione funzionale delle fasi, su cui si è costruita l’intera architettura del nuovo modello processuale e, dal l’altro lato, il meccanismo del doppio fascicolo,9 in forza del quale gli atti delle indagini e dell’udienza preliminare assumono una diversa collocazione in ragione della loro sostanziale efficacia probatoria.

L’innalzamento di simili argini cognitivi - elementi essenziali di coerenza di un sistema basato sulla formazione dialettica del convincimento giudiziale - impone, in chiave compensativa, un ruolo più attivo delle parti nelle dinamiche probatorie. Finendo, così, per esaltare le potenzialità epistemologiche del contraddittorio, nel tentativo di depurare il più possibile il percorso di cognizione del giudice da pregiudiziali condizionamenti soggettivi.10

In questa specifica prospettiva, allora, “il velo d’ignoranza” è destinato a costituire “la conferma sistematica della residualità dei poteri probatori del giudice”.11

2. Trame codicistiche e dinamiche giurisprudenziali

Una volta evidenziato che il principio dispositivo e l’imparzialità del giudice rispetto alle scelte probatorie delle parti rappresentano altrettanti canoni fondamentali del modello di giustizia penale cui il nostro sistema processuale risulta ispirato, appare possibile rilevare che l’intera disciplina normativa dei rapporti tra giudice e parti in materia di prova risulta, complessivamente, chiara e intrinsecamente coerente con tali principi.

Stabilisce, infatti, l’art. 190 comma 1 c.p.p. che “le prove sono ammesse a richiesta di parte”, mentre al giudice residua un mero potere di controllo, potendo escludere solo le prove vietate dalla legge o quelle che appaiono, manifestamente, superflue o irrilevanti.

Con specifico riguardo al dibattimento,12 le parti hanno l’onere di presentare, almeno sette giorni prima, le liste dei testimoni, periti, consulenti tecnici, nonché dei coimputati da esaminare a norma dell’art. 210 c.p.p. (art. 468 comma 1 c.p.p.). Regola che incontra eccezioni soltanto per il caso del giudizio direttissimo (art. 451 comma 3 c.p.p.) o per quello in cui la parte dimostri di non aver potuto compiere una tempestiva indicazione nel termine previsto (art. 493 comma 2 c.p.p.). Le parti assumono un ruolo predominante anche nel corso dell’escussione delle prove, affidata al metodo dell’esame diretto e incrociato, restando al giudice compiti diretti ad assicurare “la pertinenza delle domande, la genuinità delle risposte, la lealtà dell’esame, la correttezza delle contestazioni” e, più in generale, “il rispetto della persona” (art. 499 commi 4 e 6 c.p.p.).

Residuano al giudice eventuali poteri di completamento di un esame ritenuto insufficiente attraverso l’indicazione alle parti di temi nuovi o incompleti di prova e la possibilità di rivolgere direttamente domande, salvo sempre il potere delle parti di concludere l’esame (art. 506 commi 1 e 2 c.p.p.).

A completare un quadro normativo volto a conciliare il rispetto del diritto alla prova assegnato alle parti con l’esigenza di assicurare un accettabile standard di qualità dell’accertamento, l’art. 190 comma 2 c.p.p. aggiunge, poi, una generale deroga al principio dispositivo, prevedendo che “la legge stabilisce i casi in...

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